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lunedì 3 agosto 2009

Reportage a Bala Murghab (click)

L'ultimo Avamposto

Nel fortino della Folgore a due passi dalle linee dei Talebani. Di pattuglia con i parà nei villaggi afgani tra indifferenza e differenza. Caldo, polvere, sudore e disagi dei nostri soldati in missione per la pace di tutti.

Così ci si guarda intorno, tra un sobbalzo e un'altro quasi cadendo addosso al passeggero seduto accanto durante il volo tattico per raggiungere quell'angolo di mondo lassù, a nord ovest di Herat: Bala Murghab il fortino dove gli italiani combattono l'ultima battaglia contro i talebani. È un volo diverso da tutti gli altri, ma solo così ci si può arrivare.

Gli elicotteri non possono permettersi di seguire le rotte normali, sarebbero un obiettivo troppo facile per i razzi e i mortai che i talebani sembrano possedere in quantità industriali, e allora per sfuggirli si vola così bassi, quasi sfiorando il suolo con il grosso elicottero diventato improvvisamente aglile che tenta di arrotolarsi su cercando di sorprendere il nemico potenziale tracciando vistose curve nell'aria. Sembra incredibile come il gigantesco CH47 riesca a diventare un giocattolo nelle mani del pilota.

Noi, da dietro, continuiamo a guardare con sorpresa la terra che sfila a pochissimi metri di distanza. poi in una nuvola di polvere sottile, quasi impalpabile, atterriamo a Bala Murghab. Fango secco, paglia, qualche animale che pascola svogliato in un campo appena distante e il passo lento di un contadino afghano sullo sfondo è tutto quello che il panorama racconta: e lì di fronte la postazione italiana. Al centro del campo un grande edificio che una volta aveva un vero tetto e oggi viene coperto alla bell'e meglio da un paracadute: lo si capisce anche dagli oggetti, dalle soluzioni di fortuna, che colonnello Tuzzolino e i suoi uomini si sono inventati un modo per sopravvivere anche in questo posto.

Lui, il comandante della base ci viene incontro e mentre ci arrampichiamo insieme su una postazione appena più alta ci fa capire perchè questo posto è tanto importante. Il piccolo villaggio è diviso in due dal fiume, il Murghab, che in questa fase è diventato anche la linea di demarcazione tra la «safe area» il territorio messo in sicurezza dai nostri uomini, e la zona ancora nelle mani degli insurgents, talebani, rivoltosi e criminali a vario titolo che di là dal fiume dettano legge. Per lunghi mesi, ogni notte la base è stata l'obiettivo dei tiri di mortaio, dei razzi, dell'artiglieria nemica. Nonostante gli attacchi gli italiani sono stati li, non si sono mossi, hanno dimostrato che avrebbero tenuto posizione, e allora le aggressioni si sono moltiplicate. Il comandante ci spiega che anche qui come nel resto dell'Afghanistan il controllo del territorio viene realizzato con l'aiuto delle forze afghane, esercito e polizia, che organizzano check point nella zona degli insurgents.

Ma tra le brande nelle caserme afghane si raccontano storie atroci di soldati finiti nelle mani dei Taliban, uccisi lentamente e attraverso mille torture: così per loro stare là fuori è ancora più dura, ma questa è una guerra che si combatte metro per metro, per stabilire chi, realmente, ha il controllo sul villaggio. Sono queste le cose che si pensano e si capiscono dal nostro punto di osservazione sotto il sole a picco, lì in cima agli escobastion (i sacconi di rete, juta e sabbia che servono per difesa), mentre il colonnello Tuzzolino ci indica i due check point avanzati, uno proprio degli afghani, e l'altro controllato dai nostri soldati, e tutti e due ci paiono così pericolosamente distanti, proprio lì in mezzo quella striscia di terra in mano agli insurgents. E alla fine ci sembra quasi inutile stare lì fissare i movimenti tra le cassette di paglia e il verde sulle sponde dei canali, tentare di immaginare gli spostamenti, i volti, le azioni.

Non ce la facciamo ad accettare di rimanere a vedere cosa succede da qui, protetti dallo scorrere del Murghab e, appena parte la prima pattuglia cerchiamo di aggregarci, di andare a vedere. Alle tre del pomeriggio salire a bordo dei Lince non è un'esperienza felice, e il caldo soffocante, la sabbia, il sudore si superano solo pensando che gli uomini che stanno uscendo con noi erano già là fuori fino a due ore fa. Sono rientrati in base, hanno mangiato qualcosa al volo e poi di nuovo in strada, questa volta con il problema aggiuntivo dei giornalisti al seguito: davvero, basta concentrarsi su questa realtà per trovare tutto di colpo più accettabile. In cinque minuti di viaggio siamo già nel centro del villaggio, e proprio quei cinque minuti danno il senso dei due mondi così diversi che convivono in questa terra: la tranquillità antica dell'Afghanistan rurale da una parte e l'inquietudine sotterranea e violenta dell'Afghanistan dei talebani, dei commercianti di armi e droga dall'altra.

I negozietti sono quasi tutti chiusi, ma davanti alle poche serrande alzate ci sono piccoli gruppi di uomini che parlano, guardano o bevono il tè. Quasi tutti si contentano di inchiodarci addosso sguardi fissi, difficili da decifrare. Qualcuno non riesce a mascherare uno sguardo sorpreso quando si rende conto che lì in mezzo ai soldati c'è anche una donna, ma sono solo sguardi sfiorati dal finestrino. Non ci fermiamo volutamente, sostare lì in mezzo vorrebbe dire turbare la calma apparente del momento, intaccare la loro pretesa normalità e in qualche misura provocarli, così attraversiamo lentamente le vie polverose senza colore. Ancora svolte, qualche centinaio di metri, i Lince sobbalzano a ogni metro e continuano ad avanzare nel cuore del villaggio finchè arriviamo al check point dove i paracadutisti della Folgore tengono posizione in pieno territorio ostile. Anche qui i ragazzi si sono organizzati, in qualche modo.

A piano terra hanno due brandine e un po' di bottiglie di acqua, sopra una postazione di osservazione coperta dai sacchi di sabbia e dai teli mimetici che nasconodono canocchiali e fucili di precisione. Lì di fronte, a pochi metri, il nemico. I talebani sono arroganti, fanno sventolare la loro bandiera, un drappo bianco in cima a un lungo bastone, su una casa abitata da famiglie normali. È ancora una volta la loro tecnica subdola, consumata, la vediamo qui e l'abbiamo vista identica a sud, seguendo i marines in azione. Questi combattenti ammantati di retorica e di nessuno scrupolo, usano la gente normale, i contadini, gli abitanti dei villaggi come scudi per le proprie azioni. I talebani prima attaccano, poi ripiegano nei luoghi dove vive la gente normale. Si nascondono nei villaggi, tra le famiglie dei contadini in modo che ogni risposta armata degli uomini dell'ISAF si possa tradurre in un terribile risultato di vittime civili. E anche qui a Bala Murghab loro bandiera che sventola a un passo dai check point in fondo non è altro che la conferma del loro modo di agire.

Così i due parà di guardia sulla torre seguono i movimenti tra le case, immobili per ore con lo sguardo fisso nel binocolo. la scena è immobile, il senso di attesa sovrasta tutto. E quel silenzio irreale che inquieta. al piano di sotto sulle brande in mezzo alla polvere qualcuno butta lì una battuta e strappa mezzo sorriso, la giornata è ancora lunga. Noi ci sentiamo un po' turisti inutili venuti a guardare da vicino l'inquietudine senza possibilità di afferrarne il senso. vorremo riuscire a raccontare delle elezioni che ci saranno, se ci saranno qui, solo grazie al lavoro di questi uomini, o della tregua di queste ore che sembra tenere riducendo a pochi suoni gli spari nella notte. Ma poi sul racconto delle cose che sono vince il senso di immutabilità di questo posto.

Le rughe scolpite su quei volti che sembrano raccontare la loro appartenenza a questa terra come noi forse non la capiremo mai. Così rimane tutto fermo, fuori dal tempo. Da una parte i talebani e le loro mani sul villaggio, la violenza della loro legge. Dall'altra gli uomini della Folgore venuti da lontano a cercare di garantire a questa gente non l'applicazione di un modello che non gli appartiene, ma la possibilità di scegliere per la propria vita. Un lusso inedito persino difficile da capire per chi da sempre sopravvive nella polvere di fango delle case di Bala Murghab.

sabato 1 agosto 2009

IMPUDENZA (ANTI)DEMOCRATICA (click)

C’è nel comportamento sfacciato, nel linguaggio auto assolutorio, nell’uso scandaloso della doppia morale, nel rifiuto incancrenito di assunzione di responsabilità, c’è nella sinistra italiana e segnatamente nel cosiddetto Partito Democratico, anzi nelle sue sparse frattaglie, qualcosa di così irragionevole, presuntuoso, irritante, che non possiamo ascriverlo solo a forma estrema di autodifesa, a tattica consapevole di attacco violento dell’avversario, ma dobbiamo bollarlo come profondo e pericoloso sentimento anti italiano e anti democratico. Gli sta scoppiando lo scandalo della sanità pugliese in mezzo ai piedi, la pubblica accusa ipotizza con forza un intreccio mafioso tra politica e affari? Figuriamoci, loro sono tranquilli, non si capisce di che, come dice Massimo D’Alema inarcando il baffo sdegnato, oppure denunciano una barbarie senza fine, non si capisce di chi, come sostiene l’indignato Nichi Vendola. Non basta, perché all’impudenza di quelli che fanno i moralisti solo a spese degli altri non c’è limite. Il Pd non trova di meglio che convocare Silvio Berlusconi in Parlamento sulle escort perché «i comportamenti del Cavaliere e capo del governo violano alcuni articoli della Costituzione, a cominciare dall’articolo 54, nel quale si stabilisce che i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno “il dovere di adempierle con disciplina e onore”. E poiché “gli italiani e le italiane hanno appreso da servizi fotografici, interviste e dichiarazioni mai smentite” degli incontri e delle feste “con giovani donne anche minorenni che ricevevano in cambio denaro e promesse di promozione professionali” o di seggi nelle istituzioni e tutto questo si chiama “sistema di scambio tra relazioni sessuali, denaro, potere che ha il suo epicentro nel presidente del Consiglio”, sarebbe il caso che lo stesso premier offra chiarimenti».
Avete capito dove può arrivare l’impudenza? Arriva a fingere ancora una volta che il capo del governo debba rispondere di qualcosa per cui è stato abbondantemente diffamato ma mai incriminato, mentre loro, i simpatici parlamentari del Pd, coinvolti in scandalo di finanziamento illegale e corruzione, non si sentono di rispondere di niente. Che i primi firmatari della sconcertante iniziativa siano donne, vi risparmio l’elenco di solite note e qualche ignota, rattrista ancora di più. Davvero le elette di un partito in estinzione da cannibalismo non hanno problemi più seri dei quali correre a occuparsi? No, è l’antica pretesa di superiorità a prevalere, è una pratica antica, potremmo definirla di tradizione leninista, ma il suo perfezionatore fu il molto compianto e altrettanto sopravvalutato come modernizzatore, Enrico Berlinguer. La regola è semplice e diabolica: se ruba uno dei tuoi avversari, è l’intero partito, sistema, governo, ad essere corrotto, se succede a loro resta un episodio personale, al quale opporre sdegno presunto, e scandalo per chi dovesse supporre che il problema è politico e collettivo. Se gli indagati sono gli avversari, hanno già in mano la condanna di tre gradi, se sono loro, invocano il garantismo come una sacra icona. Non è forse così che in un batter di mani compiaciuto si sono liberati del proprio pesante nome cancellato dalla storia democratica, comunista, limitandosi a cambiarlo senza pensieri? Non è forse un pesante passo indietro nel processo di un qualche riformismo che Massimo D’Alema intende fare, insieme alla sua spalla, Bersani, per riprendersi un pezzetto di potere? Loro invece, parlamentari donne e uomini, si occupano della vita privata di Silvio Berlusconi.
Sarà bene allora ricordare a loro e a noi su che cosa si sta indagando.
Secondo il Pm in Puglia c’è stato un «patto criminale» fra imprenditori e politici, dal quale i partiti al governo, il centro-sinistra, comprese le liste del neo fiammante rieletto sindaco, Emiliano, dalemiano anche lui, almeno fino all’altroieri, avrebbero ottenuto illeciti finanziamenti da alcuni grossi industriali del settore sanitario, beneficati da appalti per milioni di euro, che tornavano poi in parte ai partiti in una partita di giro. Ai responsabili dei partiti inquisiti sono stati consegnati, prima della perquisizione dei carabinieri per acquisire i bilanci dal 2005 a oggi, gli anni della giunta Vendola, atti che ipotizzano l’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, la concussione, il falso, la truffa, il voto di scambio e il finanziamento illecito, con la non lieve aggravante di associazione mafiosa, vista la frequentazione che risulta dalle intercettazioni di alcuni indagati con esponenti della Sacra corona unita, la mafia pugliese. Secondo la pubblica accusa l’ex assessore pugliese alla Sanità, Alberto Tedesco, ora senatore del Pd, dalemiano, aveva nel sodalizio criminoso «il ruolo di vertice» mentre il suo collaboratore Mario Malcangi era il collegamento tra Tedesco e il mondo imprenditoriale, ed era incaricato di tessere «i contatti e a portare a compimento gli interessi del sodalizio». È scritto nel decreto di perquisizione. Attendiamo le prove delle accuse, certo è che Nichi Vendola si è affrettato un mese fa a eliminare tutti i sospetti, rimpastando la giunta. Certo è che ci hanno deviato per un paio di mesi almeno sulle D’Addario, e hanno cercato di fermare il magistrato accusatore. Era il filone dello schermo, gli è andata male stavolta.

giovedì 12 giugno 2008

DURO & IMPURO by Luca Bagatin

FORSE, PIU' CHE L'ORDINE, ANDREBBERO ABOLITI I GIORNALISTI

L'avvocato, così come il giornalista, sono figure professionali che mi hanno sempre lasciato perplesso e con l'amaro in bocca.
Il primo è disposto a difendere i peggiori turlupinatori e cialtroni aggrappandosi all'infinitesimale e più insignificante cavillo legislativo che gli consente di "salvarsi e salvare la pelle al suo assistito" (specie in questo nostro Paese ove la certezza della pena è in realtà una vera e propria incertezza e la giustizia non è giammai uguale per tutti), il secondo....beh, lo scopo di questo articolo è proprio quello di approfondire questa arzigogolata quanto paradossale categoria professionale.
Il giornalista è quel particolare soggetto che, per mestiere, scrive sui cosiddetti "organi di stampa" ovvero "testate giornalistiche". Egli è dotato inoltre di una particolare tesserina che ne dimostra l'appartenenza alla relativa corporazione definita "Ordine dei Giornalisti" sancito dalla legislazione fascista negli anni '20 utile all'allora Regime per controllare l'attività di codesti "individui letterari" definiti, appunto, giornalisti.
Beh..."individui letterari". Diciamo che i giornalisti non sono quasi mai "letterari" o "letterati" nel senso più stretto del termine.
Essi si apprestano a riportare sulla carta i fatti del giorno....spessissimo modificandone ed alternandone la realtà a loro uso e consumo e per i più vari scopi. Anche commerciali.
E così non è raro trovare dotte riviste di cucina ove in bella mostra vi è l'intervista all'Assessore o al politico tale, che magari è direttamente o indirettamente finanziatore della stessa testata o è proprietario o cooproprietario del ristorante tale, sponsorizzato ovviamente dalla rivista di cucina di cui sopra.
Nulla di peccaminoso, per carità. E' solo che il giornalista a quel punto diventa un "servo", uno "strumento dell'inconscio collettivo a fini specifici".
Il Maestro spirituale George Ivanovitch Gurdjieff aveva precise opinioni sulla figura del giornalista:

"Il pubblico non sa mai chi è che scrive. Conosce soltanto il giornale, il quale appartiene a un gruppo di esperti commercianti.
Che cosa sanno esattamente coloro che scrivono su quei giornali, e che cosa succede dietro le quinte della redazione? Il lettore lo ignora completamente. I rappresentanti della civiltà contemporanea, trovandosi a un grado di sviluppo morale e psichico molto inferiore, sono come dei bambini che giocano col fuoco, incapaci di misurare la forza con la quale si esercita l'influenza della letteratura sulla massa."

Ed ancora:

"Non posso passare sotto silenzio questa nuova forma letteraria, perché, a parte il fatto che non porta assolutamente nulla di buono per lo sviluppo dell'intelligenza, essa è diventata, a mio avviso, il male de nostri tempi, nel senso che esercita un'influenza funesta sui rapporti umani. Questo genere di letteratura si è molto diffuso i questi ultimi tempi perché - ne sono fermamente convinto - esso corrisponde meglio di ogni altro alle debolezze e alle esigenze determinate negli uomini dalla loro crescente mancanza di volontà".

Il giornalismo professionale, è, insomma, mediaticità. Ovvero l'opposto delle realtà. E' semplificazione e quindi banalizzazione, mediocrità.
Partiamo ad esempio dalla cronaca nera che riempie i mass media di tutto il mondo e fa impennare gli ascolti e le vendite.
Stragi, stupri, violenze di ogni genere che giocano proprio sull'eccitabilità della mente umana. Eventi che da una parte banalizzano la morte in modo disumano e dall'altra la esaltano ed inculcano i più beceri sentimenti nell'animo umano stesso (vendetta, paura, insicurezza).
E' da tempo che io stesso mi rifiuto di guardare per intero un telegiornale e di rimanere quindi intriso da questo genere di pseudo informazione, di estremizzazione e mancanza di rispetto nei confronti degli eventi e del pubblico stesso.
Con ciò non affermo affatto che determinate notizie andrebbero cassate in toto.
Dico solo che dovrebbero essere propedeutiche a più approfondite riflessioni e spunti. Meglio se creativi. Spunti che vadano a toccare l'animo umano, ovviamente, ma che non lo sconvolgano.
Che facciano piuttosto riflettere su chi siamo e su ciò che ci circonda. Con la consapevolezza che "siamo tutti sulla stessa barca" ed assieme ad individui come noi. Non necessariamente migliori o peggiori.
E tutto ciò non è minimamente rilevato dai mass media che sbarrano per la maggior parte la strada alla comprensione ed all'approfondimento. Spesso infarcendo le notizie di giudizi sommari e sanza appello (la famosa gogna mediatica).
Il giornalista andrebbe sostituito dallo scrittore e dall'artista. Dal creativo della parole e dell'immagine, capace di traghettare e condurre il lettore/spettatore in un'universo interiore fatto di molteplicità di visioni e di punti di vista. Di spunti che gli consentano sue proprie riflessioni.
Non meri fatti, bensì immagini, parole il più possibile colte ed elevate (in modo da stimolare l'innata curiosità di chi legge o vede o ascolta).
Colui che scrive dovrebbe avere innanzitutto la capacità e la voglia di farlo.
Colui che è dedito a scrivere/realizzare il cosiddetto "pezzo" dovrebbe avere la consapevolezza del suo ruolo creativo. E non ci sono scuole o università che possono insegnare ciò, ma solamente il "fuoco interiore" e l'esperienza personale e diretta.
La capacità e la volontà di vedere oltre e di andare oltre il fatto in sé.
Colui che scrive lo dovrebbe fare con lo stesso animo con cui fa l'amore con il suo partner.
L'ardore descrittivo, l'ardore dell'argomentazione.
Poco importa l'imparzialità del testo. Anzi !
Sono convinto che lo scrittore/"giornalista" dovrebbe essere assolutamente parziale e dichiarare la sua totale parzialità.
Il suo punto di vista, la sua riflessione ed argomentazione sono, a parer mio, del tutto propedeutiche e utili alla riflessione del lettore/fruitore/uditore.
E' questo ciò che conta: fornire al soggetto-fruitore una chiave per diventare a sua volta "attore" e "partecipe" del processo di riflessione (riflessione, ovvero il contrario di informazione).
Ecco che lo scrittore (non più il giornalista) potrebbe smontare così una notizia, un fatto, e restituircelo al suo stato più puro e più aderente alla realtà e quindi rendercelo utile alla nostra stessa intima comprensione.
Un fatto, una notizia, non hanno alcun senso se non sono di utilità pratica al lettore.
Il pettegolezzo è "robaccia" per coloro i quali hanno tempo e vita da sprecare. Per coloro i quali non hanno più passione e si rassegnano ad essere e divenire, giorno per giorno, soggetti passivi. E quindi a divenire "oggetti", mere "prede" di tutto ciò che li circonda: dal dogma, alla menzogna, alla pubblicità, al "sentito dire".
Ecco dove nasce l'ignoranza e la stupidità.
Concludendo: per quanto concerne gli avvocati, massimo rispetto per coloro i quali con onestà difendono gli innocenti. Massimo garantismo, ma allo stesso tempo massima attenzione individuale e quindi collettiva.
Loro è la responsabilità di quanto accaduto nel passato, di quanto accade nel presente e di quanto accadrà nel futuro.
Massimo rispetto anche per "coloro i quali scrivono" i quali hanno forse una responsabilità ancora maggiore.
L'educazione e la cultura nascono sempre dalla libera circolazione delle idee. Idee che non possono formarsi da meri "pettegolezzi", dal "sentito dire", bensì unicamente dal profondo della creatività individuale.

Luca Bagatin
www.lucabagatin.ilcannocchiale.it

domenica 20 gennaio 2008

LE PAROLE DI UN MUSULMANO - MAGDI ALLAM

Cari amici,
quando questa mattina verso la fine del suo discorso all’Angelus domenicale il Papa si è rivolto ai 200 mila fedeli che gremivano Piazza San Pietro e via della Conciliazione a Roma con la medesima espressione che mi è abituale da lunghi anni, “cari amici”, mi si è aperto il cuore e si è consolidato in me il convincimento della profonda sintonia spirituale con l’uomo che io oggi considero l’unico vero faro e l’autentico paladino dei valori assoluti, universali e trascendenti che sostanziano l’essenza della nostra umanità, così come sono convinto che rappresenti l’estremo baluardo di difesa della civiltà occidentale dal cancro del relativismo cognitivo, etico, culturale e religioso, nonché di resistenza dall’aggressione del nichilismo dell’estremismo islamico globalizzato che ha messo solide radici all’interno stesso dell’Occidente.
Ugualmente ho sentito che Benedetto XVI mi era sempre più vicino quando ha usato, sempre nel finale dell’Angelus, un’altra espressione che mi è abituale, “andiamo avanti”, e quando ha indicato nella “verità e libertà” il percorso da intraprendere. Ebbene il quel “cari amici”, “andiamo avanti” e “verità e libertà”, c’è la sintesi di un uomo che a fronte dell’acutezza intellettuale e profondità scientifica che contraddistinguono il suo eccezionale profilo teologico e accademico, è capace di una rara semplicità e disponibilità nel rapporto con l’altro, è animato da una solida volontà di affrontare con fermezza e vincere con determinazione le sfide imposte da un’umanità lacerata al suo interno e in conflitto con se stessa, è sorretto da una incrollabile fede nella verità che è tale sul piano terreno e trascendentale, nella sacralità della vita e nella libertà che s’identifica con la piena dignità della persona.
Che lezione di vita e di fede ci ha dato quando, sfiorando appena nella seconda metà dell’Angelus l’incresciosa vicenda che l’ha indotto, con una decisione fondata e saggia, a rinunciare “mio malgrado” alla visita all’Università La Sapienza, l’accademico di lunga data Joseph Ratzinger si è limitato ad esortare gli studenti: “Da professore vi dico, rispettate le opinioni altrui”. Che un Papa invochi il rispetto, con il sottinteso è che è venuto meno il rispetto nei suoi confronti, significa che in Italia è in crisi il fondamento della civiltà occidentale e il pilastro dei diritti dell’uomo: la libertà d’espressione. E giustamente il Santo Padre ci sollecita a focalizzare l’attenzione proprio sulla violazione del pilastro della civile convivenza, senza cui si precipita inevitabilmente nelle barbarie.
Il discorso del Papa ci chiarisce che chi lo teme, chi vorrebbe tacitarlo e chi gli ha impedito di parlare alla Sapienza, ha in realtà paura non delle supposte posizioni dogmatiche o peggio ancora oscurantiste di Benedetto XVI, bensì del confronto razionale. Questo Papa è immensamente grande perché è in grado di sfidare e di vincere il confronto con i laicisti e i relativisti sul piano prettamente razionale. Ciò che i suoi nemici temono non è la sua solida fede che loro rigettano aprioristicamente, ma la forza della sua argomentazione razionale a cui non dovrebbero sottrarsi. Se lo fanno, e lo fanno, vuol dire che non sono solo poveri di spirito ma sono innanzitutto degli impostori che hanno sostituito l’ideologia al posto della scienza e della ragione.
Il Santo Padre ha vinto alla grande la battaglia impostagli dalla minoranza di docenti accecati dal fanatismo relativista e positivista e di un pugno di studenti inebriati dalla violenza ideologica vetero-comunista, ma la guerra è ancora lunga. La sfida che abbiamo di fronte sarà definitivamente vinta solo quando riusciremo a riscattare la certezza della verità dalla piaga del relativismo; a radicare in noi il sistema dei valori che corrisponde al bene comune affrancandoci dalla deriva etica; a compiere la buona azione che realizza il legittimo interesse della collettività bonificando il Tempio della politica dagli spregiudicati mercanti che l’hanno profanato per perseguire i propri egoistici interessi danneggiando l’insieme della collettività.

lunedì 31 dicembre 2007

QUESTO L'UOMO CHE CI.....S-GOVERNA


In visita da Karzai in Afghanistan  e  sulla neve insieme alla moglie


sabato 29 dicembre 2007

DA UN GIORNALISTA ESULE DELLA PATRIA

Il giorno più lungo dei processi a Bruno Contrada, che sono durati 15 anni, fu il 13 luglio 1995. Il più famoso poliziotto di Palermo era stato arrestato tre anni prima, alla vigilia di Natale del '92, e per tre anni era rimasto sepolto vivo in un carcere militare riaperto appositamente per lui e solo per lui. Il processo era finalmente iniziato e Contrada era ricomparso dopo tre anni dinanzi alle telecamere nell’aula del tribunale e sembrava il suo stesso fantasma. Fiaccato crudelmente nel fisico, la bocca cascante, imbiancati i capelli che lasciava cadere ai due lati del viso, infiacchita dalla magrezza la mascella che era stata forte e quadrata, lo sbirro, il rambo, il finto giovanotto così attento a coltivare il physique du role, appariva trasformato in un vecchio, in uno spettro.
Quel giorno il pm si è alzato a sorpresa e ha chiesto al tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo «pentito», spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa da dove, e dopo che ad accusare Contrada ne erano già sfilati sei o sette. È stato un attimo e Contrada è crollato. Aveva fatto per alzarsi, come per protestare, e subito si è accasciato sulla sedia, pallido e sudato, le labbra nere e serrate, le membra scosse da un tremito nervoso. Il presidente ha gridato: «L’udienza è sospesa». Il pm è rimasto immobile e interdetto. Un carabiniere è accorso a sorreggere Contrada prima che scivolasse sul pavimento e cercava di rianimarlo bocca a bocca. Accorsero gli altri, lo sollevarono di peso, lo stesero sulla barella dell’ambulanza, corsero all’ospedale, lo scaricarono al reparto di rianimazione, lo infilarono in un letto e gli praticarono le cure di emergenza per tentare di rianimarlo. Appena ha riaperto gli occhi, Contrada ha gridato: «Vogliono annientarmi». Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, ha strappato dalle mani dell’infermiere la siringa e ha tentato di infilarsela nella gola...

VELENI DI PALERMO
È stato a questo punto che una donna piccola e minuta che entrava e usciva, agitata e tremante, dalla cameretta della rianimazione, ha urlato. C’erano le telecamere accese e l’urlo si è sentito in diretta nei telegiornali della sera: «Caino, sia maledetto Caino... ». La signora Adriana, insegnante di lettere e latino in pensione e moglie di Bruno Contrada, ha spiegato con chi ce l’aveva: «Caino è un collega di mio marito. È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera. È qualcuno che a Roma ha capito che, mentre Bruno lottava qui a Palermo giorno dopo giorno contro la mafia, rischiando la vita, la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera. Bastava usare la Sicilia e l’antimafia come sgabello e salirci sopra... ma doveva eliminare Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli, e questo Caino l’ha fatto perché era in grado di sfornare contro Bruno un “pentito” al giorno e ancora lo fa».
Sono passati 12 anni da quel giorno (15 da quando Contrada è stato arrestato) e sono stati celebrati tanti processi: quello di primo grado, conclusosi con la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e quello d’appello, che invece lo ha assolto con formula piena; la Cassazione che ha cassato l’assoluzione e lo ha rinviato a processo e il secondo processo d’appello che lo ha ri-condannato a 10 anni; la Cassazione che questa seconda volta ha approvato, e sono sfilati tanti «pentiti» ma, tra un appello e l’altro, tanti altri se ne sono aggiunti a quello sfornato a sorpresa quel giorno di luglio di 12 anni fa. Sono state riempite migliaia, centinaia di migliaia di pagine di verbali, ma niente più ha spiegato meglio origini e ragioni di questo processo-fatwa a un uomo che ha servito lo Stato per cinquant’anni lottando contro la mafia e rischiando ogni giorno la pelle, come quell’urlo di donna al capezzale del marito che cercava di uccidersi: «Caino, maledetto Caino... ».

PENTITI VERI E PENTITI FALSI
Lo stesso Contrada lo ha ribadito, dieci anni dopo, nell’ultima intervista rilasciata prima dell’ultima sentenza: «È stata la Dia, la direzione antimafia che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dirette dipendenze delle procure, che non gradiva che io mi fossi impegnato a creare una branca del Sisde, il servizio segreto civile, dedicata specificamente a combattere la mafia. È la Dia che si è specializzata nella gestione dei cosiddetti “pentiti” e che ha sfornato i “falsi pentiti” che sono serviti ad accusarmi». Perché i processi a Contrada sono basati esclusivamente sulle accuse dei «pentiti», e spesso si tratta di mafiosi e assassini a cui è stato proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli dinanzi al giudice e a farli condannare, e che si sono vendicati, più o meno sollecitati e incoraggiati, ri-guadagnando la libertà e con lo stipendio dello Stato.
E c’è la testimonianza dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, che così ha deposto al processo: «Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo e ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafiosa, di cui è una memoria storica eccezionale, per questo ha ricevuto 33 elogi dall’amministrazione e dalla magistratura». Ed è proprio il capo della polizia, forse il più bravo e il più famoso, che accusa: «Bisogna far luce su eventuali interessi ed eventuali corvi che hanno ispirato ai pentiti le dichiarazioni contro Contrada. È quanto meno strano che soltanto dieci anni dopo vengono rivelati fatti di cui questi “pentiti” sarebbero stati a conoscenza da tanto tempo, a meno che non li abbiano appresi dopo e da chi ha voluto ispirarli. Perché questi “pentiti” parlano solo ora? Chi li manovra? Io vedo un pericolo per la democrazia».
CAMPAGNA DENIGRATORIA
E così depone il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo Alto commissario antimafia e poi direttore del Sisde: «C’è stato uno specioso malanimo contro Contrada, quando è stato il mio capo di Gabinetto, un malanimo agitato da certe lobby e certe cordate del ministero dell’Interno». E un altro prefetto, Angelo Finocchiaro, pure lui direttore del Sisde: «Contro Contrada e il Sisde ci sono stati attacchi ripetuti e proditori ed è stata organizzata una campagna denigratoria». E così hanno deposto altri capi della polizia, altri prefetti, altri ufficiali dei carabinieri, almeno tre dozzine di servitori dello Stato e uomini delle istituzioni. E l’ex presidente della Repubblica Cossiga ha addirittura chiesto la soppressione della Dia, accusandola di aver adottato «i metodi propri di un servizio segreto di polizia politica, sul modello della Gestapo nazista, dell’Ovra fascista e del Kgb sovietico».

ACCUSE SENZA PROVE
Come è stato possibile ai giudici non credere ai più autorevoli rappresentanti delle istituzioni della Repubblica e credere invece alle accuse senza prove né riscontri dei cosiddetti «pentiti», mafiosi, ladri, estortori e assassini? E molti di questi sono stati poi incriminati per calunnia, uno è stato espulso dal programma di protezione perché colto in flagrante mendacio e in riciclaggio di denaro sporco e traffico di stupefacenti, un altro ancora ha ritrattato tutte le accuse al processo d’appello e ha implorato i giudici di restituire l’onore a Contrada: di costui gli avvocati hanno scoperto, sempre nel processo d’appello, che era stato nascosto il verbale di un primo interrogatorio, in cui dichiarava di non sapere niente di Contrada. Alla contestazione il pm ha replicato che non aveva esibito quel verbale appunto perché di Contrada non si diceva niente: perché il pm avrebbe dovuto esibire qualcosa a difesa dell’imputato? Niente ancora a confronto del fatto che a presiedere la Corte d’appello che, la seconda volta, ha condannato Contrada è stato chiamato proprio il giudice che tre anni prima, quale componente del Tribunale della libertà, si era rifiutato di concedergli la libertà dalla carcerazione preventiva, dopo già due anni trascorsi in isolamento nel carcere militare: chi meglio di lui, che si era espresso così favorevolmente all’imputato, era più adatto a giudicarlo e a condannarlo?
Il fatto è che Bruno Contrada non è stato soltanto vittima delle faide interne ai corpi dello Stato, ma è stato il sacrificio propiziatorio al teorema del «terzo livello» e della connivenza delle istituzioni e del potere politico con la mafia. Inizialmente il processo che hanno tentato di fare a Contrada e che ancora echeggia in certe dichiarazioni delle vedove dell’antimafia che si oppongono alla concessione della grazia, doveva essere il processo per la strage di via D’Amelio: Contrada doveva essere l’agente dei servizi segreti «deviati» che per conto del potere politico (leggi Andreotti, ma indagheranno pure su Dell’Utri e Berlusconi come «mandanti delle stragi») avrebbe fatto assassinare dalla mafia il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, dopo aver tentato di assassinare Giovanni Falcone con il tritolo sugli scogli dell’Addaura. L’hanno scritto e fatto scrivere in centinaia di articoli e in decine di libri, l’hanno messo persino in un film: Contrada che si aggira sul luogo della strage pochi secondi dopo l’esplosione del tritolo. Non sono riusciti nell’intento, non foss’altro perché Contrada in quegli istanti era in barca con dieci testimoni molte miglia al largo di Palermo e hanno ripiegato sullo scivoloso «concorso esterno», buono per tutti gli usi e facile a sostenersi con la volonterosa collaborazione dei soliti «pentiti». Ora temono la revisione del processo, che può smascherare i «pentiti» e scoprire gli autori della trama. E temono anche la grazia: meglio che Contrada muoia in carcere e al più presto.


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CRONACA SU DI UNA MORTE CIVILE

Santa Maria Capua Vetere - "La mia dignità di uomo e di servitore dello Stato vale più della mia libertà e non permetto a nessuno di distruggerla a costo della mia stessa vita". Sono le parole di Bruno Contrada, riportate dal generale di brigata Giancarlo Tirri, marito della sorella Anna Contrada, che è stato oggi davanti al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere non potendo incontrare il congiunto poiché la famiglia aveva esaurito i colloqui mensili stabiliti in base ai regolamenti del penitenziario militare. Tirri ha detto: "Questo altissimo senso di dignità e la ferma volontà di difendere il proprio onore dalle accuse infami che gli sono state rivolte stanno consentendo a mio cognato di rimanere ancora in vita, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui versa, inesorabilmente aggravate dalla stato di detenzione".

"Bruno Contrada - ha aggiunto - da quando è in carcere, oltre alle preoccupanti patologie da cui era già affetto, ha subito per ben due volte una lesione ischemica nel territorio dell’arteria cerebrale posteriore che ha provocato altresì una ipertensione della guaina del nervo ottico di sinistra. Ciò gli impedisce di potersi dedicare alla lettura, l’unico sollievo che poteva servirgli a lenire l’enorme sofferenza interiore, con evidenti ripercussioni anche sul suo morale letteralmente a pezzi".



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