venerdì 24 luglio 2009
BRUNO CONTRADA è ancora vivo (click originale)
PALERMO, 8 LUGLIO 2009
Caro Avvocato,
tra poco sarà un anno dal giorno (24-7-2008) in cui, aperti l’uno dopo l’altro i sette cancelli frapposti fra la mia cella nel carcere militare e la strada, sono tornato alla mia famiglia, nella mia casa, in detenzione domiciliare.
La ricorrenza mi suscita emozioni, sentimenti e pensieri; tra questi ultimi, ma primo più sentito, quello rivolto alla Sua persona.
Un pensiero che non voglio tenere chiuso in me, per me soltanto, come è per tanti altri, ma a Lei trasmettere in semplici e spontanee parole. Prendo, quindi, un foglio e una penna e Le scrivo una lettera che – La prego - non consideri una formale e doverosa forma di ringraziamento e gratitudine.
Se ciò fosse, incorrerei nel banale, nell’ovvio, nel vieto.
Pertanto, in questa circostanza, metto da parte, anche se in me radicati e vivi i sensi della mia riconoscenza per il perseverante, tenace, infaticabile, ineguagliabile e ammirevole operato professionale da Lei svolto per la mia difesa in varie sedi giudiziarie, sin dal nostro primo incontro in carcere, il 15 dicembre 2008.
Ora mi rivolgo e parlo con l’uomo Giuseppe Lipera e non con l’avvocato Giuseppe Lipera. Perciò mi permetto indirizzare lo scritto al “caro avvocato” e non “all’illustre avvocato”.
Lei, da uomo, ha creduto in un altro uomo, Lei ha avuto fiducia in me ed ha abbracciato e sostenuto con vigore, volontà inflessibile, nobiltà d’animo, la mia “causa” umana, anteponendola e privilegiandola a quella giudiziaria.
Lei si è ripromesso e mi ha promesso di non lasciare nulla di intentato acchè la pietra sepolcrale della cosiddetta giustizia definitiva e inderogabile seppellisse nell’oblio, nel silenzio, nell’oscurità, e nel freddo dell’indifferenza, ogni mia residua, labile ed evanescente speranza.
Lei ha creduto nella mia innocenza prima da uomo e poi da giurista e ciò le ha dato la forza incrollabile, - anche a me trasmessa, nonché ai miei addolorati familiari,- di lottare, di opporsi, di non deflettere, di mai arrendersi per allievare intanto la mia sofferenza fisica e morale. La sofferenza morale (innanzi tutto) e fisica di un vecchio uomo dello Stato, per età e per servizio, rinchiuso ingiustamente e inumanamente tra sbarre e cancelli, in attesa della fine della pena, non soltanto di quella giudiziaria ma anche di quella terrena.
Lei stato il vento che ha gonfiato le vele afflosciate e rimesso in movimento la barca della mia esistenza destinata alla deriva per la quiete dell’indifferenza e della non curanza di uomini ingiusti e ingrati.
Il primo porto è stato la mia casa,nel calore degli affetti familiari, tra le mie cose, con i miei libri, tra i ricordi della mia vita passata e di quelli che mi hanno preceduto.
Sono ormai un uomo vecchio e, per legge di natura, l’ultimo porto cui approdare non è molto lontano… Ma l’ultimo tratto del viaggio è più sereno perché sono nella mia casa, nel mio rifugio e non più ai ceppi, che danno immensa sofferenza ai colpevoli ma sofferenza insopportabile e distruttiva a chi di nessuna colpa si è macchiato.
Il mio attuale stato lo devo a Lei e spero che lei vorrà continuare ad essere ancora il vento che dia slancio alla barca della mia residua esistenza.
Un abbraccio forte, suo
Bruno Contrada.
p.s.
“Res iudicata facit de albo nigrum, originem creat, aequat quadrata rotundis, naturalia sanguinis vincula et falsum in verum mutat”
Lei, illustre avvocato Lipera, ha operato e lottato e ancora lo sta facendo affinchè, siffatto brocardo, non si applichi anche a me...
venerdì 3 luglio 2009
EMBLEMATICA ITALIA
Il pg Dragotto lascia la magistratura: «combatto contro gli svarioni giudiziari»
Il procuratore blogger
perde l’incarico e se ne va
Ironizzò sugli errori dei colleghi. Punito dal Csm
ROMA — Su un blog anonimo metteva alla berlina le sentenze impresentabili. E per un titolo impresentabile il Csm non lo ha confermato procuratore generale di Ancona. A dispetto del parere unanime e altamente positivo inviato al Csm dal consiglio dei colleghi del suo distretto. Per questo Gaetano Dragotto lascia la magistratura. Questione di stile è la motivazione che avrebbe spinto il plenum a silurarlo. A causa di un doppio senso, utilizzato per bacchettare una collega (non nominata) che sbagliava i calcoli delle attenuanti e delle aggravanti regolati dall’articolo 69. Ma lui si difende: «Il blog era riservato a pochi amici. Era anonimo come le sentenze. Virgolettava solo alcune perle. Come la sentenza di un collega della Cassazione sul barista che serve detersivo per lavastoviglie nell’acqua minerale. Stabilisce che se il liquido è puro il barista non è punibile, se diluito sì: per contraffazione. Se il cliente morisse sarebbe omicidio colposo. E il primo presidente della Cassazione e il pg hanno votato contro la mia riconferma», dice, amareggiato, Dragotto.
Contro gli svarioni giudiziari dei colleghi aveva combattuto a lungo, dando anche giudizi negativi in sede di valutazione. «Non avevo ottenuto nulla se non voci di una mia presunta cattiveria. Per difendermi avevo creato quel blog per gli amici. E ridevamo dei pasticci scritti nelle sentenze ». Come quella sulla «prostata salvifica». L’aveva fatta franca un maniaco che aveva mostrato la sua virilità a una bimba ferma in auto con il finestrino aperto, giacché il giudice aveva attribuito l’esibizione alla impossibilità di «trattenersi dall’urinare». Senza domandarsi perché non si fosse allora rivolto verso il muro. Oppure le attenuanti generiche, concesse a un senegalese «perché l'imputato è africano e l'Africa è povera ». O quella nella quale il computo di un terzo della pena di tre mesi faceva sempre tre mesi. E infine quella della giudice che applicava male l’articolo 69. «Lei deve essersi riconosciuta, forse avvertita da qualche collega, si è offesa per il titolo sarcastico e ha avvertito il Csm» racconta Dragotto. Ma la preistruttoria per incompatibilità ambientale a causa della caduta di stile si è subito chiusa. Ed è finita lì.
Al momento di valutare il rinnovo dell’incarico da pg però è risaltata fuori. «E pensare che proprio a seguito di quell’episodio c’era stata una riunione nella quale avevamo parlato finalmente di queste motivazioni impresentabili, e finalmente si erano ridotte quasi della metà». Il magistrato esclude un collegamento della sua bocciatura con gli arresti appena firmati per l’ex sindaco pd e altri, nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti per l’aera portuale. Non crede a chi sussurra che l’hanno voluto fare fuori da altri incarichi direttivi ai quali concorreva. E conclude: «C’è chi mi ha consigliato di fare ricorso. Ma come potrei continuare a fare il magistrato con le mani legate dietro la schiena?». Per questo lascerà la toga. Ma non il web.
03 luglio 2009
lunedì 11 maggio 2009
Raina e i suoi tappeti, passaporto per la libertà (click)
Seduta a terra con le gambe incrociate e i piedi nudi, in silenzio, senza un movimento stonato che possa interrompere il viavai dei fili da imbastire.
Solo quando gli uomini si allontanano dal laboratorio, prende coraggio e si volta, incuriosita da questa visita inaspettata. «Chi siete?», chiede in un inglese stentato e non si tira indietro quando scopre che la sua storia finirà su un giornale. Sorride quando le diciamo che siamo italiani e, mettendosi una mano sul cuore, ci fa un inchino.
«Devo scontare dieci anni - spiega parlando sottovoce, senza mai interrompere il lavoro -, ma non sono pentita per quello che ho fatto. Mio marito ci trattava come delle bestie, non voglio più vederlo. Qui sto bene e forse potrò uscire prima del previsto».
Lavorare paga nel carcere di Herat, come un indulto che arriva in base alle tue capacità, come spiega Raina: «Dopo quattro anni passati a fare tappeti, sono diventata una "teacher". Questa qualifica mi serve per uscire prima da qui dentro e forse tra un anno sarò libera».
Diventare la responsabile di un laboratorio è una posizione ambita, che anche dentro il carcere permette piccoli privilegi, come una mezz'ora di aria in più o maggior tempo da trascorrere con in figli. «Ho avuto fortuna - spiega la donna dal volto di bambina -, la mia teacher è stata trasferita e io ho preso il suo posto. Sono brava, chiedilo al direttore, i nostri tappeti sono i migliori».
La speranza di rifarsi una vita rende i suoi occhi ancora più luminosi e le mani ancora più veloci, come se i movimenti rapidi imprimessero un'accelerazione anche al tempo che dentro queste quattro mura sembra non passare mai. «Ho voglia di uscire - prosegue -, di camminare per strada, di incontrare nuovi amici. La prima cosa che farò è cercare mia sorella, da quel giorno non l'ho più rivista, non so che fine abbia fatto. Poi voglio aprire un negozio di tappeti sulla strada principale di Herat».
Quando le guardie tornano indietro per vedere che sta succedendo, Raina si ammutolisce, davanti agli uomini non è conveniente parlare. China il capo e si volta a guardare la sua tela: quei fili che crescono sono il suo biglietto per la libertà.
lunedì 28 luglio 2008
IL MINISTRO DI GRAZIA E GIUSTIZIA ANGELINO ALFANO (click)

La corda spezzata
Scritto da Gianni Pardo
Monday 28 July 2008
Considerazioni giuridico-politiche sul Lodo Alfano
Un’insegnante di storia e filosofia nei licei (il top della cultura) diceva di essere più che perplessa, riguardo al “Lodo Alfano”. I cittadini devono essere tutti uguali dinanzi alla legge, nessuno ha il diritto di sottrarsi ad essa.
Violare questo principio è violare la Costituzione. Inoltre, ribadiva, i giudici, anche quando accusano qualcuno o gli impongono la custodia preventiva, applicano la legge: come è concepibile che sia “ingiusto” agire secondo le leggi?
Queste affermazioni sono semplici e chiare e tuttavia, riflettendoci, non stanno in piedi. Per decenni, fino ai primi Anni Novanta, è esistita l’immunità parlamentare. Dunque deputati e senatori erano già cittadini “più uguali degli altri”, come recita l’abusata citazione, senza violazione della Costituzione. Per quanto poi riguarda l’agire “secondo le leggi” non bisogna essere ingenui. Il magistrato penale gode di una notevole discrezionalità, che in qualche caso lascia spazio al puro arbitrio. A qualcuno che chiedeva che cosa dovesse considerarsi “prova”, nel processo penale, un giurista rispondeva sconsolato che “prova è ciò che convince il giudice”. Anzi: “Prova è ciò che il giudice dichiara essere prova”. Questo vale anche per quanto riguarda la magistratura inquirente. Questa non ha il potere di condannare nessuno ma può benissimo mettere in galera qualcuno sulla base di una presunta pericolosità sociale o sulla base di un fantomatico pericolo di reiterazione del reato; sicché un cittadino passa mesi – a volte anni – in carcere per poi vedersi magari assolvere con formula piena. È stato vittima di un arbitrio? Probabilmente, ma l’inquirente non deve nemmeno chiedergli scusa: ha seguito il suo “libero convincimento” e tanto basta.
Nessuno è stato sottoposto a procedimento disciplinare per un fatto del genere. Neppure quel magistrato pugliese che ha tenuto a lungo in galera il Pappalardi, con l’accusa di avere ucciso i due figli, mentre poi la Cassazione – la Cassazione! – ha stabilito che non c’era nessunI magistrati seguono i codici, si dice, ma i codici gli concedono una libertà così ampia da risultare in certi casi pericolosa: soprattutto perché gli organi di controllo non sconfessano mai il collega e l’azione per responsabilità civile del giudice, pur sancita da un apposito referendum, non è stata esercitata contro nessuno. elemento di prova che potesse sostenere l’opportunità di quella carcerazione.
Questi rischi li corrono tutti i cittadini - direbbe tuttavia la professoressa – e non si vede perché non debbano correrli le persone in vista. E anche qui un’affermazione che pare semplice ed evidente può in certi casi essere del tutto sbagliata. Ad un ragazzino che chiedeva come mai la bestemmia fosse un peccato mortale, tale cioè da comportare le pene dell’inferno, un teologo rispondeva che chi dice “cretino!” al proprio fratello si comporta male; chi lo dice al Preside della scuola, commette un atto di gravità molto maggiore e chi infine insulta Dio, Ente dal valore infinito, commette un atto di infinita gravità. E merita l’inferno. Nel valutare l’illecito bisogna tenere conto non solo dell’azione ma anche della qualità della vittima. Se si accusa un cittadino qualunque di atti contrari alla pubblica decenza, gli si crea un enorme fastidio. Se però la stessa accusa è rivolta ad un cardinale, ne parleranno tutti i giornali e il prelato potrebbe uscirne addirittura distrutto quand’anche dopo fosse assolto con formula piena. Il semplice potere di incriminare certe persone, e tenerle sotto processo per molti anni, è un’arma devastante. Un’arma che, posta in mano ad un giudice narcisista, esibizionista, politicamente fazioso o soltanto demente, può creare danni gravissimi.
Il caso di Berlusconi è emblematico. Se in questi tre lustri fosse stato accusato di un reato e fosse stato assolto, nulla quaestio: la magistratura inquirente può benissimo sbagliarsi. Ma se l’impresa di cui è titolare per il 30% subisce circa cinquecento accessi della Guardia di Finanza, se il Cavaliere è fatto oggetto di ben sedici procedimenti penali, se infine ciò malgrado tutti i procedimenti si concludono o con l’assoluzione o con la prescrizione (che è colpa della magistratura), è proprio peregrino il sospetto che ci sia stata un’intenzione politica? Si è perfino parlato di “via giudiziaria al potere”. O alla distruzione dell’avversario politico.
L’opinione pubblica, poi, non va per il sottile. Pensa: uno che è accusato di tanti reati non può essere un fior di galantuomo. È stato assolto? Se la sarà cavata per il rotto della cuffia; perché può permettersi ottimi avvocati; perché è un furbastro. Un furbastro ma non un galantuomo. E un buon quaranta per cento degli italiani è complice di questa character assassination, assassinio della personalità.Il diritto non è scritto nelle stelle. E non è amministrato da angeli. Da noi l’uso discutibile della giustizia è stato spinto tanto lontano da avere creato, nei politici, il comprensibile sospetto che l’ordine giudiziario intenda dominare i poteri legislativo ed esecutivo. Stabilendo magari chi ha il diritto di fare politica e chi no. E alla lunga, se un potere prevarica, è normale che il potere aggredito si difenda con le proprie armi: ed ecco che il legislativo vara leggi che tagliano le unghie ai magistrati. Se si tira troppo la corda…
I magistrati inquirenti avrebbero dovuto essere molto più prudenti, molto più moderati, molto più oculati. Non hanno messo a rischio Berlusconi, che ha dimostrato in giudizio di essere innocente, hanno messo a rischio l’equilibrio fra i poteri e l’immensa libertà di cui attualmente loro stessi dispongono. A qualcuno il lodo Alfano non piace, ed è comprensibile, ma è solo una reazione. E se l’azione è stata ingiusta, la reazione si chiama legittima difesa. Questa legge è una pagina negativa della vita parlamentare italiana, esattamente come è negativa l’amputazione di una gamba. Ma se il rischio è che la gangrena danneggi l’intero organismo, l’amputazione è benvenuta.
giannipardo@libero.it