domenica 17 agosto 2008
LA MORTE ED IL SENSO DELLA VITA
Si è molto spesso supposto che la morte, anzi la riflessione sulla morte come prova inequivocabile della limitatezza e finitudine di tutto ciò che esiste, sia all’origine del pensiero religioso, sia storicamente, sia psicologicamente. In verità, le primissime certe tracce del “pensiero religioso” sono legate proprio alla morte, con la comparsa della sepoltura dei defunti, certamente all’interno di determinati rituali, che non è però possibile ricostuire a distanza di decine di migliaia di anni.
La meditazione sulla morte compare in tutte le maggiori forme del pensiero religioso, ed in innumerevoli filosofie, venendo sviluppata con una gamma impressionante di varianti, dagli antichissimi riti iniziatici delle civiltà pre-agricole (cerimonie di morte e risurrezione), all’idea di morte nello yoga, nelle varie dottrine del buddhismo, nei culti misterici greci, ecc.
Per rimanere al cristianesimo, la morte è un fenomeno che ha ricevuto differenti denominazioni, corrispettive ad una grande varietà di significati (morte evangelica, morte apostolica (cfr. 2 Cor 4,10-11)., morte misterica o sacramentale (cfr. Rm 6,4-11; 2 Tm 2,11), morte di martirio (cfr. Fil 3,10), morte angelica, morte filosofica, morte spirituale, morte al mondo, morte d'amore, ecc.). In particolare, la formula di morte filosofica è nota sin dall’Antichità in ambito pre-cristiano, intesa quale superamento dei limiti e dei condizionamenti dell’esistenza umana, ma è soprattutto all’interno della nuova fede che si dà un ampio sviluppo della nozione e del simbolismo della morte. Nell'esperienza cristiana la salvezza è vista come morte e risurrezione. L’uomo deve morire a se stesso con Cristo e rinascere con lui: "Chi non prende la sua croce e non mi segue, non e' degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà". (Mt 10:38, 16:25-26; Mc 8:35-36; Lc 9:24, 17:33; Gv 12:25); "In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto." (Gv 12:24) Paolo enfatizza l'idea di morire con Cristo ed essere uno con lui nella risurrezione, ciò che equivale al passaggio dall’ “uomo vecchio” all’ “uomo nuovo”, descrivendo un percorso iniziatico dal carnale allo spirituale: "Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione." (Rm, 6:4-5); "Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui". (Rm 6:8); "Non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio.". (Rm 6:13). "Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato." (Rm 6:7) Colpisce soprattutto però l’associazione che si viene a compiere fra la “morte” di sé (la fine dell’ “uomo vecchio”) e la nascita interiore di Cristo (la nascita dell’ “uomo nuovo”). La “morte mistica” costituisce un binomio con la “nascita mistica”, che sono due componenti inscindibile del processo di rigenerazione dell’uomo: è la morte "dell’uomo vecchio" (Col 3,9), secondo l’apostolo Paolo. È partecipare alla morte di Cristo, per mezzo del battesimo, morendo con lui per risorgere con lui. Continua Paolo: "Voi siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio" (Col 3,3). "Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra" (Col 3,5). È la "potatura" divina, dolorosa, ma necessaria per portare più frutto (Gv 15,2). La morte dell’uomo vecchio è necessaria per far nascere "l’uomo nuovo", a immagine del Cristo risorto.
Come insegnava il sommo storico delle religioni Mircea Eliade nella sua imprescindibile monografia “La nascita mistica”, l’insegnamento paolino, centrale nella meditatio mortis cristiana, è tipologicamente identico all’immensa gamma di riti di morte e risurrezione, ovvero di cerimonie iniziatiche, diffuse universalmente. Nel caso specifico di Paolo di Tarso, la riflessione sulla “morte mistica” è certamente derivata dalle analoghe riflessioni presenti nei culti misterici greci, anziché dal giudaismo.
E’ possibile pensare d’abolire la morte, ovvero di sconfiggerla? La risposta, inequivocabilmente, è negativa. Il tempo necessariamente logora e distrugge ogni cosa, e l’universo stesso è destinato a scomparire, come insegna la seconda legge della termodinamica, detta dell’entropia. Da qui sono sorte, specialmente in letteratura, innumerevoli considerazioni pessimistiche e scorate sull’esistenza umana. Sempre per limitarsi alla civiltà europea, basti ricordare che già nel Tardo Medioevo, dopo la “Peste Nera”, si era diffuso un atteggiamento simile nei confronti della vita terrena, nonostante la fede religiosa fosse, da quasi l’intera collettività, accolta con convinzione e fermezza. La letteratura romantica, come ha mostrato Mario Praz nel suo bellissimo studio “La carne, la morte, il diavolo”, è ricolma di temi macabri e del senso angoscioso della fine di tutto ciò che esiste. Un grande poeta come il Leopardi ha potuto farsi cantore del “pessimismo cosmico”: la vita è sofferenza ed al termine esiste la morte. La filosofia esistenzialistica del Novecento ha riproposto analoghe speculazioni, su di un piano non più poetico ma appunto filosofico.Esiste quindi un modo di considerare la morte, a cui inevitabilmente lo scorrere del tempo conduce, quale una realtà meramente negativa, ma in realtà essa può essere valutata non in questa accezione, bensì quale superamento d’uno stato determinato e contingente, sia nella sua forma della “morte mistica” (centrale nella spiritualità di molti “mistici” cristiani, oltre che, ad esempio, in quella dell’induismo e del buddhismo), sia proprio nel suo aspetto più concreto ed apparentemente distruttivo. Lo scorrere del tempo ovvero la sua “freccia” unidirezionale, che trascina con sé nella propria fuga temporis ogni cosa, in una prospettiva religiosa o filosofica trascendente non appare più soltanto distruttivo, ma anzi salvifico, in quanto cammino di salvezza, in quanto finalisticamente orientato all’incontro con l’Assoluto, in qualsiasi modo venga definito. Ad esempio, Aristotele sosteneva che “è psuché estìn entelenchìan”, “l’anima umana è un’entelechìa”, ovvero è teleologicamente (dal greco telòs, fine) rivolta ad un fine. Similmente, il cristianesimo insegna che l’incontro con Cristo avverrà alla fine della propria vita (la “piccola escatologia”) ed al termine della storia dell’universo (la “grande escatologia”).
lunedì 21 luglio 2008
CONTRO L'EUTANASIA
Bisogna quindi premettere che il dibattito sull’eutanasia o l’aborto, anzi su qualsiasi questione, non può e non deve essere mescolato a criteri di natura religiosa, ideologica, sentimentale ecc., ma ispirato unicamente a quelli d’oggettività e razionalità, così come si farebbe o si dovrebbe fare in ambito scientifico. Soltanto in questo modo si può tentare di giungere alla verità, che non appartiene a nessuno ed è tale per chiunque adoperi la ragione e possiede quindi carattere d’universalità. Come ha detto Giovanni Gentile: “Non esiste il mio pensiero o il tuo pensiero, esiste il pensiero”.[1]
In altri termini, il problema posto è su ciò che è giusto fare, e la risposta può provenire dai più diversi ambiti culturali ed intellettuali, indifferentemente siano essi laici o religiosi: ciò che importa è fornire argomenti probanti.
In questo inoltre si può evitare l’obiezione, in verità pretestuosta, di chi in nome della “laicità” di fatto intende negare diritto di cittadinanza ai credenti in qualsiasi religione, impedendo di sostenere le proprie posizioni, il che conduce ad uno stato non più laico (estraneo alle opinioni filosofiche e teologiche dei suoi cittadini) bensì laicista od ateo (l’agnosticismo o l’ateismo di fatto nuova “religione di stato”).
Ippocrate, il Greco padre della medicina, non era cattolico, ma se prescrisse a infinite generazioni di medici, col suo celebre giuramento, «non darai la morte, non prescriverai veleni», fu perché gli era chiara la conseguenza finale del minare il muro della difesa medica della vita.
Pertanto, a prescindere dalle considerazioni sulla sacralità della vita, che pure certamente si possono svolgere, che cosa si può dire contro la proposta della legalizzazione dell’eutanasia?
Inesistenza del libero arbitrio
L’argomento principe dei sostenitori dell’eutanasia consiste in un richiamo al criterio della libera scelta dell’individuo: chi decide d’uccidersi per sfuggire ad una grave malattia, ha il diritto di farlo.
Tuttavia, tale asserzione si presenta facilmente contestabile. Anzitutto, molte categorie d’infermi per i quali è proposta la “dolce morte” sono del tutto privi di coscienza, in stato comatoso ovvero vegetativo, e non possono in alcun modo esprimere la propria volontà. Anche nel caso che abbiano espresso precedentemente una loro volontà in proposito, non si può dire che siano in grado di confermarla.
Inoltre, anche coloro che teoricamente sono in grado d’esercitare tale possibilità, sovente sono menomati nel proprio “libero arbitrio” dalle circostanze in cui si trovano. Un essere umano gravemente malato può essere indebolito nelle proprie facoltà mentali, rimanere colpito anche psicologicamente con l’insorgere di malattie della psiche, ed anche abbattuto dallo stato di debolezza e sofferenza in cui è caduto. E’ discutibile, perlomeno in alcuni casi, che sia realmente in grado di compiere una scelta consapevole e razionale.
Soprattutto, un uomo malato al punto da poter desiderare la morte risulta obiettivamente vulnerabile a pressioni e suggestioni esterne, ben più di quanto non accada normalmente. Egli può essere indotto all’eutanasia dai suoi medici, che possono dirgli che “non esiste altra soluzione”, o parenti, che possono fargli capire d’essere indesiderato e di rappresentare un peso umano ed economico. Una persona che percepisca il sostegno dei propri cari può ben desiderare la vita, ma se viene ad essere implicitamente od esplicitamente rifiutato può allora scegliere la morte. Considerando che casi d’induzione al suicidio avvengono nella vita quotidiana, certamente si avrebbero anche con la legalizzazione dell’eutanasia, offrendo un “materiale umano” mediamente molto più debole.
Tutte le possibilità suddette si sono già tradotte in atto in Olanda, tanto che molti suoi cittadini hanno preso a redarre dichiarazioni firmate in cui si nega il diritto di compiere su di lui l’eutanasia, ed a portarle sempre con sé.[2]
Diminuzione delle cure
Oggigiorno esistono un gran numero di malattie piuttosto rare per le quali le cure sono insufficienti, così come colpiscono malanni cagioni di gravi sofferenze, senza che sia disponibile un terapia del dolore totalmente efficace. L’esistenza di simili problemi è naturalmente uno stimolo alla ricerca scientifica per la loro risoluzione. Tuttavia, nel momento in cui si diffondesse la pratica dell’eutanasia, proprio la “dolce morte” finirebbe col diventare agli occhi di medici e pazienti la soluzione prima, indebolendo le motivazioni al miglioramento delle terapie.
Laddove l’opzione eutanasica fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza e la cura, soprattutto per quanto riguarda i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più "ovvia" ed economica. Non si tratta affatto d’una possibilità teorica, bensì d’una eventualità altamente probabile, sia per i costi della ricerca scientifica, in quanto minore è il numero di persone colpite da una data malattia, minori sono le somme investite per la sua cura, essendo proporzionalmente più basse le possibilità di lucro.
Il fatto è già avvenuto con l’aborto, al quale in molti paesi si fa ricorso anche nel caso di malattie o malformazioni facilmente curabili, ma soltanto ad un determinato prezzo: l’aborto invece costa di meno, oppure è offerto gratuitamente dal servizio sanitario, in alternativa al trattamento rivolto alla guarigione, più costoso.
Si può portare un esempio consimile. Uno studio del 1994 ha documentato che malati di cancro appartenenti a minoranze etniche negli Stati Uniti d’America avevano possibilità tre volte maggiori di ricevere un trattamento inadeguato della sofferenza rispetto agli altri pazienti.
L’impiego dell’eutanasia consentirebbe quindi di ridurre od anche abolire le spese ed il servizio pubblici per determinate terapie, con uno scambio economicamente vantaggioso per le casse del sistema sanatario: l’aborto o la “dolce morte” costano di meno di date cure.
Imbarbarimento della società
Ma esiste un’altra valida ragione contro l’eutanasia, data dall’imbarbarimento della società. Per spiegare in che cosa consista tale pericolo occorre fare un passo indietro e domandarsi perché esistevano gruppi di pressione tanto forti a sostegno della pratica del suicidio assistito. La ragione è quella sopra ricordata, e consiste anzitutto nell’interesse economico. I bambini costano e comportano sacrifici, specialmente quelli malati, pertanto la soluzione ritenuta nell’immediato economicamente vantaggiosa consiste nel sopprimerli con l’aborto. I malati incurabili e gli anziani impossibilitati a badare a sé stessi rappresentano anche loro un gravame finanziario e sociale per lo stato e le famiglie, per cui diviene parimenti funzionale agli interessi dell’economia eliminarli fisicamente. La nostra società, che ha elevato a proprio dio il piacere ed a suo strumento il denaro, vuole individui adulti e sani, capaci di produrre e consumare: bambini, malati, anziani non rientrano in questa categoria, per cui sono di troppo.
In Olanda, paese che ha legalizzata l’eutanasia, si è compiuta col pretesto della pietà un’operazione di risparmio sulle spese assicurative, previdenziali, sanitarie. Si può dire che in tutte le società umane la senectus è stata vista come immagine della saggezza e della dignità, mentre i malati sono stati oggetto di pietà: nell’Europa cristiana dei secoli trascorsi costoro erano considerati immagine di Cristo sofferente, mentre oggi, sostituita la pietas romana e la charitas cristiana al businnes del capitalismo selvaggio, sono visti quale strumento di profitto o causa di perdita, valutati quale merce.
Naturalmente, a tempi lunghi simili scelte sono suicide per la collettività nel suo complesso, e ciò traspare dal calo demografico e dalla riduzione degli individui attivi dovuti anzitutto all’aborto, autentico genocidio mascherato. Tuttavia, per chi pensa soltanto al proprio interesse, questo può essere insignificante.
Permettere l’eutanasia significa quindi ripetere con malati ed anziani l’operazione già compiuta con bambini, ovvero disumanizzarli e privarli di valore e significato. La nostra società ha perso ormai criteri di giudizio del bene e del male, confondendo l’aequum, il giusto, con lo ius, il diritto, per cui si considera grossolanamente ed irrazionalmente legittimo quel che è legale, come nel caso dell’aborto. Una volta caduto il principio dell’intangibilità della vita e dell’umanità dei malati, quel che è stato proposto, ingannevolmente, quale uno strumento eccezionale, diverrà invece comune ed abituale, diffondendo inoltre una mentalità ed una cultura non della pietas verso malati e sofferenti, bensì del loro rifiuto.
Infine, ultimo ma non ultimo, s’assegnerà in questo modo un potere enorme e ben difficilmente controllabile alle autorità pubbliche, specie alle anonime burocrazie, che potranno di fatto decidere chi sopprimere. Già accade in Olanda con medici che s’arrogano tale diritto, naturalmente nell’impossibilità di regolamentare realmente l’esercizio dell’eutanasia.L’Europa si vanta d’aver soppresso la pena di morte, ma in realtà, oltre allo sterminio abortista, l'Olanda ha dislocato il potere statale di morte dalla Giustizia alla Sanità, secondo una deriva già ampiamente sperimentata con l'aborto stesso. La morte, trasferita a diverso competente ministero, non è più una «pena», s'è mutata in «somministrazione», cosicché colui cui la morte viene «prescritta» come «cura» estrema non ha diritto a pubblico processo, né avvocato difensore, né a una giuria.
[1] Beninteso, tale norma non respinge aprioristicamente l’eventuale veridicità delle diverse religioni, filosofie, dottrine politiche ecc. Per rimanere al cattolicesimo, la conciliazione fra fides e ratio è sempre stata ricercata sin dalla Patristica antica e poi per tutto il Medioevo e l’era moderna, sino a quella contemporanea. La Chiesa di Roma ha sempre respinto il fideismo, ovvero il credere senza ragione e contro ragione, sostenendo con Anselmo d’Aosta che fides quarens intellectum, intellectus quaerens fidem.
[2] il dottor Karel Gunning, medico olandese contrario all’’eutanasia, ricorda i casi seguenti. La mentalità di morte è diventata la norma fra i medici olandesi. Conosco un internista che curava una paziente con cancro ai polmoni. Arriva una crisi respiratoria, che rende necessario il ricovero. La paziente si ribella: non voglio l'eutanasia, implora. Il medico l'assicura, l'accompagna lui stesso in clinica, la sorveglia. Dopo trentasei ore, la paziente respira normalmente, le condizioni generali sono migliorate. Il medico va a dormire. Il mattino dopo, non trova più la sua malata: un collega gliel'aveva 'terminata' perché mancavano letti liberi". - C'è da aver paura. "Infatti la gente ha paura. So di un malato di Alzheimer ricoverato in una casa per non autosufficienti. Una settimana dopo, la famiglia lo trova in stato di coma. Sospettano qualcosa, e così lo fanno trasportare all'ospedale, dove il paziente si riprende dopo l'infusione intravenosa di tre litri di liquido. Era stato lasciato disidratato. E' vissuto, per quanto ne so, almeno un altro anno". - E lo facevano morire di sete. "Un collega m'ha raccontato questa: vecchio paziente ospedalizzato, in agonia. Il figlio chiede ai medici di 'accelerare il processo', in modo che il funerale del padre potesse aver luogo prima della sua partenza per le ferie all'estero, già prenotate. I medici eseguono, giù con la morfina. Ma qualche ora dopo, il paziente si siede sul letto, è persino di buonumore. Finalmente, aveva avuto la somministrazione di morfina sufficiente per calmare i suoi dolori, e stava meglio! Episodi del genere si raccontano fra medici come fossero normali. Come fosse normale uccidere un paziente per compiacere i familiari"
lunedì 4 febbraio 2008
ECCO, QUESTO E' ADALBERTO.
Non mi sbizzarrirò di certo, cara Ambra, in un sito che ha per titolo "L'Italia è la mia Patria" perchè ritengo sia bene entrarvi tenendo ben presente la finalità che è celata in quelle parole. Tu sai bene che non sono un infatuato nazionalista, che son vissuto con un piede di qua e uno al di là di molte etnìe foreste e che la penso un pò come Ivo Andric, senza odiare nessuno. E che infine desidero goethianamente essere cittadino del mondo. Mi limiterò pertanto a introdurre qualcosa di valido, così spero, di natura precipuamente storica. Perchè se di "Italia Patria nostra" dovessi parlare incapperei probabilmente in molte contestazioni ricordando trascorse intraprendenze partite dalle sabaude rive del Po, le tre "S" di Sedan Sadowa e Solferino, alcuni paesi del meridione tra cui Casalduni,una repubblicana eredità di accorpati territori, una popolazione specificatamente multietnica,....-
No cara Ambra, sarà bene lasci spazio a chi sostiene con esuberante entusiasmo che "una Italia è la sua Patria ". Sono troppo amareggiato, sulla dirittura di arrivo degli Ottanta, nel constatare come naviga l'Italia su questo mare di sprovveduta indifferenza. Un caro saluto da Adalberto
4 febbraio 2008 17.08
sabato 2 febbraio 2008
LA CANDELORA
venerdì 1 febbraio 2008
PAROLE VERE DI UN SOLDATO VERO
giovedì 24 gennaio 2008
IL TAR DEL LAZIO E LA LEGGE 40. CONTRO LA VOLONTA' POPOLARE
E’ superfluo qui ricordare sulla base di quali principi si sia stesa la legge 40 e che cosa essa prescriva. Piuttosto, bisogna porsi le seguenti domande:
1) la legge 40 è stata votata dal Parlamento, organo legislativo, e firmata dal Capo dello Stato, supremo notaio costituzionale e presidente della Corte Costituzionale, chiamati ambedue a vigilare sulla conformità delle leggi proposte alla Costituzione. Con quale diritto la magistratura, che non ha potere legislativo, s’arroga di sospenderla od addirittura pretende di modificarla?
2) come può un semplice Tribunale Amministrativo Regionale rivendicare il diritto di sospendere una legge nazionale?
3) qualora ogni TAR, anzi ogni organo magistraturale, agisse in modo simile, non si avrebbe forse una vera condizione d’anarchia? Ogni singolo magistrato potrebbe decidere quali leggi abrogare, sollecitare o modificare.
4) perché il TAR non ha tenuto conto del fatto che un referendum abrogativo della legge 40 è stato di fatto respinto dalla stragrande maggioranza degli Italiani? La decisione del giudice non va soltanto contro a quella del Parlamento e del Capo dello Stato, ma anche a quella del popolo, direttamente convocato.
5) la legge 194, che legittima l’aborto, è stata, parimenti alla legge 40, votata in Parlamento, approvata dal Presidente della Repubblica e confermata da un referendum. Tuttavia, essa non è applicata correttamente, in quanto le norme che essa prescrive non sono rispettate. A) Ad esempio, essa consente l’aborto soltanto in caso di “grave pericolo per la salute fisica e mentale della donna”, laddove i medici abortisti stessi ammettono che solitamente le ragioni che inducono la madre ad abortire non sono affatto così gravi. Le statistiche stesse sulle condizioni economiche e sociali delle donne che giungono all’aborto lo attestano. I veri e propri aborti terapeutici sono in realtà assai rari, oscillando attorno all’1% od al 2%. In altri termini, la legge 194 è violata nell’applicazione dai suoi stessi sostenitori. B) Ancora, l’aborto è considerato da questa legge medesima come un male, ma soltanto il “male minore” (sic). La legge 194 prevede l’esistenza massiva ed attiva di consultori, atti a valutare le condizioni di salute psicofisica della madre e l’effettiva “esigenza” (sic) dell’aborto stesso. Perché queste norme non sono mai state messe in atto e l’istituzione dei consultori è stata di fatto delegata ad associazioni private? C) Inoltre, i principi ispiratori della legge 194 sono ormai anacronistici, poiché è stato fissato come termine ultimo per consentire l’aborto la data di 3 mesi dal concepimento, oltre il quale il feto era in grado di sopravvivere al di fuori del corpo materno, col sostegno delle incubatrici. Però, oggigiorno, a distanza di quasi trent’anni dall’approvazione della legge 194, la medicina è decisamente progredita e consente al feto di rimanere in vita al di fuori della placenta ben prima dei tre mesi. In altri termini, sulla base dei principi giuridici medesimi della legge 194, essa dovrebbe essere rivista.
Perché ogniqualvolta si sollecita una corretta applicazione della legge 194, o si domanda la sua revisione ovvero aggiornamento, in conformità ai suoi dettami ispiratori, gli abortisti replicano che essa è stata approvata da Parlamento e da un referendum, e non può essere modificata? Così facendo, gli abortisti contraddicono la legge 194 medesima, infrangendone i principi.
Al contrario, la legge 40, emanata da poco, vede già un TAR pronto a sospenderla ed a richiedere il parere della Consulta, in seguito agli esposti di determinate “associazioni”, a quanto pare di marca radicale, femminista ed omosessualista.
Rispondere ai quesiti suddetti equivale ad ammettere come i vari sostenitori della “libertà” intesa alla maniera del radicalismo e progressismo “illuminato” e salottiero rivendichino di fatto libertà solo per sé stessi e per le proprie idee, negandola sempre a quelle opposte. Le leggi devono essere rispettate, solo nella misura in cui è loro consono, così come la “volontà popolare”.
Il tentativo del TAR del Lazio di cancellare la legge 40 o comunque rettificarla o cambiarne l’applicazione può apparire agli occhi di molti come un attacco non solo alla separazione dei poteri dello Stato, all’autorità del Parlamento e del Presidente della Repubblica, ma alla volontà stessa degli Italiani, inequivocabilmente espressa da un referendum.[1]
Al contrario, a prescindere dalle valutazioni sulla liceità dell’aborto, cosa distinta dalla legittimità (l’aequum, il “giusto”, non necessariamente equivale allo ius, il “diritto”), se esiste una legge che andrebbe cambiata, in totale rispetto alle normative vigenti, anzi, in loro attuazione, è proprio “l’intoccabile” legge 194.
Marco Giulio
[1] Esso ha visto la conferma di questa legge stessa, nonostante l’opposizione di quasi tutti i “poteri forti” (dalla finanza all’intellettualità alla “grande stampa”)
domenica 23 dicembre 2007
NORBERTO BOBBIO: UN INTELLETTUALE LAICO CONTRO L'ABORTO
In realtà, la questione dell’aborto può e deve essere affrontata e risolta in termini meramente razionali ed obiettivi, lasciando da parte ogni posizione che può essere considerata soggettiva e personale.
Giudicare ingiusto quest’atto si fonda su motivi d’ordine etico non diversi da quelli per i quali si condanna in linea di principio l’omicidio d’un essere umano, indifferentemente dalla sua età, capacità intellettiva, cultura, ricchezza, sesso, etnia ecc.
Bobbio, detto il “papa laico” per la sua autorevolezza nell’ambiente dei laici italiani, così spiegava nel 1981, alla vigilia del referendum sull’aborto, le ragioni della sua contrarietà al medesimo.
Bobbio: ecco perché sono contro l’aborto di Giulio Nascimbeni
G.L. Alla vigilia del referendum sull'aborto, il «Corriere della sera» dell'8 maggio 1981 pubblicò un'intervista di Giulio Nascimbeni a Norberto Bobbio. Il filosofo, tra i massimi esponenti della cultura laica del dopoguerra, spiega così le sue ragioni a favore della vita.
Sono con Norberto Bobbio nel suo studio di Torino, fra scaffali gremiti e tavoli coperti da giornali e riviste. «Non parlo volentieri di questo problema dell'aborto» mi dice. Gli chiedo perché. «È un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri».
G.L. Quali diritti e quali doveri sono in conflitto?
Bobbio. «Innanzitutto il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. È lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione dell'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto».
G.L. Lei parlava di diritti, non di un solo diritto
Bobbio.«C'è anche il diritto della donna a non essere sacrificata nella cura dei figli che non vuole. E c'è un terzo diritto: quello della società. Il diritto della società in generale e anche delle società particolari a non essere superpopolate, e quindi a esercitare il controllo delle nascite».
G.L. Non le sembra che, così posto, il conflitto fra questi diritti si presenti pressoché insanabile?
Bobbio. «È vero, sono diritti incompatibili. E quando ci si trova di fronte a diritti incompatibili, la scelta è sempre dolorosa».
G.L. Ma bisogna decidere.
Bobbio. «Ho parlato di tre diritti: il primo, quello del concepito, è fondamentale; gli altri, quello della donna e quello della società, sono derivati. Inoltre, e questo per me è il punto centrale, il diritto della donna e quello della società, che vengono di solito addotti per giustificare l'aborto, possono essere soddisfatti senza ricorrere all'aborto, cioè evitando il concepimento. Una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere».
G.L. Quali critiche muove alla legge 194?
Bobbio.«Al primo articolo è detto che lo Stato "garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile". Secondo me, questo diritto ha ragione d'essere soltanto se si afferma e si accetta il dovere di un rapporto sessuale cosciente e responsabile, cioè tra persone consapevoli delle conseguenze del loro atto e pronte ad assumersi gli obblighi che ne derivano. Rinviare la soluzione a concepimento avvenuto, cioè quando le conseguenze che si potevano evitare non sono state evitate, questo mi pare non andare al fondo del problema. Tanto è vero che, nello stesso primo articolo della 194, è scritto subito dopo che l'interruzione della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite».
G.L. E se, abrogando la legge 194, si tornasse ai «cucchiai d'oro», alle «mammane», ai drammi e alle ingiustizie dell'aborto clandestino? L'aborto è una triste realtà, non si può negarla.
Bobbio. «Il fatto che l'aborto sia diffuso, è un argomento debolissimo dal punto di vista giuridico e morale. E mi stupisce che venga addotto con tanta frequenza. Gli uomini sono come sono: ma la morale e il diritto esistono per questo. Il furto d'auto, ad esempio, è diffuso, quasi impunito: ma questo legittima il furto? Si può al massimo sostenere che siccome l'aborto è diffuso e incontrollabile, lo Stato lo tollera e cerca di regolarlo per limitarne la dannosità. Da questo punto di vista, se la legge 194 fosse bene applicata, potrebbe essere accolta come una legge che risolve un problema umanamente e socialmente rilevante».
G.L. Esistono azioni moralmente illecite ma che non sono considerate illegittime?
Bobbio. «Certamente. Cito il rapporto sessuale nelle sue varie forme, il tradimento tra coniugi, la stessa prostituzione. Mi consenta di ricordare il Saggio sulla libertà di Stuart Mill. Sono parole scritte centotrent'anni fa, ma attualissime. Il diritto, secondo Stuart Mill, si deve preoccupare delle azioni che recano danno alla società : "il bene dell'individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente"».
G.L. Questo può valere anche nel caso dell'aborto?
Bobbio. «Dice ancora Stuart Mill: "Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano". Adesso le femministe dicono: "Il corpo è mio e lo gestisco io". Sembrerebbe una perfetta applicazione di questo principio. Io, invece, dico che è aberrante farvi rientrare l'aborto. L'individuo è uno, singolo. Nel caso dell'aborto c'è un "altro" nel corpo della donna. Il suicida dispone della sua singola vita. Con l'aborto si dispone di una vita altrui».
G.L. Tutta la sua lunga attività, professor Bobbio, i suoi libri, il suo insegnamento sono la testimonianza di uno spirito fermamente laico. Immagina che ci sarà sorpresa nel mondo laico per queste sue dichiarazioni?
Bobbio. «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».
I ragionamenti di Norberto Bobbio, insigne pensatore e giurista dell’intellettualità laica italiana, definito il “papa laico”, caposcuola della corrente detta del “gobettismo”, in quanto rifacentesi agli insegnamenti di Piero Gobetti ed alla sua dottrina liberale, spiccano per la loro logicità ed equilibrio, mostrando con semplicità e linearità consequenziale come l’aborto risulti contrario ai principi di giustizia a cui si rifà uno stato laico e liberale.
Il limpido argomentare bobbiano spiega altresì come la legittimazione dell’aborto considerato quale “male necessario” sia in realtà inaccettabile rispetto alle esigenze poste dalla morale naturale, così come lo sarebbe depenalizzare ad esempio i furti d’automobili.
Pertanto, anche secondo questo laicissimo giurista e filosofo, l’aborto consiste nell’uccisione d’una vita altrui, pertanto esso è un atto intrisecamente ingiusto, poiché il diritto alla vita è primario e fondamentale rispetto ad ogni altro diritto (anche perché è il requisito imprescindibile per il loro esercizio), tanto più che questi possono essere facilmente esercitati evitando il concepimento.
E’ inammissibile ammettere l’aborto, in quanto violazione di ciò che anche Bobbio considera “imperativo categorico” , il principio di non uccidere.