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sabato 15 agosto 2009

Foibe, stragi, esodo: quale ruolo ebbero i comunisti nostrani? (click)


Giornata del Ricordo
10 Febbraio 2009

Nel 2005 moriva Aldo Bricco, l’ultimo superstite della strage di Porzus. E pensare che doveva morire sessant’anni prima, nel 1945. Così almeno avevano deciso i suoi assassini. Bricco mi aveva confidato questa storia all’indomani della caduta del muro di Berlino, quando lo incontrai a Pinerolo, dove abitava.

Per inquadrare storicamente la vicenda bisogna immaginare cosa era il Friuli-Venezia Giulia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. I tedeschi, reagendo alla defezione italiana, avevano costituito due regioni “speciali” al confine fra il Reich e la Repubblica sociale. Una, il “Territorio prealpino”, comprendeva le attuali province di Bolzano, Trento e Belluno, mentre l’altra era denominata “Litorale adriatico” e comprendeva le attuali province di Udine, Pordenone, Gorizia, Trieste, Lubiana, Fiume e Pola, compreso il golfo del Quarnaro con le isole di Cherso, Veglia e Lussino. Il “Litorale adriatico” era una zona di incontro fra varie etnie (italiani, friulani, tedeschi, sloveni, croati e addirittura 22.000 cosacchi antibolscevichi alleati dei tedeschi e trapiantati in Carnia), ma era anche una zona di scontro fra tendenze politiche diverse, addirittura opposte. Mentre la Repubblica sociale italiana tendeva a mantenere il possesso di quelle terre, i tedeschi operavano per l’annessione al Reich e il terzo protagonista, il movimento partigiano comunista, mirava all’annessione di quelle terre alla Iugoslavia con metodi semplici nella loro crudeltà: occupazione del territorio (le città di Trieste e Gorizia ne sanno qualcosa) ed eliminazione fisica dell’avversario mediante pulizia etnico-ideologica. Tristemente note sono diventate le “foibe”, cavità del terreno carsico in cui furono gettati, per lo più ancora vivi, 22.000 italiani. Tanto per fare un esempio, la sola foiba di Basovizza contiene 2.500 vittime, pari a 500 metri cubi di cadaveri, un ammasso di 34 metri di salme, una sopra l’altra.

Innumerevoli le stragi, come quella di Cave del Predil, dove il 23 marzo 1944 ventidue carabinieri furono catturati dai partigiani comunisti, avvelenati, torturati e tagliati a pezzi. La strage delle malghe di Porzus è forse la più nota, tant’è vero che ha ispirato anche un film. Ma non tutti i partigiani combattevano per l’annessione di quelle terre alla Iugoslavia; al contrario, alcune formazioni, quelle in cui militava Bricco, erano di ispirazione filomonarchica e si battevano per l’italianità di quelle zone. Erano le brigate “Osoppo”, caratterizzate dai fazzoletti verdi al collo, un colore che rammentava la provenienza alpina di tanti di quei combattenti. Di idee opposte erano quelli col fazzoletto rosso, di fede comunista: erano le brigate “Garibaldi” che, pur costituite da italiani, erano inquadrate nel IX corpus dell’armata iugoslava e avevano per obiettivo l’annessione alla Iugoslavia di tutte le terre friulane “fino al sacro confine del Tagliamento”, come sostenevano con una bizzarra interpretazione della storia e della geografia. Due razze opposte di partigiani, dunque: gli “osovani” e i “garibaldini”. Fazzoletti verdi e fazzoletti rossi. Gli uni erano più alpini che partigiani, gli altri erano più comunisti che italiani e fra loro non poteva esserci intesa, a parte il comune nemico nazifascista. Fu così che i garibaldini decisero di ricorrere al loro metodo preferito, quello dell’eliminazione fisica dell’avversario, e decisero di sterminare la leadership osovana.

Racconta Bricco: “Ci dissero che dovevamo trovare un compromesso fra le nostre idee diverse e ci proposero un incontro per discutere del futuro assetto del Friuli-Venezia Giulia. All’incontro, da tenere alle malghe di Porzus, dovevano partecipare tutti i comandanti partigiani dell’una e dell’altra parte, ma senza armi, precisarono. Noi accettammo, in buona fede, senza sospettare nulla. Era il mese di febbraio del 1945; noi eravamo in 23, arrivammo per primi e prendemmo posto all’interno delle malghe. Dopo un paio d’ore arrivarono anche i comunisti, ma la discussione non ci fu; il loro capo puntò l’indice contro il nostro comandante e gridò “Tu sei un traditore!”, poi estrasse il mitra da sotto il cappotto e gridò “A morte i traditori!”. Quello era il segnale. Tutti i rossi misero mano alle armi e fecero fuoco. Era un inferno, una strage, e noi non potevamo neanche reagire…” .

Continua Bricco: “Io e un altro, i più vicini ad una finestra, ci gettammo fuori. L’altro fu subito raggiunto da una raffica e rimase esanime. Anch’io fui colpito da una pallottola, caddi, ma mi rialzai e feci l’unica cosa che potevo fare: correre. I rossi continuavano a spararmi e a colpirmi; sentii una pallottola che mi perforava un braccio, poi un’altra che mi attraversava una spalla, poi ancora una che mi entrava in una gamba, ma io continuavo a correre, cercavo di essere più veloce delle pallottole, sentivo che altre pallottole mi trapassavano gambe, braccia e schiena, mi attraversavano come fa una lama nel burro, ma io continuavo a correre, mi buttai giù per un canalone, mi salvai solo io”.

“Che fine hanno fatto gli assassini? Sono stati assicurati alla giustizia?” chiesi. “Macchè - rispose -, l’hanno fatta franca tutti quanti. Chi ha usufruito dell’amnistia di Togliatti subito dopo la guerra, chi si è rifugiato in Iugoslavia protetto dal governo di Belgrado, chi è stato condannato all’ergastolo o a 30 anni di galera ma è stato aiutato dal partito comunista italiano a fuggire in Cecoslovacchia o in Unione sovietica e poi è stato graziato dall’amnistia di Pertini nel 1978. Alcuni hanno ricevuto medaglie al valor militare e altri continuano a percepire pensioni dallo stato italiano…”.

E poi ci fu la tragedia dell’esodo. I 300.000 profughi italiani fuggiti dall’Istria e dalla Dalmazia per non finire nelle foibe furono distribuiti su tutto il territorio nazionale, dove non sempre furono bene accolti. In Emilia, ad esempio, al passaggio dei treni carichi di profughi i ferrovieri comunisti chiusero le fontanelle delle stazioni per impedire loro di dissetarsi. A Bologna la Pontificia Opera di Assistenza aveva predisposto un pasto caldo per i profughi destinati alla Liguria, ma non riuscì a distribuirlo, perché il sindacato comunista dei ferrovieri minacciò dagli altoparlanti che se i profughi avessero consumato il pasto uno sciopero generale avrebbe paralizzato la stazione, e il treno fu costretto a passare senza fermarsi. Ad Ancona il 16 febbraio 1947 il piroscafo “Toscana”, che approdava da Pola carico di famiglie italiane, fu accolto sul molo da una selva di bandiere rosse, fischi, insulti e gestacci col pugno chiuso.

Ma - fatto ignoto ai più - oltre all’esodo ci fu anche il controesodo: lo organizzarono i comunisti italiani verso la Jugoslavia per consentire a molte famiglie di riempire il vuoto lasciato dai cittadini giuliano-dalmati e perché potessero usufruire dei piaceri del paradiso comunista; un altro motivo fu quello di mettere in salvo tanti compagni che si erano macchiati di delitti durante e dopo la resistenza e che in Italia avevano problemi con la giustizia.

Ma venne il 1948, con la rottura fra Tito e Stalin. Il dramma della lacerazione ideologica dei comunisti italiani, soprattutto triestini, combattuti fra la fedeltà a Mosca e quella a Belgrado era nulla in confronto al calvario fisico e psichico che dovettero patire decine di migliaia di dissidenti rimasti fedeli al Cominform e al Cremlino e che caddero fra le grinfie dei titini. Questi comunisti fedeli a Mosca furono circa 32.000 e vennero rinchiusi nell’isola-lager di Goli Otok, l’Isola Calva nell’arcipelago della Dalmazia settentrionale. Circa 4.000 detenuti morirono di stenti, di malattia, di torture, di lavori forzati e di percosse su quell’isola, dove finirono anche parecchi comunisti italiani, soprattutto da Monfalcone, i cosiddetti “cantierini” (circa 350) che si recarono fiduciosi oltre confine per “costruire il socialismo”. I più fortunati vi giungevano già cadaveri ma chi aveva la sventura di arrivarvi vivo, a bordo di stipatissime imbarcazioni maleodoranti, riceveva il primo benvenuto da parte di altri detenuti, già ospiti della brulla isola-lager, che armati di randelli si precipitavano urlanti nelle stive e massacravano di legnate i prigionieri prima ancora che scendessero. Poi i nuovi arrivati (o perlomeno i sopravvissuti) venivano fatti scendere in fila indiana, scalzi sulle rocce taglienti come coltelli e sotto il sole, e avviati verso il lager fra due ali di altri detenuti che continuavano a urlare e a randellarli a sangue.

I pochi detenuti che alla fine riuscirono a sopravvivere e a ripararsi in Unione Sovietica o in Italia, scoprirono che a Mosca era impossibile pubblicare un articolo sugli orrori di Goli Otok. Sì, sarebbe stato un ottimo strumento propagandistico contro Tito, ma la cosa, di riflesso, avrebbe messo sotto accusa anche i gulag sovietici, fenomeno di ben più grande portata rispetto alla modesta Isola Calva, che al loro confronto era una località di villeggiatura.

Anche in Italia i sopravvissuti dei lager di Tito scoprirono di essere solo dei cadaveri ambulanti condannati all’oblio: per ragioni politiche non se ne poteva parlare. Non esisteva ancora una “Giornata del ricordo”, neanche per loro

DEDICATO A PIERLUIGI.

giovedì 18 dicembre 2008

HANNAH ARENDT SULL'EUTANASIA


La “morte pietosa” di Eluana

Martedì 02 Dicembre 2008 12:21

Prima di Auschwitz Hitler pensò all’eutanasia e al “modo umanitario” con cui porre fine alla vita delle “persone incurabili”.
Una pagina profetica della grande filosofa e scrittrice Hannah Arendt.

L’idea di sterminare tutti gli ebrei, e non soltanto quelli russi o polacchi, aveva radici molti lontane. Era nata non nell’Rsha o in qualcuno degli altri uffici di Heydrich o di Himmler, ma nella Cancelleria del Führer, cioè nell’ufficio personale di Hitler. Non aveva nulla a che vedere con la guerra e non fu mai giustificata con le necessità militari. Uno dei grandi meriti del libro The final solution di Gerald Reitlinger è quello di aver dimostrato, in base a documenti che non lasciano dubbi, che il programma di sterminare col gas gli ebrei dell’Europa orientale fu uno “sviluppo” del programma dell’eutanasia di Hitler. (…)

Le prime camere a gas furono costruite nel 1939, in ottemperanza al decreto di Hitler, del 1° settembre di quell’anno, secondo cui alle «persone incurabili» doveva essere «concessa una morte pietosa». (Fu probabilmente questa origine a infondere nel dott. Servatius la sorprendente convinzione che lo sterminio coi gas dovesse essere considerato una «questione medica»). L’idea in sé, come abbiamo detto, risaliva a molto tempo prima. Già nel 1935 Hitler aveva spiegato al suo “Capo medico del Reich” Gerhard Wagner che, se fosse venuta la guerra, avrebbe «ripreso e condotto in porto questa faccenda dell’eutanasia, poiché in tempo di guerra è molto più facile». Il decreto entrò immediatamente in vigore per ciò che riguarda i malati di mente, e così tra il dicembre del 1939 e l’agosto del 1941 circa cinquantamila tedeschi furono uccisi con monossido di carbonio in istituti dove le camere della morte erano camuffate in stanze per la doccia – esattamente come lo sarebbero state più tardi ad Auschwitz.

Il programma suscitò enorme scalpore. Era impossibile tener segreta l’uccisione di tanta gente; la popolazione tedesca delle zone in cui sorgevano quegli istituti se ne accorse e ci fu un’ondata di proteste, da parte di persone di ogni ceto che ancora non si erano fatte un’idea “oggettiva” della natura della scienza medica e dei compiti del medico. Nell’Europa orientale lo sterminio coi gas – o, per usare il linguaggio dei nazisti, il «modo umanitario» di «concedere una morte pietosa» – iniziò quasi il giorno stesso in cui in Germania fu sospesa l’uccisione dei malati di mente. Gli uomini che avevano lavorato per il programma di eutanasia furono ora inviati a oriente, a costruire gli impianti per distruggere popoli interi – e questi uomini erano scelti o dalla Cancelleria del Führer o dal ministero della sanità del Reich, e solamente ora furono messi, amministrativamente, sotto il controllo di Himmler.

Gli istituti di carità del Führer
Nessuna delle varie Sprachregelungen (regolamenti della lingua, ndr) studiate in seguito per ingannare e camuffare ebbe sulle menti degli esecutori l’effetto potente di quel decreto hitleriano, contemporaneo allo scoppio della guerra, dove la parola «assassinio» era sostituita dalla perifrasi «concedere una morte pietosa». Eichmann, quando il giudice istruttore gli chiese se l’istruzione di evitare «inutili brutalità» non fosse un po’ ridicola visto che gli interessati erano comunque destinati a morte certa, non capì la domanda, tanto radicata nella sua mente era l’idea che peccato mortale non fosse uccidere, ma causare inutili sofferenze. E durante il processo ebbe scatti di sdegno sincero per le crudeltà e le atrocità commesse dalle Ss e raccontate dai testimoni, anche se la Corte e il pubblico quasi non se ne accorsero perché, fuorviati dal suo sforzo costante di non perdere l’autocontrollo, si erano convinti che egli fosse un uomo incapace di commozione e indifferente.


A scuoterlo veramente non fu l’accusa di aver mandato a morire milioni di persone, ma soltanto l’accusa – mossagli da un testimone e non accolta dalla Corte – di avere un giorno picchiato a morte un ragazzo ebreo. Certo, egli aveva mandato gente anche nell’area dove operavano gli Einsatzgruppen (i reparti speciali tedeschi, ndr), i quali non concedevano “una morte pietosa” ma fucilavano, tuttavia doveva poi aver provato un senso di sollievo quando ciò non fu più necessario data la sempre crescente “capacità di assorbimento” delle camere a gas. Doveva anche aver pensato che il nuovo metodo rappresentava un decisivo miglioramento nell’atteggiamento del governo nazista verso gli ebrei poiché il beneficio dell’eutanasia, a regola, era riservato soltanto ai veri tedeschi. Col passare del tempo, mentre la guerra infuriava e dappertutto era morte e violenza (sul fronte russo, nei deserti africani, in Italia, sulle coste francesi, tra le rovine delle città tedesche), i centri di sterminio di Auschwitz e di Chelmno, di Majdanek e di Belzek, di Treblinka e di Sobibor, dovevano davvero essergli apparsi altrettanti «istituti di carità», come li chiamavano gli esperti di eutanasia.

giovedì 25 settembre 2008

QUEL CHE INSEGNA OGGI LA ROMA PAPALINA….


A proposito delle recenti polemiche sul 20 settembre e sulle multe alle prostitute…
Ieri Paolo Franchi, sul Corriere della sera, metteva in guardia dal tentare qualsiasi “revisionismo storico” sul Risorgimento per non cadere nel “ridicolo” e non mettere in pericolo lo stesso stato nazionale.

In pratica Franchi scomunica il cosiddetto “uso pubblico della storia”.

Gli consiglierei di leggersi qualche libro di Paolo Mieli, storico anticonformista nonché direttore del Corriere della sera su cui lui scrive.

Mieli infatti si spinge da anni, con intelligenza, proprio verso quei “lidi fino a qualche tempo fa inimmaginabili” che paventa Franchi.

L’attuale direttore del Corriere è arrivato a sottoporre ad analisi critica – per usare le parole di Franchi - proprio i “miti fondativi della storia nazionale”. Anche perché è davvero stravagante che chi fa professione di laicità voglia imporre il bigottismo dei miti, che diventano dogmi storiografici intoccabili.

Nel volume intitolato “Storia e politica. Risorgimento, fascismo e comunismo”, Mieli inizia proprio così: “Ma perché la Sinistra italiana (diciamo meglio: parte della Sinistra) si accanisce a tal punto contro il cosiddetto uso pubblico della storia spingendosi a dar la caccia agli untori anche nel proprio campo? Davvero pensa che esista qualcuno che abbia ordito una congiura per mandare all’aria lo Stato democratico e repubblicano, rivisitando criticamente il Risorgimento, il fascismo e il comunismo?”.

Poi dimostra che da 2.500 anni “politica e storia sono sempre andate assieme”, aggiunge che da 2.500 anni “il mestiere dello storico” è sempre stato di “revisionare criticamente” ciò che è stato tramandato. E conclude – Mieli – che i problemi di oggi derivano proprio “da quel che è rimasto in ombra nella discussione su come è nata l’Italia”. Per esempio: “il dibattito storiografico sul Risorgimento fu quasi del tutto sordo alle ragioni dei vinti”.

Infine Mieli, nel volume “Le Storie. La storia” cita un convinto risorgimentale come Alfonso Scirocco che scriveva: “Gli interrogativi sulle scelte operate nel 1861 e confermate nei decenni successivi sono legittimi. Nascono da un’esigenza attuale, quella di trarre dall’indagine intorno alle radici dell’Italia odierna risposte convincenti sulla debolezza del nesso nazione-società-Stato, che sembra non avere avuto fin dall’inizio la saldezza desiderata”.

Anzi, il suddetto direttore del Corriere concludeva uno di questi suoi saggi affermando che “le divisioni sono benefiche” e auspicava che, anche sul Risorgimento, “ci si possa sanamente dividere e contrapporre senza avvertire il pericolo che vada a morire l’intera dialettica democratica”. Esattamente il contrario dell’editoriale di Franchi che si chiudeva proprio evocando il rischio della “morte” (di che?) a causa del “revisionismo storico”.

Un’ultima puntura polemica a Franchi.

Sia l’editorialista, sia altri storici, in questi giorni hanno fatto di tutta l’erba un fascio, accomunando gli sconfitti del 20 settembre 1870 a Porta Pia, agli sconfitti del 1945.

Mi sembra ingiusto e assurdo.

Non tutti i vinti hanno torto. I nazisti erano un esercito occupante che, fra l’altro, in Italia, si macchiò di stragi orrende. Mentre lo Stato Pontificio era uno stato sovrano, più antico e anche più italiano di quello piemontese (nel quali i Savoia parlavano addirittura francese).

Quindi nel 1870 vinsero gli occupanti e gli aggressori. Nel 1945 vinsero i liberatori.

C’è una bella differenza. Non confondiamo storie diverse.

E mi pare giusto che dopo 130 anni il Comune di Roma possa ricordare anche i romani che difesero lo stato pontificio (peraltro Pio IX aveva dato ordine di resa per evitare inutili spargimenti di sangue).

Personalmente non ho nessuna nostalgia del “Papa re”. Non solo perché un certo Ettore Socci combatté a Mentana fra i garibaldini. Ma soprattutto perché ritengo – come disse Paolo VI – che sia stata provvidenziale la fine del potere temporale dei papi, che già Pio IX sentiva come una zavorra equivoca per la missione spirituale e universale della Chiesa (come si vede Dio scrive diritto anche su righe storte).

Questo però non significa tacere sul fatto che:

1) quello stato pontificio era del tutto legittimo (come e più degli altri stati italiani: il Regno delle due Sicilie, quello piemontese e il Granducato di Toscana);

2) il potere temporale dei papi nascendo fu la salvezza dell’Italia: lo ha dimostrato uno storico anticlericale come Edward Gibbon;

3) l’invasione dello stato pontificio da parte dello stato piemontese, con la confisca di una quantità immensa di beni appartenenti alla Chiesa (e la persecuzione dei religiosi, cacciati dai conventi) è una clamorosa ingiustizia e non ha alcun fondamento giuridico e morale;

4) i Patti Lateranensi sono stati solo un parziale risarcimento;

5) la conquista militare piemontese degli altri stati italiani è stato il peggior modo di fare l’unità d’Italia. Perché l’hanno fatta contro gli italiani.

Così ci è stato inflitto uno stato centralista e burocratico, che ha defraudato il Meridione (e non si è più ripreso), che si è fondato sul debito pubblico, e ha dato inizio a una industrializzazione assistita che ha viziato fin dalla nascita la nostra economia.

E’ infine lo “Stato etico” ed elitario del Risorgimento (dove votava una piccolissima minoranza) che ci ha portato all’immane tragedia della Grande Guerra e al fascismo.

Tragedie dovute al fatto che la casta risorgimentale al potere in sostanza tenne fuori dallo Stato gran parte della nazione che era contadina e cattolica.

“L’Italia” ha scritto Ernesto Galli della Loggia “è l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale (…) sia avvenuta in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale”.

Così, cito ancora Mieli, “tra il 1861 e il 1915, il popolo anziché essere una riserva di consenso, costituì un problema per le élites liberali che fecero l’Italia. Con conseguenze drammatiche nella definizione dei modi di fare e di intendere la politica”.

Com’è noto a tutti – eccetto ai faziosi – Pio IX era un convinto patriota italiano e il suo progetto di Italia federale era di gran lunga il più realistico e pacifico. Attraverso il Rosmini tentò di mettere d’accordo i vari stati italiani, fra estate 1847 e autunno 1948, sul modello dello Zollverein tedesco (che poi è la via che è stata praticata dalla comunità europea).

Quel progetto, che era realizzabilissimo, avrebbe risparmiato alla nostra nazione una gran quantità di vite umane e una enorme dissipazione di denaro pubblico. Inoltre ci avrebbe evitato tutti i problemi – a partire dalla questione meridionale – che ci portiamo dietro da due secoli. E avrebbe valorizzato le diverse identità culturali locali, di cui l’Italia è ricca.

Il progetto d’Italia federale di Pio IX fallì per colpa del no del Piemonte che coltivava il suo progetto di espansione dinastica grazie all’appoggio di forze e potenze internazionali che avevano interesse a spazzar via il papato e ad avere un’Italietta succube e sottomessa alla loro politica estera.

Oggi che si torna a parlare di federalismo si può riconoscere una certa lungimiranza a Pio IX ? Anche perché il federalismo di quel momento storico innescava una dinamica unitaria fra i diversi regni italiani, quello di oggi rischia di innescare spinte centrifughe. Perciò, paradossalmente, va realizzato con il sentimento nazionale da cui era animato Pio IX, che può essere il punto di incontro ispirativo sia dei federalisti, sia di chi ha a cuore l’unità nazionale.

Certo l’episodio del 20 settembre scorso, col vicesindaco Cutrufo, può essersi prestato ad equivoci. Ma sarebbe intelligente se proprio dal Comune di Roma venisse la spinta culturale e politica a superare antiche faziosità e a coniugare il federalismo col sentimento nazionale, le identità con l’unità. Questa sarebbe grande politica.

Antonio Socci

(da Libero 23.9.2008)

domenica 3 agosto 2008

CRISTIANESIMO E ROMANITA'

EREDITA’ DI ROMA E CRISTIANESIMO

Premessa. Il cristianesimo ed il mondo antico
Mi scuso per l’estrema ingenuità e la grossolanità dell’intervento successivo, il quale pretende di riassumere in così poco spazio ed in forma tanto rozza una quantità di questioni storiche quanto mai complesse e delicate. Il sottoscritto non intende svolgere una teorizzazione teologica, bensì solo ed unicamente storica, tale da poter essere accolta quale razionalmente vera da chiunque, indipendentemente dai suoi convincimenti religiosi individuali.
Molto spesso si ritiene che il cattolicesismo e l’Ortodossia, ovvero il cristianesimo “latino” e quello “greco”, discendano unicamente da un’evoluzione del giudaismo del I secolo d.C. Ciò è assolutamente falso. Come recita un’antica massima, queste due forme di cristianesimo, fra loro assai simili, sono certamente figlie di Gerusalemme (il giudaismo), ma anche di Alessandria (la cultura greco-ellenistica d’impronta orientale, con la sua simbolica ed il suo pensiero “mistico”), Atene (il pensiero filosofico greco, che ha segnato in modo indelebile non solo l’intera elaborazione teologica cattolica ed ortodossa, ma i suoi medesimi principi ispiratori; la letteratura e l’arte greche) e Roma (il pensiero giuridico; il modello organizzativo ed amministrativo di tipo statale; la letteratura e l’arte romane).
La civiltà greca ha brillato specialmente nel sapere filosofico, nella spiritualità (la filosofia greca era, specie nel platonismo, assieme “filosofia” nell’accezione odierna e “mistica”), nell’arte e nella letteratura, mentre invece quella romana ha dato il meglio di sé nel pensiero politico, giuridico ed amministrativo. Ambedue queste grandi culture hanno lasciato tracce indelebili nel cristianesimo maggioritario, ovvero il cattolicesimo (la “chiesa latina”) e l’Ortodossia (la “chiesa greca”), ciascuna secondo le proprie caratteristiche salienti.
Questo è un dato di fatto storico, anzi, un’immensa congerie di dati laboriosamente raccolti, ma risulta altresì una eredità storica consapevolmente rivendicata dai teologi cattolici ed ortodossi stessi, sin dall’Antichità. Già il primo dei Padri della Chiesa, Giustino, teorizzava l’esistenza dei “semi del Verbo” (tà spermatà tou Logou), ovvero della partecipazione alla divina Rivelazione anche da parte dei Greci e dei Romani, i quali, senza saperlo, avrebbero preannunciato, esattamente come i Giudei, la venuta di Cristo. La cultura greca e romana non era per i teologi cristiani antichi, o meglio per il mainstream del cristianesimo antico, da considerarsi falsa, ma soltanto, come il giudaismo, incompleta ed imperfetta. Essa risultava finalisticamente e provvidenzialmente ordinata alla venuta del Salvatore, il cui insegnamento non negava la validità della grecità e della romanità, come non aboliva la “legge antica” giudaica, bensì soltanto li conduceva a compimento.
Il pensiero storicistico tipico del cristianesimo, il quale teorizza una Rivelazione progressiva nella storia e nel tempo, la quale trova infine il proprio compimento in Gesù, ma che viene interpretata ancora nel tempo anche dopo l’adventus Christi, consente proprio di porre ciò che è anteriore cronologicamente alla venuta del Salvatore, quindi non soltanto il giudaismo, ma anche le religioni del Vicino Oriente (“Alessandria”), l’Ellade (“Atene”) e la romanità (“Roma”) quali, seppure imperfette ed incomplete, manifestazioni del Verbo e della Provvidenza divine.[1]
Questa dottrina teologica permise al cristianesimo di farsi scientemente imitatore ed erede di Roma. A scanso d’equivoci, preciso che le “eredità” che saranno riferite non devono affatto essere interpretate quali semplici derivazioni, bensì considerate come “influssi” e “fusioni” di cultura romana e cristiana: ad esempio, l’istituzione episcopale trae la sua linfa dall’evoluzione autonoma dell’ecclesia, per poi incontrarsi con il modello politico romano.


La Chiesa e l’Impero
La struttura ecclesiastica, nella sua articolazione di patriarca-arcivescovo-vescovo-sacerdote, e nella sua categoria di territorialità è ripresa puntualmente dall’apparato statale ed amministrativo romano. A partire dal II secolo d.C., l’ordinamento ecclesiastico, incentrato sulla figura del vescovo, capo della comunità dei fedeli a cui spettava la nomina dei presbiteri, si era formato su quello pubblico, prendendone a modello l’organizzazione politico-amministrativa. Il sistema episcopale riproduceva in tal modo gli schemi propri dello stato romano, nel suo apparato centralizzato e gerarchico, fondato sulla territorialità del diritto. Dato che alle province in cui era suddiviso l’impero corrispondevano altrettante circoscrizioni ecclesiastiche, fu riconosciuta una dignità speciale ai seggi vescovili dei capoluoghi provinciali. Quando, in seguito alla riforma di Diocleziano, le province furono raggruppate in dodici circoscrzioni superiori, le diocesi, aventi per capitale la metropoli della provincia più improtante, ulteriore fu il prestigio acquisito dai seggi episcopali metropolitani quali coordinatori dei vescovi appartenenti a quella medesima circoscrizione ecclesiastica. Infine, l’affermarsi dei patriarchi al vertice della gerarchia ecclesiastica dipese in modo considerevole, anzi decisivo, dall’ulteriore ripartizione amministrativa dell’impero, specie dalle due capitali imperiali di Roma e Costantinopoli, divenute poi vertici della Chiesa latina e di quella greca
La figura del vescovo è largamente ispirata a quella del magistrato romano, così come l’estrazione sociale dei vertici ecclesiastici a partire dalla fine del II secolo discende dall’ordine senatorio. Come scrive, fra gli altri, un grande storico italiano, Giovanni Tabacco, “Il risultato di tutti questi processi culturali ed istituzionali fu un sistema cattolico di impronta aristocratica, civilmente autorevole, armato, nei suoi rappresentanti qualificati, di attributi imperiosi, elaborati sul modello del magistrato romano, e di tutte le arti della persuasione e dell’eloquenza, della retotica e della dialettica; con responsaabilità crescenti, per le competenze giuridsidioznali concesse ai vescovi dagli imperatori al di là della pura disciplina ecclesiastica, in concorrenza dunque col magistato civile”
La figura del pontefice, quale viene ad essere elaborata a partire dal secolo V, e soprattutto dal XI, è fondata in buona misura ispirandosi sia alla “teologia imperiale”, sia alla dottrina giuridica concernente l’imperatore romano stesso. In altri termini, ciò che l’imperatore è per l’imperium Romanorum, così il pontefice nei confronti delle ecclesia Christianorum. Lo stesso apparato simbolico esprimente il potere pontificio, a cui nel Medioevo e nell’era moderna s’attribuiva ben altro rilievo che non nel mondo contemporaneo, è ispirato all’istituzione imperiale.
Inoltre, il governo pastorale e l’amministrazione disciplinare della Chiesa al suo interno è stata, almeno sin dal secolo XI, fondata sull’applicazione dei principi del diritto romano a quello canonico. La “rinascita” del diritto romano in Occidente è compiuta anzitutto attraverso tale sua applicazione all’ambito ecclesiologico, per poi estendersi a quello politico in senso stretto.
La definizione stessa di “Chiesa” è stata condizionata dal diritto romano, con l’evoluzione in senso pubblicistico dell’autorità pontificia, secondo il modello dell’antico ordinamento imperiale, da cui, fra l’altro, le categorie di unicità ed universalità della ecclesia, tradizionali nel cristianesimo, hanno ricevuto una reinterpretazione. In questo si palesa anche la presenza della cultura stoica, grande sostenitrice e teorizzatrice della nozione di oikumene ed universalità della ragione (il logos greco, divenuto nel cristianesimo il Logos cioè il Verbo divino incarnato), in totale opposizione all’esclusivismo etnico tipico del giudaismo. Infatti lo stoicismo è una filosofia divenuta quasi il fondamento ideologico della romanità imperiale e del suo pensiero politico, oltre ad essere molto diffusa nella classe senatoria romana.
Si riscontra pertanto un mimetismo compiuto fra Impero di Roma e Chiesa, specialmente quella cattolica, ma anche ortodossa. La nozione di ecclesia universale ed unica, il governo e l’amministrazione interni alla medesima, la struttura ecclesiale (parroco-vescovo-arcivescovo-patriarca-papa), ed in particolare i suoi due fulcri del vescovo e del pontefice, sono indubbiamente tutti condizionati in fortissima e decisiva misura dal modello imperiale. Sul piano organizzativo e “politico” latu sensu la Chiesa cattolica ed ortodossa è un vero e proprio calco dell’Impero romano.


Questo è in verità soltanto uno, il più visibile, delle moltissimi debiti che il cristianesimo cattolico ed ortodosso ha con Roma. Senza alcuna pretesa esaustiva, si possono ancora ricordare il calendario (ricordando che è su base calendariale che s’organizza il culto stesso, centrale nella vita religiosa: lex orandi, lex credendi), parte della liturgia stessa, l’architettura, l’arte e la musica sacre. Inoltre, parte dei valori della romanità sono stati assorbiti e trasformati nell’etica cristiana: le categorie ed i concetti di fides, pietas, virtus, charitas, cardini del mos maiorum romani, sono passati al cristianesimo.Su tutto ciò, però, in seguito.

[1] Già solo per questo, non è assolutamente legittimo in sede storica parlare di “giudeo-cristianesimo”, non solo perché giudaismo e cristianesimo sono radicalmente differenti, ma anche perché il secondo risulta continuatore ed erede d’una molteplicità di culture preesistenti, fra le quali quella giudaica è soltanto una. Incidentalmente, si deve rimarcare con forza come il cristianesimo nasca e si sviluppi in consapevole separazione e contrasto col giudaismo, sin da Paolo di Tarso, e poi nell’intera Patristica greca e latina. La teorizzazione d’un presunto “giudeo-cristianesimo” compare in verità soltanto nel XX secolo, ed è storicamente erronea.

sabato 2 agosto 2008

SU "LE ORIGINI DELLA CIVILTA' EUROPEA"

TI PREGO MARCO, CONTINUA CON QUESTA TUA ESCUSSIONE

L'idea che quella europea sia una civilità "giudaico-cristiana" è una nozione in realtà assai recente ed originaria in pratica degli USA, nei quali ad un ruolo importante del giudaismo s'accompagna un protestantesimo cosiddetto "giudazzante".
Considerando la molteplicità di forme, sarebbe più corretto parlare di "cristianesimi" al plurale, così come, ad esempio, di buddhismi. Tuttavia, il cristianesimo cosiddetto mainstream è nettamente distinto da giudaismo.
In particolare, il cattolicesimo e l'Ortodossia sono debitori dell'ellenismo orientale, della cultura greca in senso proprio, e di quella romana, in modo assolutamente decisivo, forse persino più rilevante che non nei riguardi del giudaismo.
In quanto alla civiltà europea, essa tra la propria origine dalla grecità (l'arte, la letteratura e sopratutto la filosofia, che ha condizionato in modo decisivo la stessa teologia cristiana ed è stata determinante per la nascita della scienza, oltre ad influenzare praticamente ogni campo del pensiero, da quello politico a quello artistico ecc.), da Roma (il sistema statale e giuridico, l'arte, specialmente l'architettura, la letteratura, il sistema militare, studiato ed imitato a partire almeno dalla Rinascenza), le stesse culture germaniche. Inoltre, una quantità enorme di fenomeni storici che hanno costruito la cultura europea sono irriducibili alla ricerca di "eredità e continuità" (la nascita del capitalismo, la stessa rivoluzione scientifica, la formazione del pensiero politico moderno ecc.)
Non solo ha poco senso parlare di civiltà giudaico-cristiana (proprio perché sono religioni MOLTO differenti), ma non si può assolutamente ridurre l'Europa a queste due fedi maggioritarie.

sabato 26 luglio 2008

RICEVO DALL'AMICO SAURO MAZZOLA

Maledetti comunisti!

"Rolando RIVI...
Classe 1931, nativo di Castellarano, ai confini fra le provincie di Modena e Reggio Emilia.
Figlio di contadini e Seminarista per vocazione intima, amico di Gesù.
Nel '44.dopo l'oocupazione tedesca anche del Seminario, Rolando è costretto a continuare gli studi a casa sua, in forma autodidatta, ma lui ha fretta, vuole diventare Sacerdote, veste la tonaca nera nonostante i paesani lo sconsiglino di farsi vedere in giro con quell'abito talare, inviso a molti.

Il 10 Aprile 1945, un martedì, Rolando come al solito va in Chiesa e suona l'organo durante la Messa del mattino per accompagnare i cantori, fra i quali c'è anche suo padre Roberto.
Al termine, con i libri sottobraccio si avvia allegro verso il boschetto vicino a casa per studiare.
Indossa come sempre la sua veste nera ma incontra un gruppo di partigiani comunisti che lo sequestarno immediatamente.
"Non cercatelo, viene un momento con noi partigiani" è scritto su un biglietto lasciato a fianco dei suoi libri.
Portato nel loro covo, alcuni partigiani lo spogliano della sua veste, lo sbeffeggiano e lo percuotono a cinghiate.
Lui dice. "Sono un ragazzo...sì sono un seminarista e non ho fatto nulla di male"...
Ha solo 14 anni, ha paura di morire, piange e chiede pietà.

Qualcuno dei partigiani si commuove, si rende conto che è soltanto un ragazzo e propone di lasciarlo andare, ma gli altri si rifiutano, deve morire perchè è un maledetto prete !
Decidono di uciderlo e lo portano in un bosco presso loe Piane di Monchio, vicino a Modena.
Gli scavano una fossa e lo mettono davanti mentre lui continua ad implorare fra i ghigni e gli sberleffi dei partigiani comunisti...
Allora lui capisce, si inginocchia e dice: " Voglio prima pregare per la mia mamma ed il mio papà"...
Due scariche di rivoltella alla testa e Rolando rotola a terra in una pozza di sangue.
Lo coprono frettolosamente con terra e fogliame secco.
Nel frattempo i genitori angosciati saputo del rapimento vanno a cercarlo.
Sulla via del ritorno incontrano il capo dei partigiani che dice loro: "E' stato ucciso qui, l'ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo".
Chissà se costui è rimasto tranquillo per il resto della sua vita ed anche dopo...
Maledetti comunisti.

Oggi è in corso una causa di beatificazione.
La istruisce Padre Tommaso Sottocorna
Comitato per la betaificazione di Rolando Rivi
Piazza Rolando Rivi
42014 Castellarano (Reggio Emilia)

giovedì 3 luglio 2008

LE ORIGINI DEL GRIDO EHJA, EHJA, EHJA ALALA'

PAROLE FRA AMICI.


Adalberto
Tonino ricorda il peggior fascismo 03/07/2008 20:21

Adalberto ha scritto:
E cerco qui di prevenire cavallerescamente la probabile mordace ignoranza del signor (omissis) col precisare che il "fascistissimo generale della minchia" Adalberto ha concluso il suo precedente argomento con quell'entusiastico grido di guerra "EHJA, EHJA, EHJA!....ALALA'!" che D'Annunzio suggerì al posto del barbarico "HIP HIP HIP ...HURRA'!" al termine di una cena alla mensa del Campo di aviazione della Comina, nella notte del 7 agosto del 1918.
Il giorno dopo infatti, gli aviatori ebbero ciascuno una bandierina di seta tricolore su cui il Vate aveva scritto di suo pugno quel nuovo grido di battaglia, con la data e la firma. Esso divenne presto in uso fra i combattenti; e dopo la guerra fu ripreso, e quindi non coniato, dal Fascismo.
Il grido ha origini classiche. L'"ehja o hehja" è una parola greca usata da Eschilo e anche da Platone; era diffuso anche nel Medioevo e cantato dai Crociati.
L'"alalà" (dal greco "alalazo") era un grido di guerra e di caccia, usato da Pindaro e da Euripide che si trova anche nel Carducci e nel Pascoli.La tradizione vuole che fosse anche il grido di incitamento di Ettore ai cavalli.
L'8 agosto del 1918 , al termine del bombardamento del porto militare di Pola D'Annunzio ordinò a tutti i piloti dei suoi "Caproni" (compreso quelli di destra) di alzarsi in piedi nel bel mezzo degli scoppi della contraerea austriaca e di gridare il fatidico "EHJA, EHJA, EHJA! ....ALALA'!" .
(Altri tempi di entusiastico ardire. NON TIMEO CULICES). Il generale "della minchia" Adalberto

ambrarosa ha scritto
Posso rubarti queste tue parole, così, pari pari, per mostrarle agli amici ?
Con affetto Ambra

Adalberto ha scritto
E ti senti in dovere di chiedermelo, carissima Ambrarosa? Ma certamente che puoi "rubarmi" ciò che ancora rimane del mio entusiasmo giovanile! Ehja, Ehja, Ehja...Alala'!
Con vivo affetto, dal...generale Adalberto

sabato 16 febbraio 2008

L'orgoglio dell'origine orientale

Grazie Marco per il tuo post, davvero interessante.
Sono questi i post che vorrei leggere, e che danno veramente qualcosa.
Se posso aggiungere qualcosina, avendo letto tutto Tito Livio (una lunghissima lettura) e tutto Erodoto, condivido le perplessità sull'attendibilità di notizie così antiche (Livio è contemporaneo di Augusto).
Erodoto, poi, ha creduto ai serpenti alati...
Anche i suoi dati numerici sull'esercito persiano mi sembrano assai gonfiati.

Vorrei aggiungere qualche considerazione.

Non ho letto le Origines di Catone (ahi, mi manca, ed invidio furiosamente chi ha potuto farlo), e di Catone ho letto solo il de agricultura.
Catone era un "burino", direbbero i Romani de Roma. Era di Tusculum, non di Roma. Persona da rivalutare, direi, rispetto al trattamento ingiusto che gli viene riservato dalla storiografia di sinistra, come ho avuto modo di evidenziare in un mio post su Catone, dove ho smascherato le menzogne dette sul suo conto. Cosa grave, mi pare che quelle menzogne fossero intenzionali e volte a stravolgere il suo pensiero.
Ma questo è altro discorso.
Catone era preoccupato per l'avanzare dell'ellenismo, e, diciamocelo francamente, non aveva tutti i torti, anche se paragoniamo le sue preoccupazioni con l'attuale, analogo ma non identico, sfacelo nei confronti dell'invasione (anche culturale) medioorientale. Almeno allora l'Oriente era più avanzato, mentre ora ci si vuole imporre il medioevo...

Catone rimane però una persona lucida che individua un reale pericolo per la Società in cui è vissuto ed ha amato.

Su Tito Livio mi sono fatto un'idea diversa.
Innanzitutto, nonostante lui si senta un rappresentante di Roma, e come tale sia visto, era di Padova, e non di Roma, e i suoi accenni a quei miti sono motivati da un malcelato orgoglio cittadino, come Padovano, prima che Romano.
Del resto siamo abituati a pensare a Cicerone come il rappresentante poer eccellenza della cultura romana, eppure Cicerone apparteneva ai Volsci, secolari nemici di Roma.

Io credo che entrambi, e tanti altri letterati considerati Romani, si sentissero Romani, e si possano considerare tali a tutti gli effetti, ma proprio questa loro identificazione con Roma testimonia dell'inesattezza della visione di chi guarda a Roma solo come l'esercito odiato ed invasore.

Livio rivendica un mito che ai suoi occhi nobilita la sua città, come l'etrusco Virgilio, nato nell'enclave etrusco di Mantova, ma anch'egli convinto Romano, rivendica il mito della discendenza dei Romani dai Troiani.

Perché tanto fascino in una parentela con popoli anatolici ?

Perché non dobbiamo guardare a quei tempi con gli occhi di oggi, ma tuffarci nell'atmosfera di allora.
Cogliamo gli indizi che possono illuminarci:
Egitto e Mesopotamia, soprattutto, ma in generale il medio oriente, e la Grecia poi, sono stati le culle della civiltà, raggiungendo livelli non confrontabili con le rozze (al confronto) civiltà europee di allora.
Dal punto di vista culturale, artistico, filosofico, l'Oriente (ivi comprendendo la Grecia, che poi, con Alessandro aveva conquistato l'Oriente, dando luogo all'ellenismo) era molto avanzato rispetto a Roma, e all'Europa in genere.
Dal punto di vista economico, chi non ricorda nomi come Creso e Mida, sinonimi leggendari di ricchezza.

Voglio dire che l'Oriente costituiva un punto di riferimento in qualche maniera simile a quello che ora è lAmerica per il resto del mondo.
Ecco perché i letterati facevano a gara ad attribuire alle proprie patrie paternità orientali.
Oggi tutto ciò sarebbe incomprensibile.
E magari qualcuno pensa semplicemente al fascino delle opere omeriche.
Resta da vedere, però, se Troia era davvero in Oriente, o magari ha ragione l'ing. Vinci a collocarla in Finlandia...
Una ricollocazione dell'intera vicenda eroica della guerra di Troia in ambientazione orientale, agli occhi di allora, avrebbe enormemente nobilitato quei guerrieri, quei popoli e quella storia.

Ma tutto ciò è da dimostrare.

Secondo me.

LA VENEZIA GIULIA PRE-ROMANA. LE ORIGINI DI VENETI ED ILLIRI

LA VENEZIA GIULIA PRE-ROMANA. LE ORIGINI DEI VENETI E DEGLI ILLIRI

Evitando di parlare del Paleolitico e del Mesolitico, ciò che sarebbe veramente eccessivo ai fini dell’argomento qui considerato, le più antiche popolazioni storicamente conosciute del territorio giulio-veneto furono i Liguri, stirpe mediterranea, ovvero pre-indoeuropea, estesa all’intera Italia del nord nel III millennio a.C. ed affine agli Etruschi.
Ai Liguri si sovrapposero e si fusero le popolazioni indoeuropee che immigrarono ed invasero la Venezia Giulia a partire circa dal principio del II millennio. Queste stirpe, sicuramente indo-europee, sono rispettivamente quelle degli Illiri e quella chiamata dagli studiosi coi nomi di Paleo-Veneti, Veneti Antichi, Venetici, e talora (di fatto, in passato, come si spiega subito dopo) Heneti.
Gli studiosi, almeno sino alla seconda guerra mondiale, hanno prestato grande interesse alla questione delle origini dei vari popoli che componevano il panorama etnico e culturale dell’Italia pre-romana. Una particolare attenzione è stata prestata certo agli Etruschi, per la loro grande importanza e l’originalità della loro civiltà, ma anche i Veneti sono stati attenti oggetto d’indagine.
Un’ipotesi sulla provenienza dei Paleo-Veneti e degli Illiri, senz’altro stretti parenti dal punto di vista etnico-linguistico (ciò che è stato sempre riconosciuto) è stata quella della loro origine dal Mediterraneo orientale, ovvero dal Vicino Oriente antico.
Questa teoria si fonda su quattro testi fondamentali: l’Iliade, le Storie di Erodoto, le Origines di Marco Porcio Catone (perdute, ma conosciute per sommi capi attraverso altri autori, soprattutto Cornelio Nepote), e naturalmente Tito Livio.

Che cosa si può opporre ad una simile teoria? Il sottoscritto premette di conoscere assai poco l’argomento qui affrontato. Pure, a conoscenza di chi scrive, la suddetta teoria ha incontrato il sostegno degli storici in passato, mentre oggigiorno è pressoché totalmente abbandonata, almeno in ambito accademico.
Gli argomenti contro la teoria suddetta si possono proporre nel seguente modo.

A] Inaffidabilità delle fonti scritte.
1) Anzitutto, esiste una contraddizione fra i dati forniti da Erodoto (ispiratosi ad una breve descrizione di Omero) da una parte, e quelli di Catone e Livio dall’altra, poiché Paflagoni e Troiani erano due popoli distinti
2) Inoltre, queste fonti hanno un carattere indiretto, poiché non appartengono ad autori di stirpe veneta, ma d’altre civiltà. E’ questo anche il caso di Livio, il quale è pur sempre un Romano, e d’altronde riprende sullo specifico punto qui esaminato l’insegnamento di Catone. Si pone quindi il problema d’una testimonianza che non è quella del popolo interessato, ma mediata da un’altra cultura, anche molto diversa. In realtà, Erodoto e Catone non informano sulle tradizioni realmente venete riguardo al passato di questa stirpe, ma su quelle formatesi in ambito greco e romano. Non è dato sapere se i Veneti le condividessero.
3) Ancora, la lontananza cronologica fra queste fonti ed il presunto evento riportato è davvero notevole. La cosiddetta “Troia omerica” (poiché questa città conobbe una storia di oltre 3000 anni, con la stratificazione di diverse città l’una sull’altra) fu distrutta attorno al 1200 a.C. I poemi omerici conoscono una redazione definitiva attorno al X-IX secolo, Erodoto al V secolo, le Origines di Catone al II secolo, Livio al I a.C. Considerando la certa assenza di fonti scritte capaci di tramandare tale supposto accadimento nei secoli frapposti fra Catone (il primo sostenitore della discendenza troiana dei Veneti) e la distruzione micenea di Troia, si hanno ben mille anni affidati unicamente a tradizioni orali. In tale lungo periodo il ricordo degli eventi avrebbe ben potuto deformarsi in misura a dir poco decisiva. Gli studi sul “folklore”, ad esempio, attestano come per il sorgere d’una leggenda, anche assai complessa, sia sufficiente un lasso di tempo non di generazioni, e neppure di anni, ma talora anche solo di giorni.
4) E’ possibile, se non probabile, che queste fonti cadano in errori interpretativi (Erodoto) od in intenzionali mistificazioni (Catone, Livio).
Erodoto parla di Henetoi in riferimento appunto ai “Veneti” dell’Adriatico, con ciò sostenendo essere i discendenti degli Henetoi della Paflagonia di cui parla Omero (II, 852). Però, il greco antico, come è noto, non conosceva l’uso del suono corrispondente all’italiano “V”, per cui il termine “Veneti” poteva ben conoscere da parte di un Greco un fenomeno di elisione della consonante iniziale, divenendo “eneti”, da cui l’identificazione, arbitraria, con gli Henetoi omerici. Questa supposizione appare rafforzata da un esame etimologico dei termini henetos (greco) e della radice –wenet, da cui “Veneti”. Henetos in greco può significare sia “fermaglio, fibbia”, sia “suddito, sottoposto, indotto, subornato”. Il passo in cui Omero parla degli Henetoi potrebbe intendersi pertanto non come riferito ad un popolo così chiamato (“Eneti Paflagoni”, giunti a Troia sotto il comando di Pilemene), bensì come “i sudditi Paflagoni” di Pilemene. Però, Erodoto lo avrebbe interpretato, erroneamente, come proprio di una specifica popolazione.
In ogni caso, comunque, henetos e –wenet sono due termini distinti, con significati e radice differenti. Infatti, -wenet designa “colui che viene da oriente”, “invasore dell’est”, il normale luogo geografico di provenienza degli Indoeuropei occidentali. Ciò spiega perché esistessero anche altri popoli indoeuropei, distinti dai “Veneti” dell’Adriatico, che avessero un nome simile od anche identico, come i Celti dell’Armorica, vinti da Cesare, che si chiamavano anch’essi Veneti. Questa analisi linguistica obsta ad un’identificazione fra gli Henetoi ed i Veneti.
In quanto a Catone, egli costituì il personaggio che più di tutti s’oppose all’ellenizzazione di Roma, incarnando il più schietto orgoglio nazionalista romano. Le Origines costituivano certamente una parte della sua battaglia politica e culturale contro l’influenza greca sull’Urbe, venendo scritte con consapevole intento polemico contro la storiografia greca e nella finalità d’esaltare la storia romana, anzi quella di tutti i popoli italici.
Un esempio d’un celebre mito, somigliantissimo a quelle delle origini troiane dei Veneti ed assai più celebre, può aiutare a comprendere le intenzioni di Catone. Il mito dell’origine di Roma dai discendenti di Enea, oggigiorno rifiutato da tutti gli storici, è certamente molto posteriore alle più antiche leggende su questa città (il duello degli Orazi e dei Curiazi, Muzio Scevola ecc.), le quali, come ha mostrato magistralmente Georges Dumèzil nella sua amplissima analisi comparativa, rientrano nell’ambito della mitologia religiosa indoeuropea. La sua formazione non rientra pertanto nella fase più antica della storia cittadina, ma è posteriore al contatto con la grecità, presentandosi quale strumento d’esaltazione nazionalistica, paragonabile al tentativo di un parvenu di nobilitarsi, inventandosi l’ascendenza da un antenato nobile.
E’ possibile, se non probabile, che il racconto d’Antenore ed alcuni superstiti Troiani quali antenati dei Veneti, che risulta speculare a quello della fondazione dell’Urbe da parte degli Eneadi, risponda alle medesime esigenze ed anzi sia stata elaborata prendendo a modello proprio il celeberrimo aneddoto d’Enea riparatosi nel Lazio. Questo d’altronde avrebbe consentito a Catone di presentare i Romani ed i Veneti loro fedeli alleati, quali erano all’epoca (il Veneto rimase a lungo indipendente e semplicemente socius di Roma) quali popoli con un’origine comune e quindi fratelli.
5) Allargando la prospettiva, la tipologia offerta dai racconti di Erodoto e di Catone rientra nei cosiddettio“miti delle origini”, ben noti agli antropologi ed agli storici delle religioni (in primis Eliade), i quali conoscono una diffusione praticamente universale. Fra le loro funzioni, esiste quella di giustificare e legittimare determinate istituzioni, riti od anche possesso di territori.


B] Differenza linguistica.
I popoli antichi che abitarono nel territorio geografico della Venezia-Giulia, prima della conquista romana, furono dapprima gli antichi Liguri, di stirpe mediterranea, pertanto non indo-europea, affini agli Etruschi, poi Veneti ed Illiri, in seguito anche Celti. La presenza dei Liguri, talora detti anche, nell’area nord-orientale, Reti, è antichissima e risale in pratica al più remoto neolitico italiano. Per quanto riguarda i Celti, è ben noto come la loro lingua sia indoeuropea, mentre l’area di provenienza nella Venezia Giulia è senz’altro l’Europa continentale: il loro popolamento nel territorio giulio-veneto fu piuttosto tardo (vi giunsero nei secoli V e IV, mescolandosi ai Veneti ed agli Illiri) e non tale da cancellare le popolazioni preesistenti. In quanto ai Veneti ed agli Illiri, essi sono senz’altro stirpi indo-europee, strettamente imparentate fra loro.
E’ appena il caso di ricordare come la “famiglia” delle lingue indo-europee si ramifichi progressivamente in ulteriori ceppi linguistici, secondo un procedimento filetico di ripartizione comunemente adoperato in campo linguistico e che consente altresì d’individuare e studiare la parentela etnica, oltre a quella appunto della lingua. Il Veneto è solitamente considerato dagli studiosi quale appartenente al “Gruppo Romanzo” (esistono molti altri “Gruppi”, come il “Gruppo germanico”, il “Gruppo celtico”, il “Gruppo slavo”, il “Gruppo greco” ecc.), il quale sia le moltissime lingue neo-latine ovvero derivate dal latino, sia il raggruppamento originario in cui rientrava il latino stesso, ovvero il cosiddetto “Italico”. L’Italico comprendeva il Latino-Falisco (ulteriormente suddiviso in Falisco e Latino), l’Umbro, l’Osco ed appunto il Venetico. Insomma, la lingua degli antichi Veneti era una lingua italica, strettamente apparentata alle altre popolazioni indo-europee della penisola.
In quanto agli Illiri, essi vengono fatti rientrare in un altro “Gruppo”, chiamato “Gruppo Illirico”, che comprendeva la lingua degli Illiri, residenti in Dalmazia, e quella dei Messapi, popolazione che viveva in Puglia. Nonostante appartengano a due “Gruppi” differenti, pure gli studiosi hanno riconosciuto la notevole vicinanza linguistica e quindi etnica fra Veneti da una parte, Messapi ed Illiri dall’altra.
Si deve a questo punto notare che i popoli indoeuropei abitanti nel Vicino Oriente antico nel II e I millennio a.C. appartenevano a “Gruppi” linguistici diversi da quello “Romanzo” ed “Illirico”. Il territorio anatolico avevano conosciuto il popolamento, beninteso per quanto concerne le stirpi indo-europee, dapprima degli Hittiti e dei Lidi, poi anche dei Frigi. Hittiti e Lidi appartenevano al “Gruppo Anatolico”, mentre i Frigi a quello detto “Traco-Frigio”.
E’ possibile pertanto concludere come, sotto l’aspetto linguistico, gli abitanti della Venezia-Giulia pre-romana non potessero considerarsi d’origine vicino-orientale, essendo in parte di lingua venetica, in parte illirica, differenti da quelle in uso nel Vicino Oriente ed oltretutto piuttosto simili fra loro.

C] Diversità economica, tecnologica e culturale coi popoli del Vicino Oriente.
Non è il caso di ricordare che il Vicino Oriente antico ha rappresentato, in maggiore o minore misura, la fons et origo di tutte le principali civiltà eurasiatiche ed in ogni caso la sede delle più antiche culture storiche. Al contrario, l’Italia, intesa come regione geografica, rimase per molti millenni una terra marginale ed, in termini contemporanei, sottosviluppata. E’ facile constatare come Veneti ed Illiri per oltre un millennio della loro storia, non avessero lo stesso livello tecnologico e culturale dei popoli vicino-orientali
La fabbricazione del ferro, la scrittura, la moneta, l’organizzazione politica di tipo statale furono tutte ignorate da Veneti ed Illiri per secoli e secoli dopo il loro arrivo nelle sedi stanziali definitive (ad esempio, la scrittura veneta compare solo nei secoli VI-V a.C, laddove le prime tracce della presenza dei Paleoveneti risalgono, come si è detto, al XX secolo a.C.). Tuttavia, le conoscenze culturali a ciò necessarie erano possedute nel Vicino Oriente già da prima dell’invasione veneto-illirica in terra italiana e dalmatica, ossia tali “conquiste” erano già state raggiunte. Appare difficile spiegare perché tali forme di sapere, gelosamente conservate per la loro importanza (basti pensare a ciò che significava la metallurgia del ferro dal punto di vista militare!), avrebbero potuto venir meno con l’ipotetica migrazione d’un popolo dall’Anatolia verso ovest.
Inoltre, non esistono in pratica reperti archeologici di derivazione vicino-orientale nelle regioni popolate da Veneti ed Illiri per tutto il II millennio a.C. Si rintracciano unicamente alcuni manufatti di derivazione micenea, quindi di un popolo residente in Grecia anziché in Anatolia, non-indoeuropeo e quindi improbabile come antenato dei Veneto-Illiri, ed oltretutto il primo responsabile della fine sia della città di Troia, sia dell’impero Hittita. Si tenga inoltre conto del fatto che i suddetti reperti si rintracciano in quantità alquanto scarsa e sono perciò frutto verosimile di commerci e scambi anziché d’una colonizzazione affatto indimostrata sia dai dati archeologici (nessuna colonia micenea è mai stata scoperta in Dalmazia ed Adriatico settentrionale), sia da quelli documentari.

D] Discrasia cronologica.
1) I dati cronologici dell’arrivo di Veneti ed Illiri nelle loro sedi non combaciano affatto con quelli della caduta di Troia, la distruzione dell’impero Hittita o l’arrivo dei Frigi (i futuri Paflagoni delle fonti greche, come Senofonte) in Anatolia. Le prime attestazioni della presenza di Veneti nell’Italia nord-orientale e di Illiri sull’Adriatico risalgono al XX secolo a.C., mentre la distruzione della “Troia omerica” (Troia VIIa nella stratigraficazione degli scavi archeologici) è databile nel XIII secolo, in pratica contemporanea al crollo dell’impero ittita e dell’espansione delle genti frigie verso l’Anatolia centrale. Si ha quindi uno iato temporale di ben sette secoli fra la documentata presenza veneto-illirica, anche in Venezia Giulia (Albona è forse il più antico dei siti illirici attestati), ed il momento della supposta partenza
2) Inoltre, sempre i dati archeologici, con la lenta espansione delle aree interessate dalla presenza degli invasori, confortano l’idea che gli antenati dei Veneti e degli Illiri non siano pervenuti con un solo, massiccio evento migratorio, bensì attraverso una successione d’arrivi, protrattisi per qualche generazione. Anche questo obsta all’idea d’una migrazione compiuta in un momento ben determinato da un intero popolo, chiaramente strutturato come tale.

E] Ricostruzione del dinamismo dei Veneto-Illiri su base archeologica.
1) I dati archeologici paiono attestare la provenienza dei Veneti e degli Illiri da nord-est, via terra, passando dall’area danubiana verso sud-ovest. I più antichi reperti Paleoveneti rintracciani si trovano nella valle dell’Adige, attorno al lago di Benaco, sui colli Euganei, ed in generale nelle zone alpine e pre-alpine del Veneto attuale, ciò che suggerisce una derivazione da nord, passando per l’attuale Austria (la città di Vindebona pare avere proprio un toponimo venetico, il che confermerebbe tale ipotesi), non certo via mare da sud, e nemmeno direttamente da Oriente. A partire da queste zone montuose e collinose si sviluppò la progressiva venetizzazione delle pianure dell’Italia nord-orientale.
Per quanto riguarda gli Illiri, la loro prima “città”, anche se all’epoca doveva essere in pratica un villaggio, è Albona, all’estremo confine dell’Istria. La successiva espansione illirica proseguì in direzione meridionale, finendo poi coll’arrivo, nel secolo XVI a.C., in Puglia, popolata dagli Iapigi o Messapi. Gli iapigi (o japigi) erano un'antica popolazione indoeuropea che si era stabilita tra il II e il I millennio a.C. nell'attuale regione italiana della Puglia. Provenivano molto probabilmente dall'Illiria e parlavano il messapico. I messapi erano la tribù più meridionale degli iapigi. Altre loro tribù erano i dauni e i peucezi. La prima città fondata dagli iapigi fu Oria (Uria, XVI secolo a.C.).
Le tracce archeologiche lasciate dai probabili ascendenti dei Veneti e degli Illiri prima del loro arrivo in Italia ed in Dalmazia sembrano confermare la suddetta teoria d’una loro provenienza da nord-est, quindi dall’area a settentrione del Danubio. Infatti, i sepolcri caratteristici di tali popoli (la sepoltura con incinerazione) lasciano come una scia che si diparte dall’odierna Ungheria, la cui pianura rimase per millenni un punto d’arrivo per le popolazioni nomadi giunte dalle steppe, come appunto anche gli Indo-europei, per dirigersi verso sud-ovest.
2) La suddetta ricostruzione trova ulteriore valore nel fatto che gli storici comunemente ammettono che l’arrivo degli altri popoli indoeuropei in Italia, anteriore a quella dei Veneti e dei Messapi-Iapigi, sia avvenuta secondo modalità e spostamenti sostanzialmente identici, con un percorso sud-ovest a partire dai Balcani e dalle pianure a nord del Danubio.
3) Inoltre, si può ancora aggiungere come la ricostruzione del dinamismo dei popoli in area anatolica non conservi indizio alcuno d’uno spostamento da est verso ovest. Gli Hittiti provengono dal Caucaso ed occupano quasi tutta l’Anatolia, senza però giungere al mare Egeo. I Frigi, la cui espansione è contemporanea al crollo dell’impero ittita, probabilmente causato anche da tale migrazione, sboccano dalla penisola balcanica, passando per l’Ellesponto, dirigendosi verso est e ricacciando indietro gli ittiti. Un’ipotetica migrazione via terra dall’Anatolia all’Italia non solo non ha prove, ma è affatto improbabile, poiché avrebbe cozzato frontalmente con flusso migratorio, ovvero con l’invasione, dei Frigi che si dirigevano in direzione opposta. Neppure una migrazione marittima risulta verosimile, non che attestata, in quanto la fine dell’impero ittita fu dovuta all’azione convergente dei Frigi e dei cosiddetti “popoli del mare” (Micenei, Filistei, Sherdana, una specie di filibusteria), che aggredirono gli Hittiti sulla sua costa meridionale. D’altronde, gli Hittiti non furono mai un “popolo di navigatori”.


Riassumendo i dati raccolti si deve dire che:
1) le fonti riguardanti l’origine vicino-orientale dei Veneti sono inattendibili
2) la civiltà e la lingua dei Veneti e degli Illiri sono piuttosto lontane da quelle del Vicino Oriente antico, mentre risultano assai simili a quelle dei popoli italici indo-europei
3) i dati archeologici consentono di ricostruire il percorso migratorio dei Veneti e degli Illiri, largamente corrispondente a quello seguito dagli Italici propriamente detti prima di loro. Non si hanno invece tracce di una migrazione dall’Anatolia verso l’Italia, anzi ciò appare persino inverosimile, sia per il marcato iato temporale fra le diverse migrazioni indo-europee in area italiana ed anatolica, sia per il contrasto tra tale ipotetico spostamento e quelli effettivamente accertati di popoli indoeuropei nell’area e nel periodo storico interessati.
Aggiungo ancora come l’analisi si sia svolta su piani diversi e con metodi differenti, che pure tutti hanno dato esiti simili ed anzi convergenti. La parentela linguistica fra Veneti ed Illiri trova spiegazione proprio nella loro origine etnica assai prossima


Questa brevissima dissertazione sull’origine dei Veneti e degli Illiri, se corretta, permette però di porre in evidenza come le popolazioni della Venezia-Giulia, a partire dal II millennio a.C, offrissero una facies culturale ed etnica analoga a quella delle restanti regioni italiane. Infatti, essa era segnata dalla mescolanza fra stirpi mediterrane ed indo-europee. Inoltre, i gruppi indo-europei parlavano una lingua legata da uno stretto grado di parentela (il Venetico è una lingua del Gruppo Romanzo-Italico, ma anche molto simile all’Illirico), attestazione della loro vicinanza etnica.
Per il momento ho concluso. Dopo aver discusso della questione delle “origini” dei popoli Veneto ed Illirico, in verità un poco marginale rispetto al problema del presente filone di discussione, ma comunque capace di fornire informazioni e stimoli utili, al mio prossimo intervento cercherò di meglio spiegare perché, dal mio punto di vista, si desse in Venezia Giulia, anzi nell’Italia pre-romana, una base culturale ed etnica fondamentalmente comune, per poi muovere da questo assunto al fine di parlare della romanizzazione della terra giulio-veneta e dei suoi abitanti.

venerdì 25 gennaio 2008

ERNESTO SESTAN E LA VENEZIA GIULIA. UNA RECENSIONE

A] L’importanza di Ernesto Sestan (Trento 1898- Firenze 1986) e della sua opera Venezia Giulia. Lineamenti di storia etnica e culturale, (p. e. Edizioni italiane, Roma 1947; a questa si farà qui riferimento nelle citazioni dei numeri di pagina. Esiste una ristampa a cura di Giulio Cervani, edita ad Udine, 1997, dalla casa editrice Del Bianco) nell’abbondante storiografia riguardante la regione suddetta è dovuta ad almento tre fattori.
Anzitutto, Sestan è stato uno storico di prim’ordine (su questo autore, cfr. G. Cherubini, Ernesto Sestan, "Archivio Storico Italiano", CXLIII, 1985, pp. 521-563), un medievista e modernista di spicco nell’intellettualità italiana ed europea, per molti anni docente dell'Università degli studi di Firenze, direttore della Deputazione di storia patria per la Toscana, segretario della Reale Accademia d’Italia, direttore della “Rivista storica italiana” di Roma, responsabile di corsi tenuti a Pisa alla Normale ecc. Gli studi sulla storia giulio-veneta sono piuttosto numerosi, ma assai spesso, per non dire solitamente, preparati da studiosi estranei all’ambito accademico: giornalisti, storici autodidatti ecc. Ciò non significa naturalmente escludere a priori il loro valore, ma semplicemente porre una pur approssimativa gerarchia fra l’autorevolezza che si può riconoscere ad uno storico della statura di Sestan ed altri, magari bravi e bene informati, però magari privi dell’esperienza e delle conoscenze per la produzione d’opere d’un dato livello. Un esempio di questo è Attilio Tamaro, il quale, pur storiografo non mediocre, (soprattutto con la Storia di Trieste, 2 voll. Alberto Stock editore, Roma 1924), presenta tuttavia dei limiti piuttosto evidenti, a cominciare da una certa partigianeria e da una difficoltà di sintesi e strutturazione dell’abbondante materiale raccolto.
Inoltre, lo scritto in questione di Sestan costituisce per molti aspetti un punto di riferimento obbligato per tante ricerche che si sono sostenute in seguito, insomma costituisce un piccolo “classico” nella letteratura scientifica sulla Venezia Giulia, come riconosce Anna Maria Vinci, docente di contemporaneistica all’università di Trieste. Guido Crainz, nel suo Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa (Donzelli 2005), parte nella sua indagine sulle “memoria divise” d’Italiani e Slavi della Venezia Giulia da un passo di Sestan (nella regione giulio-veneta "nazionalismi feroci ed esasperati in una lotta senza quartiere in cui gli uni finivano col pareggiare, anche moralmente, gli altri", per poi concludere che "I termini del conflitto trascendevano, nei loro motivi più profondi, il modesto ambito della vita regionale e si ispiravano alle correnti di idee e di passioni che fanno così feroce l'Europa contemporanea"), con cui in pratica questi suggella il suo scritto sulla storia giulio-veneta. In tal modo, Crainz può idealmente intraprende il proprio percorso là dove Sestan lo aveva interrotto, a partire dagli scontri ed i massacri culminati nell’esilio degli Italiani. Anche gli storici che pure si sono poi mostrati per certi aspetti critici verso alcune posizioni sestaniane, come Angelo Ara [da poco mancato, professore di storia moderna all’università di Pavia, amico e collaboratore di Claudio Magris, professore di letteratura tedesca all’università di Trieste, col quale ha condiviso un orientamento culturale rivolto all’analisi della “Mitteleuropa” e sostenitore del carattere specificamente plurale e “di frontiera” della Venezia Giulia e di Trieste, che può essere compreso solo ponendolo all’interno di quella sorta di agorà che è stata la Mitteleuropa] pure non hanno mancato di confrontarsi col suo pensiero (ad esempio, fra i molti scritti di Ara, cfr. A. Ara, Ernesto Sestan tra Veneti e Slavi, R.S. I., XCVIII, 1986, pp. 757-93). In altri termini, sia per chi si pone come suo erede e continuatore, sia per chi cerca strade diverse, il raffronto con lo studio di Sestan è opportuno.
Ancora, non si deve neppure trascurare la storia personale di tale storico. Questi era figlio d’un impiegato delle poste trentino, quindi un pubblico funzionario asburgico, trasferitosi poi in Istria. Nato in Trentino, Ernesto Sestan, nato in Trentino, crebbe nella terra istriana, ad Albona. La sua formazione culturale fu senza dubbio italiana, ma altresì con un’impronta mitteleuropea, tanto che egli parlava della sua preparazione intellettuale come “italo-austriaca”. Il titolo stesso della sua autobiografia è decisamente indicativo, prendendo il nome di Memorie di un uomo senza qualità [Memorie di un uomo senza qualità, Firenze 1997, di cui qui sono utili specialmente le pp. 142 sgg.], con chiaro riferimento al celebre romanzo di Musil, (fra l’altro) ritratto immortale dell’impero asburgico al suo tramonto. Sestan partecipò alla Grande Guerra, ma nell’esercito imperial-regio, anzi iniziò studi di storia (ancora giovanissimo, al momento provvisto soltanto del diploma liceale) proprio nel fatidico autunno del 1918, fine di un’epoca ed apertura di un’altra. Nonostante i sintomi disgregatori dell’Austria imperiale fossero ormai tangibili, pure egli ritornò alla sua unità nell’ottobre del 1918, dopo una breve licenza trascorsa a Trento, partecipando dalla parte dei vinti alla battaglia di Vittorio Veneto, che segnò la fine della dinastia asburgica e del suo plurisecolare impero. Eppure, Sestan si considerava italiano, tanto da esultare della vittoria dell’Italia e della prossima riunificazione di Trento e Trieste alla madrepatria. Questo però non gli impedirà di sostenere, anni più tardi, ormai maturo ed affermato storico, partecipando ad un convegno sulla figura del celebre irredentista Cesare Battisti, che il primo conflitto mondiale è stato sia l’ultima guerra del Risorgimento ovvero l’ultima guerra d’indipendenza, ma anche un’espressione del nazionalismo imperialista, estraneo agli autentici ideali risorgimentali [E. Sestan, Cesare Battisti tra socialismo e interventismo, in: Atti del Convegno di Studi su Cesare Battisti. Trento–Firenze 1979, p. 53]. Durante il secondo conflitto mondiale, Sestan fu un partigiano, ma cercò d’opporsi all’espansionismo slavo e marxista alle frontiere orientali d’Italia. La Premessa che egli pone all’opera qui analizzata, Venezia Giulia, ricorda come egli, originario d’Albona, ove riposano le salme dei suoi genitori, non intenda avanzare alcuna rivendicazione, ma soltanto ricordare una regione ormai perduta di cui egli era membro, cosicché dedica lo scritto «alle ceneri dei miei vecchi, là nel cimitero di Albona, queste brevi pagine di una storia che continua».. La vicenda umana di questo grande storico favorisce la sua comprensione della storia giulio-veneta, ma al tempo stesso lo preserva da spirito di parte e faziosità, anzi pare quasi compendiare nella sua personale biografia larga parte della vicenda degli Italiani giulio-veneti nel Novecento, dal dominio asburgico all’unione con l’Italia, all’esilio.


B] La struttura dell’opera di Sestan sulla Venezia Giulia è la seguente, coi riferimenti ai numeri di pagina sulla base dell’edizione originale:
Avvvertenza (pp. 7-8)
Premessa (pp. 9-11)
- La romanizzazione (pp. 11-17)
- Il trapasso dalla romanità alla italianità (pp. 17-30)
- L’infiltrazione germanica (pp. 30-37)
- L’espansione e la importazione slava (pp. 38-49)
- L’opera di Venezia (pp. 49-71)
- Ripresa germanizzante asburgica (pp. 72-82)
- L’ascesa degli Slavi (pp. 82-95)
- La difesa degli Italiani (pp.95-103)
- L’unione all’Italia e la politica del Fascismo verso gli Slavi (pp. 104-124)
Nota bibliografica (pp. 125-136)

Dopo la Premessa, in cui spiega le ragioni umane che lo hanno condotto alla stesura di quest’opera, con la già ricordata dedica ai suoi genitori sepolti ad Albona, segue l’Introduzione, nella quale egli precisa finalità e limiti della sua ricerca, rivolta essenzialmente alla storia politica e culturale della Venezia Giulia, secondo la prospettiva storiografica prediletta da Sestan, che pure non trascura, in questa ed in altre opere, dati economici e sociali.
Entrando poi nell’argomento, nel capitolo I egli spiega accuratamente come la regione in questione, parte della romana Venetia-Histria, fosse interamente romanizzata già ai tempi di Augusto, anzi la romanità si estendeva in epoca imperiale ben oltre il confine geografico del Monte Nevoso, con la latinizzazione dell’antistante Illiria. Ernesto Sestan quindi può concludere “che la romanità dell'Istria, per la profondità delle sue radici, per la durata nel tempo non è punto diversa ne di qualità deteriore rispetto alla romanità delle altre terre dell'Italia settentrionale,” interamente latinizzate (Ibidem, p. 17).
Il capitolo II descrive il passaggio, graduale e continuo, dalla “romanità” alla “italianità”, o, se si preferisce, dai “Romani” ai “romanici”. La conscientia sui nazionale dei giulio-veneti nel Tardo Antico s’innesta su quella d’epoca della Roma imperiale, e la prosegue. (Ibidem, pp. 28-29).
Il capitolo III, in cui parla delle presenze germaniche in Venezia Giulia, ne rileva implicitamente il ruolo minoritario sotto gli aspetti demografico e culturale, anche se assai rilevante sotto quello politico.
Il capitolo IV passa a parlare dell’arrivo degli Slavi, a partire dai loro primi, timidi ingressi in terra giulio-veneta alla fine del VI secolo d.C, principalmente con semplici incursioni militari, oltretutto respinte. Sestan annota la lentezza della colonizzazione slava ed il carattere non lineare del suo processo. Gli Slavi giunti in Friuli ed in Istria nel VI-VII secolo vengono poi in gran parte riassorbiti all’interno della popolazione latina, tanto che le fonti non segnalano la loro presenza dal IX al XI secolo in terra friulana, e dal IX al XII in quella istriana. Anche a voler rifiutare i semplici dati documentari e letterari, resta il fatto che la popolazione slava nell’area giulio-veneta in questi secoli dovesse essere decisamente ridotta. (Ibidem, pp. 40-41). In altre parole, è possibile argomentare a favore della massiccia prevalenza di latini in Venezia Giulia sino al Duecento, anzi al Trecento. Soltanto le grandi epidemie del 1348-1349, che spopolarono interi territori giulio-veneti, determinarono la comparsa di considerevoli popolazioni slave, anteriormente affatto minoratarie (Ibidem, pp. 38-49). Sestan inoltre rileva la netta subalternità politica, economica e sociale degli Slavi rispetto agli Italiani (Ibidem, p. 39 sgg.). La presenza degli Slavi in Istria si sarebbe poi assestata nei secoli successivi, con l’importazione del feudalesimo da parte della nobiltà tedesca: la componente slava avrebbe fatto da base produttiva per il nuovo modello politico e sociale. Il feudalesimo germanico trecentesco, posteriore alla sudditanza di Trieste a Vienna, sarebbe stato matrice e base materiale per l’innesto di numerosi mutamenti nella regione, tra cui il cambiamento della composizione etnica.
Il capitolo V, dedicato a Venezia, mostra come l’operato della Serenissima abbia comportato un paradosso. Da una parte, essa, come le autorità politiche asburgiche, favorì l’immigrazione slava, per via di ragioni legate alla produzione agricola ed al commercio. Tuttavia, l’espansione veneziana comportò anche una maggiore sottomissione dell’elemento slavo a quello italiano, sia politicamente, sia economicamente. Non si può parlare, secondo Sestan, di vero “colonialismo” veneziano nell’area giulio-veneta, pure la regione si trova ad orbitare a lungo attorno a quello che, dal secolo XIV sino agli inizi del XVI, è il principale centro commerciale europeo, e forse il secondo per importanza finanziaria. Inoltre, Venezia non manca di diffondere anche nell’Istria e nella Dalmazia la sua cultura, che è quella italiana.
Il breve capitolo VI si sofferma sulla germanizzazione dei possedimenti asburgici, che però rimane un fenomeno di scarsa rilevanza quantitativa, legato soprattutto alla presenza politica e militare degli austriaci nella regione, la quale però non modifica in modo sostanziale la società locale, né nella sua demografia, né nell’economia e nella cultura.
I capitoli VII, VIII, IX costituiscono di fatto un trittico, e meritano d’essere esaminati congiuntamente. Essi infatti trattano di come da una situazione etnica piuttosto ben definita (potere politico e militare tedesco, economico, sociale e culturale italiano, netta subalternità degli Slavi, definiti da Sestan quale un elemento, sino ai principi del ‘700, quasi interamente “passivo”; Ibidem, p. 82), si venga a produrre uno stato di latente ostilità reciproca, dovuta in parte alla politica asburgica, in parte alla nascita del patriottismo d’ispirazione democratica e romantica, ciò che oggigiorno è considerato il patriottismo.
Un primo, importantissimo cambiamento nella situazione degli Slavi nella regione si ebbe, come racconta Sestan nel suo Venezia-Giulia, a partire proprio dal XVIII secolo, con la legge che aboliva la schiavitù nei territori austriaci, approvata al principio del ’700, seguita poi nel 1848 dall’abolizione di tutti i diritti di corvée ed i rapporti di servitù (ancora in vigore in Venezia Giulia, come in altre terre mitteleuropee), sostituiti con normali rapporti economici regolati dal denaro. Queste misure diedero l’avvio ad un processo di indebolimento del latifondo e della proprietà pubblica, favorendo la diffusione della piccola proprietà. Da un censimento istriano del 1880, risulta che il 95% della popolazione producente beni agricoli era composta di piccoli proprietari. Si tratta di un dato estremamente significativo: le misure messe in atto dall’amministrazione austriaca ebbero l’effetto di mettere gli Slavi, da un punto di vista economico e sociale, sullo stesso piano dei contadini italiani. Essi cessarono di essere dei “servi della gleba”, legati ai vincoli feudali, e divennero soggetti attivi della vita economica della regione, destinatari di diritti economici cui avrebbero legittimamente voluto affiancare una serie di diritti politici. Nello stesso periodo, forti spinte culturali nazionalistiche avevano incominciato ad irradiare dalle capitali europee, rese più forti dalla spinta germanizzatrice impressa dall’Austria alla propria politica, formalmente, fin dalla fine del Settecento.Dalla metà dell’800 l’amministrazione austriaca si rese anche protagonista di una serie di grandi opere urbanistiche e infrastrutturali, per le quali accorsero in Istria abitanti da parte di altre regioni, molti dei quali di origine slava. I lavoratori erano concentrati in cantieri le cui dimensioni erano del tutto inedite per la regione. Secondo Sestan, per gli Slavi istriani sottoposti all’amministrazione austriaca, l’esperienza dei cantieri fu la prima vera esperienza di massa dai tempi della colonizzazione ed ebbe effetti sconvolgenti per gli equilibri della regione. Per fare un parallelo efficace, si potrebbe dire che l’esperienza storica dei cantieri austro-istriani ebbe, per gli Slavi della regione, conseguenze culturali e politiche paragonabili a quelle determinate dall’esperienza della fabbrica per la classe operaia inglese ed europea nell’800. Essa rappresentò l’occasione per il confronto, per il risveglio delle coscienze e per la diffusione di idee di riscossa e indipendenza nazionali. Essa rese più veloce la diffusione del nazionalismo slavo, che andava costituendosi, non senza conflitti, attorno al nucleo forte dell’identità serbo-croata. Nonostante i fenomeni di aggregazione di massa e la crescita della coscienza nazionale, i diritti politici e le rivendicazioni linguistiche e culturali segnavano il passo: nella Dieta istriana del 1861 vennero eletti solo tre Slavi nella Dieta Provinciale Istriana tutti e tre sacerdoti. Gli Slavi avevano diritto di voto come tutti gli altri, ed erano ormai maggioranza in molte parti del territorio. Ma il diritto di voto era sancito secondo un discrimine censitario e l’insuccesso elettorale dei candidati slavi testimonia in modo molto chiaro della loro povertà. Il fatto che i pochi eletti fossero ecclesiastici, secondo Sestan è indice del difficile ruolo sociale degli Slavi e del fatto che la carriera ecclesiastica rappresentasse uno dei rari mezzi di promozione sociale della parte di popolazione più povera della regione. In tutte le diete provinciali gli Slavi avanzarono richieste per l’utilizzo della lingua slava nei documenti ufficiali, che furono respinte. Il governo viennese agì con sottigliezza, assieme decapitando e reprimendo i movimenti nazionalistici italiano e slavo, dall’altra aizzando le reciproche ostilità, specialmente col favorire gli Sloveni ed i Croati a danno degli Italiani, ben più pericolosi per il diverso livello economico e culturale. Secondo la ricostruzione di Sestan, la vittoria italiana nel primo conflitto mondiale determinò la quasi istantanea (e volontaria) scomparsa di Magiari e Tedeschi dai territori che fino a poco tempo prima erano stati competenza austriaca, spiegabile col fatto che si trattava principalmente di funzionari e militari dell’imperial-regio governo. Il dominio italiano divenne effettivo anche in zone interne dell’Istria e del Friuli, nei confronti di popolazioni che, da generazioni, erano ignare di risiedere su terre che fossero oggetto di diverse rivendicazioni politiche e territoriali. Scriveva Ernesto Sestan: “Per tutta questa popolazione slava, certamente, in quei primi giorni di novembre 1918, nei quali le truppe italiane vittoriose presero possesso del paese…le ragioni di sorpresa, di turbamento, di confusione, ma anche di fiduciosa attesa erano molte. I più sorpresi dovettero essere quegli sloveni dei distretti della Carniola, di Idria, di Bisterza che da secoli vivevano la loro vita politica, se mai, in contrasto con i tedeschi; che, probabilmente, mai prima di allora avevano saputo di essere oggetto di rivendicazione da parte degli italiani e che tuttavia si vedevano improvvisamente incorporati nelle aspirazioni italiane, amministrati da autorità italiane”. Il Trattato di Rapallo del 12 dicembre del 1920 chiude un regime di armistizio, come osserva il Sestan, durato nella Venezia Giulia “un tempo indicibilmente lungo…cioè per oltre due anni”, e lo chiude includendo nel Regno d’Italia qualcosa come quattrocentomila slavi. Il fascismo in Istria ed in Friuli ebbe caratteristiche particolarmente dure:in primo luogo per ragioni “tradizionali” legate alle zone di confine, che divennero zone di attrito all’inizio del ’900, nel momento in cui la polemica nazionalistica prese a farsi più accesa. Nasce nella Venezia Giulia il cosiddetto “fascismo di frontiera”, al quale Mussolini riconosce, a torto od a ragione, il merito della progenitura di tutto il movimento fascista nazionale, tanto che nell’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio può trarre ispirazione per alcuni dei suoi temi cardinali: il nazionalismo e l’imperialismo, l’arditismo, l’idea della vittoria mutilata, ecc. Era normale che un movimento come quello fascista, fortemente nazionalista, avesse in queste regioni un carattere più aggressivo;inoltre, dopo la smobilitazione, molti reduci del primo conflitto rimasero nelle zone che li avevano visti impegnati nei combattimenti di frontiera. Particolarmente aggressivi, alcuni di loro furono tra i fondatori del fascismo italiano. A partire dagli anni ’20 questi gruppi di ex combattenti si resero protagonisti di numerosi scontri con i socialisti, accusati di essere traditori della causa italiana in quanto internazionalisti, e con gli Slavi che si erano organizzati per portare avanti rivendicazioni politiche ed autonomistiche. Il conflitto raramente si mantenne nei limiti della legalità ed i contrasti furono molto duri. Alle elezioni del 1921 non venne eletto nessun parlamentare slavo, ma i voti degli slavi è probabile che convergessero sui candidati comunisti e internazionalisti, che ottennero un buon successo.Pochi mesi dopo si tenne un censimento che, per l’Istria, attestava una maggioranza schiacciante di italiani. Sulla validità di questo censimento si discute fra storici, ma non è il caso qui di meglio precisare. È certametne possibile che il risultato fosse il frutto di una serie di brogli e della complicazione dei quesiti, tutti in lingua italiana, rivolti a “gonfiare” la presenza italiana nella regione. Tale censimento rappresentò la «fragilissima base giuridica» sulla quale si procedette alla «italianizzazione degli Slavi», a partire dal 1925, destinata ad acuire i contrasti fra le due comunità.



C] L’opera Venezia Giulia dello storico istriano non è affatto una sorta di “masso erratico” nella produzione storiografica sestaniana, ma al contrario si presente Fra le principali opere del Sestan è di notevole interesse, per ciò che qui interessa, Stato e nazione nell’Alto Medioevo. Ricerche sulle origini nazionali in Francia, Italia, Germania, (Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1952), in cui egli si sofferma proprio sulle “radici” storiche altomedievali della formazione dell’identità nazionale francese, tedesca ed italiana. Grazie alla preparazione di Sestan, il “caso” giulio-veneto può quindi essere inquadrato, pur nella sua specificità, all’interno d’una prospettiva ben più ampia, italiana ed europea, evitando le storture derivanti da una visione meramente localistica, inevitabilmente limitante ed anche deformante.
Bisogna sottolineare il profondo legame di Sestan con la storiografia e la cultura tedesca, nonché, in particolare, con quella austriaca, che tanto contribuì alla sua formazione di studioso. Lo storico trentino è stato sempre sensibile al problema della nazionalità ed assieme profondamente ostile ad ogni sua affermazione nazionalistica, tanto da potersi dichiarare, profondo conoscitore della civiltà germanica, quale un intellettuale di matrice italo-austriaca, sperimentando il dissidio interiore ma anche i vantaggi d’appartenere a due culture così diverse.
Gli stessi studi sul Risorgimento di Sestan si pongono nella prospettiva suddetta, col paragone fra Risorgimento italiano e unità tedesca (1942) al volume sulla costituente di Francoforte del 1848, e poi ancora proprio l’opera qui considerata sulla Venezia Giulia. La nazione per Sestan nasceva da un processo spontaneo e preesisteva allo Stato. Quest’ultimo poteva farsi interprete dell’identità nazionale, ma poteva anche affermarsi in opposizione ad essa, procedendo senza tener conto delle differenze fra i popoli per cementare l’artificiosità di alcuni organismi politici. Nella storia recente dell’Italia e dell’Europa, dopo i conflitti mondiali, il recupero delle valenze positive insite nell’idea di nazione era una necessità irrinunciabile per Sestan, che si considerava erede della tradizione risorgimentale del patriottismo democratico.
Si può quindi concludere sulla piena collocazione dello studio sestaniano sul “confine orientale” d’Italia all’interno della sua complessiva produzione storiografica, senza forzature ma anzi in piena integrazione.
Lo studio Venezia Giulia di questo grande storico si segnala non solo per la linearità e semplicità della narrazione, che maschera il profondo lavoro di ricerca e rielaborazione svolto, capace di sintetizzare in breve e in un’opera ben strutturata questioni delicate e complesse, ma anche per il suo equilibrio ed imparzialità.
Pur nel riconoscimento dell’importanza degli Slavi ed anche dei Tedeschi nella storia giulio-veneta, lo scritto sestaniano si può considerare a pieno titolo quale un’attestazione della fondamentale, sebbene non esclusiva, italianità della Venezia Giulia. In particolare, Sestan ha posto in rilievo come, da Roma antica sino al Trecento, la regione sia stata a schiacciante maggioranza latina, mentre, praticamente per l’intera sua storia, abbia visto la preminenza economica, sociale e culturale degli Italiani.E’ indubbio che, come ogni cosa a questo mondo, l’opera sestaniana abbia dei limiti, primo fra tutti la sua età. Però rimane un punto di partenza e di confronto per ogni discussioni sulla storia “etnica” o “nazionale” giulio-veneta, tanto da costituire sull’argomento un autentico classico.

giovedì 10 gennaio 2008

PER GLI EROI DELLA NOSTRA STORIA



lunedì 7 gennaio 2008

DI PIERLUIGI de PICCOLI FIGALLO

All'ignoranza non vi è mai fine.
E' stato aperto un dibattito sulla questione nazi in America con un intento ben preciso che non è stato recepito.
Mi rifiuto di rispondere direttamente a quel post in quanto i commenti idioti di un forumista (???) mi hanno fatto rivoltare lo stomaco ed il solo pensare di rispondere a tanta crassa ignoranza squalifica la mia intelligenza.

Tanto per cominciare è doveroso fare dei distinguo.

Nazzismo, comunismo e fascismo non sono affatto la stessa cosa ed il mischiarli è segno di profonda ignoranza storica.

Brevemente riassumo.

Il fenomeno fascismo è strettamente legato ad un uomo, ad una Nazione ed ad un persorso storico irripetibile.
Il fascismo andò al potere LEGALMENTE chiamato da un Re e senza sparare un colpo di fucile.
Il fascismo è morto con la morte del suo creatore e non potrà mai risorgere.

Il nazzismo nasce in una Nazione totalmente diversa dall'Italia, da una guerra persa, da un impero distrutto, da una situazione economica disastratrosa.
Hitler era voluto dal 90% dei tedeschi ed arrivò al potere camminando sui cadaveri dei suoi stessi camerati.
Il nazzismo propagandava la superiorità della razza, il dominio sull'Europa, la guerra come soluzione di tutti i problemi economici.
L'olocausto è la logica conseguenza della superiorità della razza ma non fu il solo nazzismo a praticarla e di questo si tende sempre a non parlarne.
Il nazzismo può ritornare, indipendentemente da Hitler, in quanto basa la sua filosofia sulla xenofobia che ora ritorna in tutto il mondo più forte di prima e non certo per opera dei tedeschi.

Il comunismo nasce da pochi ed è imposto ai molti.
La rivoluzione d'ottobre è propaganda in quanto non fu neppure il 5% dei russi a volerla.
Il comunismo fu una favola di sangue raccontata come una rivoluzione globale ma in realtà imposta da pochi su molti con il sangue.
Non vi è nella storia di questa Europa un solo caso di sopprafazzione fisica e intelletuale paragonabile a quanto fatto dall'ideologia comunista.
La grande diffusione del germe comunista è dovuto in modo principale alla semplicità dell'idea : il potere al popolo.
Certo bellissima idea se non fosse pura utopia, utopia in cui ci hanno marciato dittatori sanguinari come stalin, tito, pol pot, castro ed ora chavez.
Tutti dittatori, stalin in particolare, che hanno fatto grande il comunismo com milioni di morti assassinati.
L'olocausto voluto da Hitler ha provocato sei miloni di morti, la politica di stalin venti milioni.
Hitler uccise ebrei polacchi, tedeschi, francesi, olandesi, italiani ecc.
Stalin uccise solamente i suoi ma il conto è superiore e non se ne parla mai.

Le vittime del nazzismo sono in Europa, quelle del comunismo in tutto il mondo e sono milioni e milioni.
Non voglio certo cercare giustificazioni ne al nazzismo ne tantomenno alle dittature in genere ma desidero chiarire agli imbecilli che ancora oggi parlano di "sol dell'avvenir", a coloro che credono che nella falce e martello vi sia la soluzione di tutti i mali che l'ideologia più aberrante, assassina e deletria per il genere umano si chiama COMUNISMO
e purtroppo è ancora viva nelle povere menti dei falliti, nei delinquenziali progetti di capitalisti senza scrupoli e nelle menti bacate di intelletuali da cloaca.

Sarà impossibile stabilire le giuste proporzioni se si continuerà a dare corda a imbecilli propagandisti cerebrolesi che godono solamente professando l'odio ideologico e razziale che dicono di combattere.
Pierluigi

domenica 6 gennaio 2008

"MUSSOLINI BENITO DA PREDAPPIO"

La verità sulla morte dei miei parenti l’appresi solamente quando avevo quattordici anni, nelle vecchie famiglie della mia città si usava così. Quell’età segnava la tua entrata nelle questioni di famiglia, entravi nella stagione adulta ed eri messo a parte delle cose di casa.

Ricordo benissimo che mio nonno, a cui davo del voi, mi disse “tuo fratello non è morto di malattia, è stato fucilato”. Mio fratello era morto all’età di quattro anni, nel 1944.

Da quel giorno ho cominciato ad interessarmi di storia contemporanea, prima ero innamorato dell’Egitto, della sua cultura millenaria, delle sue piramidi, del grande fascino che emanava la sua religione. Entrare in accadimenti cosi vicini a noi mi spaventava ma volevo sapere perché un bambino di quattro anni era stato fucilato come un adulto, quale odio aveva spinto un altro essere umano a stroncare una vita al suo germogliare.

Libri, giornali, tutte le pubblicazioni che sono riuscito a leggere nella biblioteca della mia città mi sono serviti per conoscere il secolo passato. No, non voglio peccare di “onniscienza” non conosco tutto, non ho letto tutto. Ho letto molto su tutte le idee e tutti movimenti che si sono formati negli ultimi cento anni, ciò che è accaduto nel 900 è la somma di almeno 400 anni della storia del mondo. Rivoluzioni, guerre mondiali, stermini d’intere etnie, dittature assolute, negazione delle libertà più elementari, ma anche eroismi, altruismo, genialità, buona fede; non tutto è negativo e non tutto è positivo nel XX secolo.

In tutto questo mio cercare e ricercare ho letto di colossi dai piedi d’argilla, di fulgidi eroi che si sono immolati per un’idea, di vigliacchi che hanno tradito il loro paese e la loro gente, di stermini ingiustificati davanti ai quali la strage degli innocenti pare una favoletta per bambini ma quasi tutti questi accadimenti hanno prima o poi avuto una rilettura, a volte per accentuare gli errori commessi, a volte per ridimensionarli.

Tutta la nostra storia passata è stata rivista con le nuove tecniche e le nuove conoscenze e molti falsi miti del passato sono stati ridimensionati.

Uno degli errori principali che noi commettiamo quando si parla di storia è il leggerla con gli occhi di oggi. Esempi ne potrei portare a migliaia, dallo schiavismo all’inquisizione, dalla conquista delle Americhe all’impero inglese. Questi fatti visti con gli occhi di oggi paiono barbare imposizioni della legge del più forte, dimentichiamo che i nostri progenitori vivevano in società completamente diverse dalla nostra attuale e ciò che a noi appare come vile sopraffazione allora era pratica quotidiana.

Ho voluto fare questa premessa per parlare di un personaggio della nostra storia recente, anzi recentissima, solamente di pochi decenni fa: Mussolini Benito da Predappio.

La mia non vuole essere e non sarà un’analisi politica, storica o sociale. Non voglio disquisire se ha fatto bene o ha fatto male, se aveva ragione o torto, voglio cercare di capire perché un personaggio tanto vicino a noi sia tramandato con un’aura di malvagità e circondato di menzogne e misteri.

Oggi molti di quelli che lo hanno conosciuto sono ancora vivi e vegeti, alcuni suoi diretti collaboratori siedono addirittura nel nostro Parlamento, malgrado ciò di Lui vi è un’immagine distorta. Dittatore, assassino, antisemita, guerrafondaio; queste solamente alcune delle accuse rivoltegli. Dall’altra parte lodi sperticate e osanna per un Duce illuminato e lungimirante. La via di mezzo non esiste, o santo o diavolo. Salvatore della Patria o bieco tiranno, nessuno che lo veda o lo giudichi come figlio del suo tempo, come capo di uno Stato, come uomo.

Nel nostro grande Paese la via di mezzo non esiste. Abbiamo fatto l’unità d’Italia con la frode e la menzogna ma nelle scuole, sino a pochi anni fa, ci raccontavano di sollevazioni popolari.

Abbiamo vinto una prima guerra mondiale ma siamo stati trattati da sconfitti,


abbiamo perso una seconda guerra mondiale ma ci vogliono far credere che l’abbiamo vinta. Cinquant’anni e più di governo hanno volutamente nascosto, sotto il segreto di

Stato, verità che erano sotto gli occhi di tutti; ora queste verità vengono ufficialmente alla luce ma le cose non cambiano, alcuni gruppi continuano a negare l’evidenza.

Abbiamo avuto ministri della giustizia che hanno proposto e fatto approvare leggi per proteggere ladri ed assassini con la scusante della pace nazionale. Bande armate hanno combattuto, e combattono, contro l’ordine costituito, uccidono i servitori dello Stato, commettono omicidi di massa contro inermi civili e la politica di palazzo continua a trovare scusanti e scappatoie con il complice silenzio di un opinione pubblica sottomessa e volutamente ignorante.

La nostra storia recente ha bisogno di verità, ha bisogno non di essere riscritta ma scritta, ciò che sino ad oggi non è mai stato fatto. Dire come stavano veramente le cose durante la guerra civile non è faziosità è verità. Aprire i cassetti su Ustica, sulla strage di Bologna, sull’assassinio di Moro non è riscrivere e scrivere.

Mussolini Benito è l’esempio della menzogna divenuta verità. La sua morte non è mai stata chiara, ne il perché ne il come. I documenti di una Repubblica sono spariti, il tesoro di una Repubblica è sparito. L’orribile macelleria di piazzale Loreto non può essere ricordata perché considerata apologia. I morti civili dell’attentato di via Rasella non hanno neppure una lapide. Le centinaia di civili gettati nelle foibe sono ancora in attesa di una degna sepoltura e di un nome su di una lapide.

Ora chi mi ha letto sino a qui dirà “ecco un altro fascista che parla solo della sua parte”. Falso ed in malafede, parlo dei dimenticati, degli sconfitti, dei morti di serie B, di tutti coloro di cui non si deve parlare perché ricordano cose che è meglio dimenticare.

I morti sono tutti uguali, cosi dovrebbe essere, cosi si costruisce una democrazia, non con l’odio di parte e le discriminazioni.

Mussolini Benito non fu il più grande statista del XX secolo” cosi dicono coloro che su questo uomo hanno fatto la loro fortuna politica, è vero. Mussolini Benito non fu il più grande statista del secolo passato, fu uno statista, un dittatore salito al potere senza sparare un colpo, senza rivoluzioni proletarie. Fu lo statista delle leggi razziali, del confino, dei tribunali speciali. Fu uno statista senza conti correnti in compiacenti banche Svizzere Fu lo statista appeso per i piedi in una piazza di Milano, sputato dalla folla aizzata dai sapienti “vincitori”.

Sicuramente Mussolini Benito fu tutto questo, non certo il più grande statista del XX secolo ma quanti possono dire lo stesso dei loro dittatori?

Pierluigi de Piccoli Figallo.

Mediolanum XXVII IX MMIII