giovedì 31 gennaio 2008

LA LITURGIA IN USO NELLA VENEZIA GIULIA. ALCUNE CONSIDERAZIONI

Sino al Vaticano II, le lingue universali della Chiesa di Roma sono state solo tre: ebraico, greco, latino. Di fatto, la lingua universale del culto era proprio il latino.
Al momento della conversione degli Slavi, inizialmente i pontefici Adriano II (morto 872) e Giovanni VIII (morto 880) avevo consentito la celebrazione nella lingua slava, con la scrittura glagolitica, ma poi la concessione fu revocata (concilio di Spalato, 925), rimanendo permesse come lingue universali sole le tre suddette.
La missione evangelizzatrice latina-cattolica nell’area slava della Dalmazia e della Croazia dovette competere non solo coi missionari ortodossi, ma anche con la sopravvivenza, dopo l’adesione dei Croati all’ecumene cattolica facente capo a Roma, con la sopravvivenza dei rito slavo. (M. Lacko, I Concili di Spalato e la liturgia slava, in A. Matanić (a cura di), Vita religiosa, morale e sociale ed i concili di Split (Spalato) dei sec. X-XI. Atti del Symposium internazionale di storia ecclesiastica (Split, 26-30 settembre 1978), Padova 1982, pp. 443-482). Il concilio di Spalato (925) rafforzò il processo di latinizzazione dell’area, cercando di limitare il più possibile l’uso dello slavo nella liturgia, poiché esso costituiva di fatto un’eredità legata alla tradizione ortodossa. Si venne così a costituire col tempo un confine, segnato in primo luogo dalla circolazione dei libri liturgici in alfabeto latino e in alfabeto cirillico, che emarginarono progressivamente il glagolitico e l’impiego delle lingue slave nel culto cattolico.
Pure, nel caso dell’area croata, che parzialmente interessò anche la Venezia Giulia, è sopravvisse per secoli il fenomeno detto del glagolitismo, il quale però comprese solo in misura assai limitata i territori giulio-veneti, pare soltanto le zone rurali più interne, come i contadi di Pinguente, Rozzo, Aibona, Barbana ed alcune isole. Per valutare l’atteggiamento della Chiesa di Roma nei suoi confronti, si può ricordare ciò che accadde nel secolo XIX, dinanzi alla richiesta dei nazionalisti croati di reintrodurre il glagolitismo (poiché era di fatto scomparso) in area giulio-veneta. Vi si si opposero, sia pure con motivazioni diverse, la Curia romana, gli studiosi di storia ecclesiastica e le stesse popolazioni. La Curia pontificia, e per essa Leone XIII e Pio X, richiamarono i sostenitori del glagolitico ai principi del rito in lingua latina e li diffidarono dalla reintroduzione di tale rito. Gli storici, e basti ricordare il sacerdote Giovanni Pesante, lo storico rovignese Bernardo Benussi, lo studioso osserino Francesco Salata e illussignano prof. Melchiade Budinich, dimostrarono l'esiguità del fenomeno glagolitico e la sua eccezionalità, che era stata appunto tollerata accanto e subordinatamente all’impiego del latino. Dal canto suo, il Righetti non segnala neppure la presenza del culto glagolitico in terra giulio-veneta, limitandolo alla Croazia ed alla Dalmazia: beninteso, esso è effettivamente esistito, ma in percentuali pare di comprendere davvero di scarso rilievo, almeno sino al XX secolo, avendo riguardato solo alcune aree di popolamento croato, ed in alcuni periodi.
Basti dire che il più antico documento «vetero-slavo» dell'Istria, il «Razvod Istarski». compilato da due preti glagolitici è del pieno secolo XVI, mentre l’arrivo di genti slave oltre il monte Nevoso avviene attorno al VI secolo d.C. Tutti gli altri scritti di simile natura sono di modestissimo valore, annotazioni o poco più, a margine di messali, qualche iscrizione e graffito in poche chiese di campagna, testamenti nuncupativi (e abusivi) e registri parrocchiali solo per periodi brevissimi e in località isolate e d'una fascia ben delimitata. Pare che solo Lussingrande si sia avuto un uso duraturo della liturgia glagolitica, da solo 1560 al 1674.
La “riscoperta” (poiché già nel secolo XVIII appariva di fatto estinta) della liturgia glagolita in Venezia Giulia, data alla fine dell’Ottocento ed al principio del Novecento, col sorgere del nazionalismo moderno.
Inoltre, la distinzione basilare nello studio della liturgia non è nella lingua d’uso, bensì nel ritus d’uso, ovvero nelle forme, testi, successioni, cadenze calendariali ecc. che lo costituiscono. In ambito cattolico, diversamente da quello ortodosso, un ritus slavo non è MAI esistito. Il Righetti, “Manuale di storia liturgica”, autentica summa dello studio liturgico, elenca i seguenti ritus ovvero “tipi liturgici”, nelle “liturgie occidentali”: rito gallicano; rito mozarabico; rito celtico; rito africano; rito ambrosiano; rito d’Aquileia; rito beneventano; rito romano. Questa distinzione si ritrova anche nell’articolo “Liturgie” dell’ottimo “Dictionnaire de theologie catholique”, strumento di lavoro usato ed abusato dagli storici. Beninteso, sono esistite già in passato forme di culto celebrate in lingua slava, ma esse non hanno mai costituito un “tipo liturgico” proprio, rientrando unicamente nel “rito d’Aquileia” o nel “rito romano” (che a partire dal secolo XI si è progressivamente esteso, sino quasi a soppiantare gli altri), sebbene recitate in una lingua slava anziché in una di quelle cosiddette “universali”.
La celebrazione d’un tipo liturgico anziché un altro ha quasi sempre valore territoriale (anche se sono ammesse talora eccezioni: mi pare ad esempio che sia, oggigiorno, il caso di ciò che rimane del rito mozarabico, che eccezionalmente può essere praticato anche fuori dall’area geografica originaria, nel caso che si possa dimostrare d’essere provenienti o discendenti da siffatta regione), esattamente come il diritto romano (a cui, anche in questo, la Chiesa di Roma s’ispira), e risulta legato al culto celebrato dal vescovo nella diocesi d’afferenza ovvero dal patriarca (Toledo, Milano, Aquileia ecc.).
Nel caso della Venezia Giulia, questa regione è rientrata, sin da Roma antica, nell’area del patriarcato d’Aquileia, che giunse a comprendere al momento della evangelizzazione degli Slavi occidentali un’area amplissima (Come realtà ecclesiale, il Patriarcato di Aquileia è stato la più grande diocesi e metropolita ecclesiale di tutto il medioevo europeo. Fino al 811 la sua giurisdizione ecclesiastica arrivava fino al fiume Danubio a nord, al lago Balaton a est e a ovest arrivava fino a Como. A sud ha avuto la giurisdizione ecclesiale dell'Istria fino al 1751, anno della sua estinzione). Pertanto, il tipo liturgico giulio-veneto è stato dapprima quello aquileiese (formatosi integralmente nel periodo tardo-antico e del tutto esente da influenze slave), poi il rito romano.Pertanto, dal punto di vista liturgico, la Venezia Giulia è sempre rientrata nell’ambito del culto cattolico, nel rito dapprima d’Aquileia, poi di Roma. In quanto alla lingua, solo in alcuni periodi e luoghi è stata quella slava, mentre l’impiego del latino è sempre rimasto praticato in modo ininterrotto, soprattutto permanendo d’uso costante nelle sedi episcopali e nei monasteri.

1 commento:

adalberto ha detto...

Le avevo chiesto solo, al di là di laboriosi riferimenti glagolitici se i riti religiosi nelle Chiese latino-cristiane-cattoliche della Venezia Giulia presso le etnìe slovene sono state sempre celebrati nella lingua del luogo slovena o in latino. La ringrazio per una esauriente risposta.Adalberto