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mercoledì 6 maggio 2009

Come l'Europa è diventata complice del Califfato in arrivo (click)


Alla Fiera del Libro di Torino (14-18 maggio 2009) l'editore Lindau presenta il nuovo libro di bat Ye'Or, " Verso il califfato universale ", come l'Europa è diventata complice dell'espansionismo musulmano ( venerdì 15 maggio, ore 19, spazio Autori B). Sarà presente la stessa autrice, presentata da Ugo Volli. Quale introduzione al libro, Bat Ye'Or ci ha inviato questo articolo, che pubblichiamo con grande piacere.

La maggior parte degli europei non ha ancora compreso che le loro strutture nazionali e sovrane si sono già disintegrate nel multilateralismo e il multicolturalismo. Essi credono ancora di poter agire sul proprio destino nazionale restando nella sfera democratica che si sono creati. In realtà, il potere decisionale a livello nazionale relativo alla politica interna ed estera è sfuggito loro di mano. Oggi le popolazioni dell’UE sono gestite da organizzazioni internazionali, come le Nazione Unite, la Fondazione Anna Lindh, l’Alleanza delle Civiltà, l’Organizazione della Conferenza Islamica (OCI) e la sua filiale l’ISESCO, interconnesse in reti che diffondono la governance mondiale in cui predomina l’influenza dell’OCI sull’ONU. Il trasferimento del potere fuori dai confini nazionali dei singoli stati membri dell’Unione Europea verso le organizzazioni internazionali avviene attraverso strumenti detti «dialogo» e «multilateralismo» legati a reti designate dagli stati: Dialogo Euro-Arabo, Medea, Processo di Barcellona, Unione per il Mediterraneo, Fondazione Anna Lindh, Alleanza delle Civiltà, Parlamento Euro-Mediterraneo (PEM) ecc. Queste reti trasmettono direttive a delle sottoreti, a miriadi di ONG e ai rappresentanti delle «società civili» che scelgono essi stessi, attivisti dell’immigrazione e del multiculturalismo. La rete delle istituzioni politiche, i cosiddetti «think tank», spesso finanziata dalla Commissione europea, trasforma tali direttive in opinione pubblica mescolandole sulla stampa, nelle pubblicazioni, nei film, veri e propri inghiottitoi di miliardi. Le popolazioni europee sono chiuse in un gioco di specchi che si rinviano, a tutti i livelli sino all’infinito, le opinioni prefabbricate in base ad agende politiche e culturali che esse ignorano e spesso disapprovano. Questa trasformazione «di un’Europa delle Nazioni» in un’Europa unificata e integrata alle organizzazioni internazionali, come l’ONU, l’UNESCO, l’OCI, ecc., risponde alla strategia dell’UE in particolare nella sua dimensione mediterranea. Una tale ottica motiva le politiche sia dell’UE che dell’OCI, che si oppongono entrambe – per interessi diversi – ai nazionalismi culturali e identitari locali in Europa. Questo movimento promuove il multiculturalismo e l’internazionalismo di una popolazione europea destinata a trasformarsi e a sparire in virtù dell’unione delle due rive del Mediterraneo e di una immigrazione dell’Africa e dell’Asia incoraggiata dalla Dichiarazione Durban 2. Questa Dichiarazione è in conformità alla politica dell’OCI in riguardo all’emigrazione. A tale scopo, la nozione stessa e la coscienza di una civiltà europea peculiare e specifica, nel corso di millenni, si dissolve mentre si continuano a combattere con accanimento le identità culturali europee assimilate al razzismo. L’OCI segue un percorso simile all’Unione europea, organizzandosi come forza transnazionale, ma, contrariamente all’UE, si afferma grazie al radicamento della ummāh nella sfera della religione, della storia e della cultura coranica. Cosa è l’OCI? Questa è un’organizzazione centrale creata nel 1969 per distruggere Israele. Essa riunice 56 stati membri (musulmani o a maggioranza musulmana) e l’Autorita Palestinese. Questi stati sono in Asia, Africa et Europa con l’Albania, la Bosnia Herzegovina e il Kossovo. L’OCI è la seconda organizzazione intergovernativa dopo le Nazioni Unite e rappresenta un miliardo trecento milioni di musulmani. Al l’11° Vertice islamico svoltosi a Dakar il 13 e 14 marzo 2008, l’OCI ha adottato una Carta che ne sancisce i principi e gli obiettivi, il primo dei quali consiste nell’unificazione della ummāh (la comunità islamica mondiale) attraverso il suo radicamento nel Corano e nella Sunna, e la difesa solidale delle cause e degli interessi musulmani sulla pianeta. Questa politica spiega la recrudescenza di religiosità musulmana in generale, inclusa l’Europa, e di odio contro Israele e l’Occidente. I suoi organi principali sono: 1) il Vertice islamico, che rappresenta l’istanza suprema di decisione ed è composto dai re e dai capi di stato; 2) il Consiglio dei ministri degli esteri; 3) il Segretariato generale, che costituisce l’organo esecutivo dell’OCI e 4) la Corte islamica internazionale di Giustizia, che diventerà l’organo giuridico principale dell’organizzazione (articolo 14) e giudicherà in conformità con i valori islamici. (art. 15). L’OCI è dotata di una struttura unica fra le Nazioni e le società umane. In effetti, il Vaticano e le varie Chiese non hanno un potere politico, anche se in concreto fanno politica, poiché nel cristianesimo come nel giudaismo funzioni religiose e politiche devono restare rigorosamente separate. Lo stesso vale anche per le religioni asiatiche, i cui sistemi non riuniscono in un’unica struttura organizzativa religione, strategia, politica e sistema giuridico. Non solo l’OCI gode di un potere illimitato grazie all’unione e alla coesione di tutti i poteri, ma a questi aggiunge anche l’infallibilità conferita dalla religione. Riunendo sotto un solo capo 56 paesi, alcuni fra i più ricchi del pianeta, l’organizzazione controlla la maggior parte delle risorse energetiche mondiali. L’OCI è un’organizzazione religiosa e politica che appartiene alla sfera di influenza dei Fratelli Musulmani con cui condivide in tutti i casi la visione strategica e culturale di una comunità religiosa universale, la ummāh, ancorata al Corano, alla Sunna e all’ortodossia canonica della shari’a. Che la religione sia un fattore prioritario per l’OCI si evidenzia dal suo linguaggio e dai suoi obiettivi. Così la conferenza di Dakar (marzo 2008) prende il titolo di Conferenza del Vertice islamico, Sessione della ummāh islamica del XXI secolo. Nel preambolo della Carta dell’OCI, gli stati membri confermano la loro unione e la loro solidarietà ispirate dai valori islamici al fine di rafforzare nell’arena internazionale i loro interessi comuni e la promozione dei valori islamici. Essi s’impegnano a rivitalizzare il ruolo di pioniere dell’islām nel mondo, a sviluppare la prosperità negli stati membri e, al contrario degli stati europei, ad assicurare la difesa della loro sovranità nazionale e della loro integrità territoriale. Dichiarono che la vera solidarietà implica necessariamente il consolidamento delle istituzioni e la profonda convinzione di un destino comune in base a valori comuni definiti nel Corano e nella Sunna (§ 4) che stabiliscono i parametri della buona governance islamica. Essi raccomandano che i mezzi di informazione contribuissero a promuovere e sostenere le cause della ummāh e i valori dell’islām mentre l’OCI si impegna in forme di solidarietà con le minoranze musulmane e le comunità di immigrati nei paesi non musulmani e collabora con le organizzazioni internazionali e regionali per garantire i loro diritti nei paesi stranieri. L’OCI si impegna inoltre a stimolare i nobili valori dell’islām, a preservarne i simboli e la loro eredità comune e a difendere l’universalità della religione islamica, in termini più chiari, la diffusione universale dell’islām (da‘wah). Si impegna a inculcare i valori islamici nei bambini musulmani e a sostenere le minoranze e le comunità di immigrati musulmani all’esterno degli stati membri al fine di preservarne la loro dignità, identità culturale e religiosa e i loro diritti. Affermano il loro sostegno alla Palestina con capitale Al-Quds Al-Sharif, il nome arabizzato di Gerusalemme. L’OCI sostiene tutti i movimenti musulmani di lotta come quello del popolo turco di Cipro, in Sudan, in Cina, dei Palestinesi, condamna l’occupazione dell’Armenia in Azerbaigian, del Jammu e Kashmir, l’oppressione dei musulmani in Grecia, in Myanmar, in Caucasia, in Thailandia, in India e nelle Filippine. Sulla scena della politica internazionale, l’OCI ha creato vari comitati per coordinare le iniziative e la politica in campo politico, economico, sociale, religioso, mediatico, educativo e scientifico sul piano interstatale degli paesi musulmani e internazionale. Gli obiettivi strategici della Carta sono tesi a: «Assicurare una partecipazione attiva degli stati membri [dell’OCI]al processo mondiale di presa di decisione nei campi della politica, dell’economia e del sociale, al fine di garantire i loro interessi comuni» (I-5); e a «promuovere e difendere posizioni unificate sulle questioni di interesse comune nei forum internazionali». Fra i suoi obiettivi, la Carta dell’OCI elenca la diffusione, la promozione e la preservazione degli insegnamenti e dei valori islamici, la diffusione della cultura islamica e la salvaguardia del patrimonio islamico (I-11); la lotta alla diffamazione dell’islām, la preservazione dei diritti, della dignità e dell’identità religiosa e culturale delle comunità e delle minoranze musulmane negli stati non membri (I-16). Questo punto indica la tutela sugli immigrati musulmani all’estero e le pressioni esercitate dall’OCI, attraverso il canale dei dialoghi e dell’Alleanza delle Civiltà, sui governi dei paesi di accoglienza non musulmani. Essendo un’organizazione musulmana religiosa, come lo dice pure essa stessa, l’OCI dichiara essere l’organo rappresentativo del mondo musulmano. Rivendica la sua solidarietà con tutte le minoranze musulmane che abitano negli stati non membri dell’OCI (vale a dire i paesi non musulmani). Per queste minoranze, l’OCI domanda il godimento degli diritti dell’uomo elementari, fra cui la protezione dell’identità culturale, il rispetto delle loro leggi in modo da proteggersi contro qualsiasi forma di discriminazione, oppressione ed esclusione, il salvataggio del patrimonio culturale dei musulmani negli stati non musulmani. L’OCI considera suo compito proteggere il diritto alla cultura, alla religione e all’identità culturale degli immigrati musulmani e di promuoverli nelle sfere del potere, di autorita e di influenza. Onde assicurare la protezione delle minoranze musulmane immigrate e stabilite in Occidente, e preservarne l’identità, l’OCI ha deciso di internazionalizzare la lotta all’islamofobia attraverso la cooperazione fra l’OCI e le altre organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, l’Unione Europea, il Consiglio d’Europa, l’OSCE, l’Unione africana e così via. Anche in questo caso la politica dell’Unione Europea intesa a sostenere «la legalità internazionale» dell’ONU rinforza in realtà il controllo mondiale dell’OCI che predomina in tutte le istituzioni internazionali. Ma la priorità politica dell’OCI è naturalmente la distruzione di Israele e l’islamizazione di Gerusalemme. L’OCI prevede di trasferire la sua sede da Gedda (Arabia Saudita) a al-Kuds, la Gerusalemme islamizzata. Come l’OCI ha i caratteri di uno califfato universale, la Gerusalema ebraica e cristiana diventata al Kuds e sarà la sede dove la sharia governerà, come a La Mecca, Gaza e i luoghi tenuti dai Talebani. Questa strategia si sviluppa in associazione con molte chiese e l’Europa. L’OCI vuole che l’eliminazione di Israele sia fatto come un atto di profondo odio dall’insieme del pianeta, ma specialmente dagli Occidentali. In altre parole vuole che siano i Cristiani che destruggano la radice della loro spiritualità. Questo sarebbe un altro parricidio dopo la Shoah. La propaganda globale di odio contro Israele che si manifesta nei canali occidentali con l’argomento della vittimologia e l’innocenza palestinese provienne dell’OCI. L’Europa palestinizzata, e volontariamente colpevolizzata, continua a dare sostegno, finanziario, diplomatico, politico e mediatico alla Palestina e a promuovere l’emergenza del Califfato universale a al-Kuds sulle rovine dell’antica Gerusalemme.

domenica 7 dicembre 2008

DOBBIAMO ESSERE FIERI DEI NOSTRI SOLDATI (click).

Un ponte italiano nel cuore di un'area talebana
Pubblicato da Lorenzo Bianchi Sab, 06/12/2008 - 18:34

Dal 5 al 7 agosto, per tre interminabili giorni i talebani tentarono inutilmente di spazzare via i novanta fucilieri della Brigata aeromobile Friuli asserragliati nella “base remota” di Bala Murghab, 250 chilometri a nord di Herat.

Il caporalmaggiore Pasquale Campopiano, 27 anni, di Caserta, descrive la battaglia con poche, scarne, parole: “Ci tiravano razzi rpg da tutte le parti. Non dimenticherò mai le fiammate delle esplosioni all’interno del fortino, dal quale la mia compagnia, la terza del 66° reggimento “Trieste”, rispondeva al fuoco”. Fu la brigata aeromobile Friuli a creare nell’ex cotonificio, il 4 agosto, la “Fob”, acronimo inglese per base avanzata. Fino a quel momento Bala Murghab era saldamente in mano integralista. Nella stessa località il primo dicembre il generale Paolo Serra, comandante della brigata alpina “Julia” e il ministro afgano per le opere pubbliche Alì Safari hanno inaugurato un ponte lungo 45 metri sul fiume Murghab. Solo tre giorni prima, il 28 novembre, trecento miliziani avevano attaccato un convoglio del 207° corpo d’armata dell’Ana, l’esercito nazionale afgano. Per risolvere la situazione erano intervenuti alcuni F 16 (a Kandahar sono schierati velivoli, statunitensi e olandesi), che avevano distrutto i mezzi finiti nelle mani degli “insorgenti”. I morti delle forze armate di Kabul erano stati tredici. I soldati afgani feriti furono soccorsi dagli italiani e ricoverati all’ospedale militare di Herat.Tre giorni dopo il taglio del nastro. Safari ha ringraziato: “Il manufatto porterà grandi benefici alla popolazione”. Il ponte è un pezzo importante della Ring Road, la grande strada che dovrebbe collegare tutte le città più popolate del Paese fieramente osteggiata dai talebani. Non a caso all’inaugurazione hanno partecipato anche il generale statunitense David McKiernan, comandante di Isaf, il contingente della Nato in Afganistan, e il capo di stato maggiore di Kabul Bismullah Khan.

Come è stato possibile il miracolo italiano? Il portavoce del contingente, il capitano Antonio Bernardo, rivela una realtà semplice solo in apparenza: “Sono state le autorità politiche e gli elders, gli anziani, locali a chiedere il ponte. I materiali sono stati portati a Bala Murghab da afgani”. L’ufficiale descrive tre fasi: “A metà ottobre i genieri del II reggimento della Julia, inquadrati nel comando regionale di Kabul, hanno raccolto i materali e li hanno sistemati nei container. Il secondo passo è stato la consegna a contractor locali che li hanno trasportati a Bala Murghab con un viaggio di seicento chilometri. Nel terzo stadio i genieri del Comando Regionale Ovest, quello a guida italiana, lo hanno montato”. I pezzi sono stati collocati su due piloni di calcestruzzo armato. “Prima – spiega Berardo – potevano passare solo veicoli leggeri. Ora il ponte è collaudato per mezzi che pesano fino a sessanta tonnellate, ossia grossi camion. Così è possibile non attraversare il sud. Sono circa 250 chilometri in meno”.

E si corrono meno rischi. La Ring Road nel suo braccio meridionale passa per Kandahar, che fu ed è tornata ad essere una roccaforte talebana. Il ponte è presidiato? Berardo spiega la politica della “faccia afgana” adottata dal corpo di spedizione tricolore: “Ci sono pattuglie dell’Ana, l’esercito afgano, che controllano la zona supportate da forze della coalizione (ndr. italiani, spagnoli e americani). Nel fortino di A Bala Murghab sono schierati, su base del battaglione Tolmezzo, gli alpini dell’Ottavo reggimento comandato dal tenente colonnello Paolo Radizza”. Il confine con il Turkmenistan è vicinissimo. E anche il flusso della droga diretto verso l’Asia centrale. La presenza di forze della coalizione è un pugno nell’occhio. La task force “Grifo” della guardia di finanza italiana sta addestrando la polizia di frontiera afgana che dovrà sorvegliare la linea di demarcazione.

martedì 7 ottobre 2008

CALABRIA LA REGIONE PIU' DERUBATA DAL 1860 AD OGGI (click)



Calabria: la regione più derubata dal 1860 ad oggi!

di Antonio Nicoletta

Sono nato in Calabria e lì ho vissuto quasi il primo terzo della mia vita.
Il mio universo, fisico e culturale aveva in quei luoghi il suo epicentro. Godevo della mia territorialità e la consideravo quasi un privilegio. Rimasi molto male, quando crescendo ed affacciandomi al mondo, mi resi conto di come la mia terra, ed il meridione tutto, era considerata la parte debole ed arretrata della nazione Italia. Mi resi conto di quanto negletta fosse, e quando considerata, lo era solo per la sua arretratezza, ignoranza, infingardaggine, malaffare.
L’albagia dei vari pubblicisti e commentatori, molti del nord, rendeva ancora più acuto il mio disagio, quando leggevo nei loro scritti quanto il sud pesava e quanti problemi dava. L’orgoglio della mia nascita cominciava a pesarmi e di questo me ne accorsi quando giovane allievo ufficiale venni inserito in una piccola babele di origini, dove la mia alle volte faceva le spese di distinguo e sottolineature non sempre piacevoli.
Avevo letto della sua passata grandezza, dei suoi filosofi, della sua storia, del suo contributo al territorio che poi divenne (anche se in malo modo) la nostra Patria. E non mi rendevo conto come in una nazione che malgrado la mancanza di risorse, con la sua inventiva e la sua intelligenza era stata capace di creare fonti di reddito con attività che si imponevano nel mondo, solo il sud, a parte alcune piccole nicchie, dipendenti soprattutto dalla peculiarità del suo clima, per il resto fosse assente.
Solo in età un po’ più vicina alla maturità mi resi conto che forse alla base di tutto questo vi erano responsabilità non solo nostre; la storia non era quella che ci insegnavano a scuola. Molte cose ci erano tenute nascoste, altre avevano evidenze diverse da quelle che immaginavamo.
Alcuni servizi comparsi su un quotidiano economico nazionale confermò, con l’autorevolezza delle proprie firme, quanto nelle varie e disordinate letture avevo intravisto e cercato di approfondire e divulgare. Mi consentiva di parlare di una regione che fino all’unità era tutt’altra cosa di quella che si presenta oggi alla pubblica conoscenza. Quegli articoli, che cercherò di evidenziare e un poco ampliare, narravano di tempi in cui il meridione non aveva bisogno di quell’assistenza dello stato sempre rinfacciata dai nostri connazionali del nord; producevamo, tanto e bene, materiali e beni pregiati che con i loro proventi assicuravano al popolo della mia terra un benessere, che contestualizzato in una regione di circa 1,200 milioni di abitanti, poteva essere superiore a quello di molti altri posti ora più ricchi e per questo ritenuti più civili. Citerò dal quotidiano “il sole 24 ore” una serie di servizi comparsi nel marzo del 2004 a firma di Bruno Bisogni:
Un’opera singolare quanto meritoria. Un archivio virtuale che documenta oltre un secolo di testimonianze su quello che ha rappresentato il più importante stabilimento metallurgico nel Mezzogiorno prima dell’Unità d’Italia. Lo ha realizzato il Laboratorio di documentazione del dipartimento di Linguistica dell’Università della Calabria.
Un Archivio cartaceo delle Reali Ferriere della Mongiana, in effetti, già esisteva, conservato dal 1951 nei locali dell’Archivio di Stato di Catanzaro. Si tratta di un fondo costituito da 90 unità archivistiche, molto poco funzionale alle esigenze di chi cerca informazioni puntuali e in tempi relativamente brevi. La brillante attività degli studiosi dell’ateneo calabrese non ha trasformato la realtà materiale della memoria storica della Mongiana, ma si è invece concretizzata nella realizzazione di una schedatura analitica delle unità archivistiche, riordinate logicamente ma solo sul piano virtuale. Attraverso il sito www.linguistica.unical.it/laboratorio-doc/pubblicazioni/RealiFerriere/index.htm, è infatti possibile consultare la straordinaria documentazione disponibile, distribuita in oltre mille unità tra fascicoli e sottofascicoli, contenuti in novanta “buste”. In tal modo, il ricercatore-navigatore può individuare i documenti che gli interessano, visualizzarli, confrontarli simultaneamente con gli altri materiali. Un’autentica manna per chi vuole riscoprire un pezzo importante della storia industriale del Sud e approfondirne personaggi e situazioni. La schedatura del Laboratorio di documentazione del dipartimento di Linguistica dell’Università della Calabria è stata effettuata «secondo i correnti parametri archivistici, evidenziando, ai fini della consultazione, la corrispondenza tra vecchia e nuova segnatura». E stato così ricostruito l’ordinamento originario degli atti, che ripartiva la documentazione nelle seguenti tematiche: Contabilità finanze (stati di contabilità), Contabilità materie (stati di rimesse e consumi; quadro degli altiforni), Inventari, Stati di situazione, Stati dei lavori, Processi verbali, Registri copialettere, Protocolli, Corrispondenza, Contratti, Disegni, Tariffe.
Gli accademici calabresi si sono poi avvalsi del’ prezioso materiale per realizzare i testi del sito dedicato alle Reali Ferriere, completo di immagini e riferimenti storici.
Ancora:
Mongiana
La realizzazione, nella provincia di Vibo Valentia, in Calabria, di uno dei più importanti stabilimenti metallurgici d’Europa non è un progetto per riconvertire la regione italiana meno industrializzata. È storia.
La storia del complesso della Mongiana, avviato alla fine del Settecento e inserito in un comprensorio industriale sito tra Monteleone a Gerace, in mezzo a boschi e corsi d’acqua, a poca distanza da Serra San Bruno.
Le Reali Ferriere della Mongiana giunsero a dare occupazione fino a 1.500 operai. Vi si lavorava il minerale di ferro estratto dalle vicine miniere statali di Pazzano. Si realizzavano manufatti di utilizzo civile e soprattutto militare. Di grande rilevanza, tra le produzioni per uso civile, le componenti (bulloni, maglie, catene) dei primi ponti sospesi in ferro realizzati in Italia, costruiti sui fiumi Garigliano e Calore nel 1829.
Mongiana rappresentò un autentico modello di civiltà industriale per l’epoca. Accanto agli stabilimenti produttivi, furono edificate case per gli operai e gli ufficiali d’artiglieria che vi presidiavano, una chiesa, una struttura sanitaria e perfino un teatro.
Un’autentica comunità, insomma, costruita attorno a un impianto che assicurava lavoro e sviluppo a un vasto territorio. Rispetto ad altre aree del regno borbonico, inoltre, il Mongiana godeva di un regime lavorativo più umano. Non vi era, come altrove, sfruttamento della manodopera femminile, e lo stesso lavoro minorile veniva circoscritto nelle mansioni e ridotto negli orari.
La localizzazione delle Reali Ferriere in mezzo a distese boschive non era casuale. All’epoca infatti, per le fucine di simili opifici occorrevano straordinarie quantità di legno da trasformare in carbone. Il che determinava autentici scempi ecologici. Le fonderie della Mongiana erano state impiantate per sostituire le antiche ferriere di Stilo, risalenti all’epoca angioina, e declinate proprio per la carenza di boschi ancora vergini nelle vicinanze.
Il ventenne Ferdinando IV di Borbone (poi divenuto Ferdinando I, re delle Due Sicilie) decise dunque, nel 1771, di dare vita al moderno stabilimento in un’area immersa tra faggi e abeti, tra il Tirreno e lo Ionio. La costruzione richiese diversi anni. Per assicurare all’impianto una tecnologia d’avanguardia, Ferdinando si assicurò la consulenza di scienziati, quali Faicchio, Melograni, Savaresi e Torídi, che avevano in precedenza condotto appositi studi in alcuni degli stati più industrializzati d’Europa, primi fra tutti Francia e Inghilterra.
Il periodo murattiano (1808-1815) diede impulso all’attività siderurgica. Non a caso, nel 1814 il complesso di Mongiana era giunto a triplicare la sua produzione, sfornando 14 mila quintali di ferro.
La successiva politica di sviluppo industriale, voluta dal nuovo re Ferdinando II, contribuì a favorire la crescita del colosso metallurgico calabrese, tanto che, a metà degli anni Trenta, le Ferriere furono rafforzate con la costruzione di una nuova fonderia di prima fusione, la Ferdinandea. Una struttura di notevole interesse architettonico che, oltre ai locali per le lavorazioni, prevedeva alloggi per l’esercito e perfino appartamenti reali.
La fonderia della ferriera, da parte sua, aveva tre altiforni e poteva avvalersi di macchine a vapore Sofisticata fu anche la concezione della fabbrica d’armi, progettata e realizzata nell’ambito del complesso industriale, a metà secolo, da Domenico Savino.
All’ingresso aveva colonne di ghisa che, quasi come un ammiccamento pubblicitario, richiamavano l’attività produttiva.
All’interno, c’era anche una scuola per i figli degli operai. Nella fabbrica d’ armi gli occupati oscillarono tra le 100 e le 200 unità. In parte erano “filiati”, ovvero esentati dal servizio di leva, a condizione di restare legati allo stabilimento per almeno un decennio.
Il drastico ridimensionamento del gigante metallurgico arriva subito dopo l’unificazione del Paese. Passano infatti appena due anni, e la produzione si dimezza.
I motivi stanno soprattutto nell’improvviso abbattimento delle barriere doganali, nell’incremento delle imposte e néi pesanti tagli agli ordinativi per forniture militari e ferroviarie decisi dal nuovo Governo. Poco fondate sono invece le giustificazioni, pure addotte all’epoca, che riguardavano una presunta relativa qualità dei prodotti. Se così fosse stato, non si spiegherebbero i numerosi riconoscimenti assegnati all’opificio. Dalla medaglia con diploma attribuita in occasione dell’Esposizione industriale di Firenze del 1861, ai premi per prodotti delle ex Reali Ferriere, quali lame damascate, sciabole e carabine di precisione, disposti all’Esposizione internazionale di Londra del 1862.
La Mongiana e la Ferdinandea chiusero definitivamente i battenti poco dopo la cessione, nel 1873, a un privato, il deputato ex garibadin o Achille Fazzari.
La Mongiana e la Ferdinandea non esaurivano il patrimonio industriale della Calabria ottocentesca. La regione, anzi, costituiva, l’area più industrializzata del Regno dopo quella di Napoli – Caserta – Salerno. Sempre nella siderurgia, non si può non ricordare lo stabilimento di Cardinale, nel bosco di Razzona, impianto privato noto come la ferriera del principe di Satriano, avviato da Carlo Filangieri nel 1824 e che risulta attrezzato fin dal 1839 con ben nove fornelli di fusione. E da lì che, assieme alle Reali Ferriere di Mongiana, uscirono la gran parte dei componenti utilizzati per-la costruzione dei primi ponti sospesi in ferro d’Italia, sui fiumi Garigliano e Calore. Filangieri riuscì a far quadrare i conti della sua ferriera per molti anni, malgrado dovesse importare il ferro dall’isola d’Elba, non potendo utilizzare il minerale estratto dalle miniere statali di Pazzano. Un grosso aiuto gli venne dagli abili artigiani locali, maestri nella lavorazione del materiale.
L’opificio giunse così ad annoverare fino a 200 addetti. La fine fu decretata da un evento naturale, l’alluvione del 18: che recò danni irreparabili e strutturali.
Un’altra fonderia, che produceva spranghe di ferro, era localizzata a Fuscaldo, nella Calabria citeriore.
Accanto all’industria siderurgica figurava in primo luogo quella estrattiva. A Lungro per l’estrazione del sale, erano attivi all’epoca più di un migliaio di operai.
Più che notevole era la presenza dell’industria tessile, nel cui ambito operavano anche imprenditori stranieri. In particolare la Calabria citeriore era nota per la lavorazione della lana, le Serre e il Poro per quella della seta. Alla nascita dello Stato italiano, nel 1860, le imprese del settore disponevano complessivamente nella regione di circa 11 mila telai. Nella sola industria della seta operavano oltre tremila persone, con larga presenza femminile.
Sin dall’inizio dell’Ottocento, in Calabria si erano andate sviluppando, specie nell’area di Reggio e di Cosenza, imprese di distillazione da vino e frutta per produrre spirito. Un’attività il cui successo era testimoniato da una clientela vasta, spesso anche extraregionale, e che si è protratta, tra alterne vicende, fino alla seconda guerra mondiale.
Agli inizi del XV secolo si consolida in Calabria la coltivazione del gelso per il baco da seta (gelso bianco) che viene avviato per le particolari doti climatiche nelle aree di Bisignano, Catanzaro e Reggio Calabria. Nel 1589, si ha notizia di una produzione di circa 400.000 libbre a Catanzaro e Bisignano e di altre 100.000 libre a Reggio Calabria.
Una produzione formidabile per l’epoca pur se sottoposta a forti fenomeni di depauperamento a causa del contrabbando - sia della seta che dei bachi -, anche se le pene, per chi esercitava questa attività illecita, erano estremamente severe.
L’andamento di questa attività produttiva continua ad essere ottimale anche nel XVII secolo, quando la crisi colpisce molte aree dell’Italia per una generale carenza di innovazioni tecnologiche.
Paradossalmente questa carenza tecnologica incentiva tanto il contrabbando quanto la commercializzazione - quasi obbligata - dei semilavorati di seta e soprattutto dei bachi.
Al confine tra industria e artigianato, la Calabria riusciva anche ad assicurare ai mercati sia nazionali che esteri una produzione manifatturiera svariata, dai cappelli alla pelletteria, dai mobili ai saponi, all’oggettistica in metallo, fino ai fiori artificiali.
La coltivazione intensiva dell’ulivo, oltre a renderla la regione più produttiva di olio alimentare, le dava anche il primato nella produzione di olio lampante, che in un periodo in cui non esisteva l’illuminazione a gas o elettrica, e non essendo stati ancora messi a punto gli impieghi del petrolio minerale, costituiva la materia prima atta all’illuminazione e alla produzione di saponi.
La pianta della liquirizia di Calabria, è stata fonte di altra ricchezza per la gente del posto. Infatti la storia della sua trasformazione è molto antica ed è legata alle vicende del latifondo e delle famiglie feudatarie calabresi. Le sue radici, tanto lunghe che si diceva arrivassero all’inferno, pur contribuendo ad azotare il terreno, dovevano essere estirpate prima di procedere a qualsiasi coltura. La loro raccolta, in un’economia strettamente dipendente dall’agricoltura, consentiva di sfruttare il terreno nell’anno di riposo della rotazione, dando lavoro ai propri contadini nonché a gruppi di immigrati stagionali provenienti da zone ancor più depresse.
Nel 1500, quindi, si inizia a estrarre il succo di liquirizia e nel 1731, secondo la tradizione, l’attività si espanse e fu dato particolare impulso nel 1800 con il miglioramento dei trasporti marittimi e con i privilegi e le agevolazioni fiscali concesse dai Borbone a queste industrie tipiche.
Importanti sul piano locale erano anche le attività di estrazione oltre che della liquirizia quella del tannino dal castagno
Già nel XIV secolo risultano tracce di un agrume esclusivo del sud della Calabria Limon pusillus calaber. L’etimologia più verosimile è Begarmundi, cioè pero del signore in turco, per la sua similarità con la forma della pera bergamotta.
La prima piantagione intensiva di alberi di bergamotto (bergamotteto) fu opera nel 1750 Originariamente l’essenza veniva estratta dalla scorza per pressione manuale e fatta assorbire da spugne naturali (procedimento detto “a spugna”) collocate in dei recipienti appositi (detti concoline).
Nel 1844, si documenta la prima vera industrializzazione del processo di estrazione dell’olio essenziale dalla buccia grazie a una macchina di invenzione del reggino Nicola Barillà, denominata macchina calabrese che garantiva una resa elevata in tempi brevi, ma anche un’essenza di ottima qualità se paragonata a quella estratta a spugna.
Inoltre durante questo secondo periodo borbonico si registrarono in tutta la Calabria importanti cambiamenti. Prima di tutto c’era la quasi completa possibilità di esercitare gli usi civici che consentivano a larghe masse di contadini di utilizzare i vasti demani della Sila e del Marchesato. La popolazione aumentò notevolmente tra il 1801 ed il 1861, passando dai 750.000 a 1.140.000 abitanti. A Mongiana, nelle montagne delle Serre, come detto, funzionavano le Regie Ferriere con quasi duemila operai. Secondo alcuni, era il più importante polo siderurgico italiano, che subito dopo l’Unità venne completamente smantellato. Nel 1859, Ferdinando II moriva. Gli successe il giovane figlio Francesco II. Infuriava la seconda guerra di indipendenza e per il Regno delle Due Sicilie i tempi volgevano all’impossibile. Il giglio della dinastia era destinato ad appassire presto e con questo sarebbe appassita anche la Calabria.

giovedì 26 giugno 2008

ANCHE QUESTA E' ITALIA


DUECENTO ANNI IN DUE
SPOSI IERI A BORDIGHERA

Novantotto anni lei, 101 lui. Si sposano. La favola di Silvie Baisan e Giuseppe Rebaudo è diventata realtà: dopo 50 anni di convivenza, ieri mattina il sindaco di Bordighera Giovanni Bosio li ha dichiarati marito e moglie. In tailleur nero con sfondo a pois rosa Silvie, in abito scuro Giuseppe, hanno coronato il loro sogno d'amore nato nel 1952, quando si erano conosciuti alla Battaglia dei Fiori di Ventimiglia. Lei, francese, ex impiegata del quotidiano «Nice Matin», di Roquebrune, piccolo centro vicino al Principato di Monaco, lui di Bordighera, medico ginecologo, hanno deciso di convolare a nozze con una cerimonia semplice, davanti a due testimoni, il nipote della sposa ed il notaio Gianni Donetti di Sanremo, amico di famiglia dei Rebaudi. «Sono solo cinquant'anni che stiamo insieme. Il matrimonio è un passo che occorre fare con attenzione», ha detto ironicamente prima di sposarsi la sposa. Rebaudi ha invece risposto: «Non ho mai pensato al matrimonio, ma Silvie mi ha convinto anche se un pò tardi. Nella vita ho fatto di tutto, ho studiato molto, ho lavorato altrettanto, la vita è fuggita via velocemente. E ora mi sposo». Per la luna di miele i due non hanno ancora deciso dove andranno. «Abbiamo ancora tanto tempo per pensare - dicono -. Ci siamo appena sposati»