1) Giuseppe Garibaldi è stato oggetto d’una mole imponente di studi ma, sorprendentemente, uno degli aspetti meno studiati della sua figura è dato dalle caratteristiche della sua arte bellica. Eppure, Garibaldi si presenta sotto questo aspetto quale un personaggio quasi unico, o comunque rarissimo, in quanto è stato valente comandante di terra e di mare al tempo stesso, anche se certo la sua fama si lega soprattutto alla sua abilità nella guerrilla sulla terraferma.
Nel corso della sua lunghissima carriera militare, durata in pratica quarant’anni, egli affrontò e vinse eserciti brasiliani, argentini, austriaci, francesi, napoletani, prussiani, quasi sempre alla guida di volontari male armati ed equipaggiati, e solitamente inferiore numericamente al nemico. Fra tutte le innumerevoli guerre a cui partecipò, si può ricordare l’episodio, solitamente trascurato, della sua partecipazione alla guerra tra Francia e Prussia. La vittoria di Digione contro un’armata prussiana nel 1871, ottenuta da un’accolita di volontari internazionali sotto la guida di Garibaldi, fu l’unico successo “francese” nella guerra franco-prussiana del 1870-1871, in cui tutte le altre battaglie si risolsero in pesanti od anche catastrofiche sconfitte per la Francia. Il successo in questione è tanto più significativo in quanto ormai Garibaldi era fortemente invecchiato ed assai malato, ed aveva dinanzi a sé quello che era, senz’altro, il miglior esercito del mondo: pure, gli inflisse l’unica sconfitta dell’intera guerra, e conquistò all’avversario l’unica bandiera da esso perduta nel conflitto.
L’eroe nizzardo si può considerare legittimamente uno dei maggiori Bandenführer (questo appellativo gli era stato attribuito nell’Accademia militare austriaca, in cui si studiavano le sue tattiche) della storia, accanto a personaggi come von Lettow-Forbeck (il generale tedesco che, completamente isolato da ogni rinforzo ed aiuto della madrapatria, nella prima guerra mondiale riuscì a resistere per cinque anni in Tanzania a forze nemiche dieci volte superiori alle sue, arrendondosi soltanto al termine del conflitto) od il celebre generale vietnamita Giap. Come accade per i comandanti militari “convenzionali”, anche i Bandenführer si differenziano fra loro per le proprie specifiche attitudini.
2) La formazione militare di Garibaldi Garibaldi aveva avuto le sue primissime esperienze di guerra sul mare, nel corso di violenti arrembaggi (il suo primo combattimento pare sia stato contro dei pirati nel Mediterraneo orientale, in cui egli navigava come marinaio), ciò che probabilmente ha influito sulla sua predilezione per lo scontro corpo a corpo. Però, il suo autentico apprendistato marziale si svolse nell’America del Sud. L’ambiente naturale del Brasile meridionale e dell’Uruguay, estremamente vario e sovente ostile, favorì lo sviluppo in Garibaldi d’uno straordinario senso tattico.[1] Egli apprese a “leggere” un campo di battaglia con rara abilità, comprendendo i punti forti del terreno, le vie di facilitazione, le possibilità di manovra, gli ordini tattici da adoperare. Ad esempio, nella sua prima campagna in Italia Garibaldi trovò l’occasione per mettere a frutto le esperienze vissute nell’America del Sud. Su terreni che non aveva mai percorso, come le Alpi, poi l’Appennino centrale, si muove con sorprendente disinvoltura, mentre in battaglia sa cogliere l’attimo propizio con grande rapidità, dando prova, anche quando sembra guidato solo dall’aggressività, di grande senso tattico.
3) L’impiego della tattica risolutiva La distinzione tradizionale fra tattiche, a prescindere da tutte le ulteriori, moltissime differenziazioni, distingueva fra l’azione distruttiva, lenta e studiata, condotta tramite l’impiego del fuoco a distanza, e quella risolutiva, breve ed intensa, sviluppata con l’attacco all’arma bianca: Garibaldi preferì sempre questa seconda tattica. Un celebre detto del generale russo Suvarov sentenziava "La palla è cieca, la baionetta sa quello che vuole!" Le armi da fuoco, sino al 1860 circa ed oltre, erano ancora, di solito, piuttosto imprecise e con un raggio d’azione ridotto. Inoltre, un reparto schierato in modo consono alla tattica distruttiva, ovvero in linea od in ordine sparso, poteva non essere adatto a reggere ad un attacco alla baionetta portato con decisione, soprattutto se esso avveniva di sopresa e con uno schieramento asimmetrico all’avversario, ovvero con azione condotta su di un lato (“battaglia d’ala” od “ordine obliquo”) oppure direttamente di fianco, aggirando la linea.
Non si deve neppure trascurare la componente psicologica, assai importante. A una carica condotta in maniera intrepida si aveva come reazione in linea di massima la fuga dell'avversario che si sottraeva al combattimento. Su questo, anche alla luce dell'esiguo numero di feriti da baionette, sono concordi la maggior parte degli studiosi di cose militari. Il generale medico Larrey dell'esercito napoleonico aveva avuto modo d’osservare statisticamente come la maggioranza dei feriti fossero dovuti al fuoco, anziché alle armi bianche, mentre il grande storico italiano Piero Pieri aveva avuto modo di considerare come, sino alla guerra di secessione americane e a quella franco-prussiana, con il grande perfezionamento dei fucili e la nascita delle mitragliatrici, la carica alla baionetta avesse conservato un’indubbia efficacia già solo dal punto di vista morale. Dal canto suo, l'ottocentesco teorico francese Ardant du Picq aveva sentenziato “Ogni nazione europea proclama «Nessuno ha il coraggio di affrontare una nostra carica alla baionetta.» E tutti quanti hanno ragione.”
Si deve notare come la tattica risolutiva risultasse particolarmente efficace se operata di sorpresa e condotta da soldati magari poco addestrati, ma ben motivati e quindi coraggiosi. Egli aveva a disposizione volontari, soldati determinati e fortemente caratterizzati dai loro ideali e pronti a morire, però scarsamente provvisti di disciplina e soprattutto d’addestramento, quindi incapaci di manovre troppo elaborate. Come già era accaduto per gli eserciti rivoluzionari francesi, composti da una massa di reclute entusiaste contrapposte a professionisti, la scelta più semplice e naturale era quella di sfruttare l’ardore delle truppe per caricare alla baionetta, evitando il complesso manovrare del fuoco di fila. L’abilità marziale di Garibaldi sul campo di battaglia consisteva in gran parte sia nel suo carisma, che gli consentiva di spingere con energia e risolutezza i suoi soldati in cariche impetuose, sia nella grande capacità tattica e manovriera, la quale gli permetteva d’adottare gli schieramenti maggiormente adatti al tipo di terreno e di cogliere di sorpresa l’avversario sui fianchi.
4) La capacità di manovra di Garibaldi Garibaldi è noto però soprattutto per le sue straordinarie abilità di manovra, che gli consentirono, praticamente sempre, di sfuggire all’avversario qualora egli non intendesse dare battaglia. Anzitutto, egli nelle marce dava propria della sua solita, eccezionale abilità tattica, che consentiva di far procedere le truppe su terreni che altri comandanti non avrebbero mai prescelto per il cammino, e di farlo oltretutto a notevole velocità. Inoltre, Garibaldi, per meglio sfuggire al nemico, prediligeva gli spostamenti notturni. Ancora, egli era solito irradiare tutto attorno al grosso un nugolo di cavalleggeri, in modo sia da tenersi informato sui movimenti del nemico, sia occultare in tal modo i propri. Infine, ultimo ma non ultimo, il generale liguro nelle sue marce faceva spesso e volentieri ricorso a vere e proprie finte, ulteriormente tese ad ingannare e confondere i suoi nemici, recandosi dapprima in una direzione, per poi invertire bruscamente la destinazione finale.
Alcune sue campagne sono celebri proprio per la straordinaria capacità manovriera dimostrata. Si possono qui ricordare la campagna di Lombardia nel 1848, quando, con 1500 uomini, riuscì a destreggiarsi fra 6 brigate austriache (20.000 uomini circa), guidate da D’Aspre, senz’altro il migliore dei generali di Radetzky. La cosa è tanto più notevole, se si considera che la campagna si svolse interamente nel Varesotto, quindi in un teatro operativo assai ristretto per dimensioni, e che non vide nessuna sconfitta per i garibaldini, ma anzi conobbe due insuccessi per gli austriaci, battuti a Luino ed a Morazzone.
Il capolavoro strategico di Garibaldi è però, forse, la ritirata da Roma nel 1849, quando, con 4700 uomini circa, riuscì a sfuggire a cinque eserciti (francese, spagnolo, napoletano, austriaco, toscano), forti di complessivi 86.000, che cercavano di stringerlo e distruggerlo, riuscendo infine a giungere col grosso sino a S. Marino, e con un contingente più piccolo a prendere il mare. E’ degno di nota come nell’intero ciclo operativo nessuno dei suoi nemici riuscì mai a costringerlo a battaglia, anzi di solito fosse totalmente disorientato riguardo alla posizione e direzione di marcia delle truppe garibaldine. Si può portare un esempio di questo. Uscendo da Roma, che aveva ormai capitolato, l’eroe si trovò la strada sbarrata dagli eserciti napoletano e spagnolo, mentre era incalzato da una divisione di quello francese, ma, con una sola e semplice manovra, riuscì a spedire a vuoto tutte le armate nemiche. Gli spagnoli si diressero a sud-ovest, i napoletani a sud-est, i francesi a nord-est. Nel varco così creatosi, Garibaldi potè far proseguire i suoi reparti. Anche quando, poi, gli avversari erano certi d’averlo infine circondato, Garibaldi riuscì sempre, forte della sua abilità tattica e del buon uso dei suoi stratagemmi, a trovare una via di scampo.
Altro ottimo esempio della inafferrabilità degli eserciti guidati dall’eroe nizzardo è naturalmente la campagna del 1859, quanto, con una sola brigata, quella dei “Cacciatori delle Alpi”, costituita da volontari male armati ed equipaggiati, vincolò su di sé ben 7 brigate austriache, ottenendo tre netti successi (Varese, San Fermo, Bormio), respingendo il nemico a Treponti e subendo infine uno scacco parziale sullo Stelvio, dovuto in verità all’asperrima posizione più che all’abilità del nemico. Anche in questo ciclo operativo il nostro riuscì ad evitare sempre che il nemico gli imponesse battaglia, che egli diede solo quando e come volle, con la sola eccezioni del combattimento di Treponti, che però fu innescato dalla decisione del suo luogotenente Türr, in assenza del comandante in capo.
Il caso più celebre di “finta” compiuta da Garibaldi, tesa a beffare il nemico, è però durante la campagna di Sicilia del 1860, quando, dopo aver spinto il suo esercito a sud, verso Corleone, invertì la direzione di marcia entrando la notte stessa a Palermo, mentre diversi contingenti borbonici, completamente sconcertati, proseguirono nel loro cammino, giungendo sino a Corleone ed oltre, cosicché, quando gli giunse notizia dell’entrata del nizzardo nella capitale siciliana e dell’insurrezione cittadina, erano ormai giunti, nella loro caccia ad un fantasma, quasi in vista della costa meridionale siciliana.
5) Garibaldi, la “pantera” . Luciano Manara, il combattente più rappresentativo delle “cinque giornate” di Milano, che poi, alla testa d’un reparto di volontari lombardi, combattè e morì in difesa della repubblica romana nel 1849, aveva, dopo un’iniziale diffidenza verso quello che gli appariva un avventuriero stravagante a capo d’un gruppo di banditi, scoperto le doti nascoste, umane e militari, dell’eroe nizzardo, divenendone un grande estimatore. Fra l’altro, egli diede del Garibaldi militare un giudizio quanto mai felice: “è una pantera”. Questa definizione può essere assunta, cum grano salis, quale ottima sintesi delle caratteristiche garibaldine del fare la guerra. Il grande felino è un animale veloce, agile, che predilige muoversi di notte scivolando silenzioso avvolto dal suo scuro mantello, e che attacca preferibilmente di sorpresa ed ai fianchi od alle spalle. E’ astuto e paziente, poiché sa aspettare il momento propizio, eppure inequivocabilmente feroce ed aggressivo quando infine s’avventa sulla preda.
Simile descrizioni, mutatis mutandis, s’attaglia in larga misura a Garibaldi. Egli riesce quasi sempre a far sì che i suoi movimenti sfuggano all’avversario e sa spostare un esercito a grande velocità nelle marce, anche se terreni piuttosto difficili. Compatibilmente alle esigenze belliche, non è precipitoso nello scegliere di dar battaglia, poiché, se può, preferisce fare ricorso alla sorpresa ed all’aggiramento. Tuttavia, i suoi attacchi, sviluppati con grande flessibilità tattica, sono rapidissimi e condotti con grande determinazione.
Il caratteristico stile di Garibaldi consisteva nel tenere, se possibile, le sue truppe in continuo movimento, in modo da sfuggire il nemico ed assieme di poter rimanere in attesa di poter cogliere il momento propizio. Quando poi si giungeva alla battaglia, possibilmente essa era data piombando sul fianco dell’avversario, od attirandolo dapprima in una direzione, con un attacco frontale, poi aggirandolo, ed in ogni caso con attacchi molto rapidi e risoluti, all’arma bianca. Nel caso bisognasse difendersi, il nizzardo opponeva di solito una difesa elastica, tenendo dei gruppi sparsi che contendevano il terreno al nemico, stancandolo e trattenendolo, per poi contrattaccare all’improvviso e con grande violenza su di un fianco.
6) Virtù e difetti del Garibaldi generale Questo grande e singolare personaggio è stato indubbiamente anche un grande comandante militare, come attesta la lunga serie di successi contro gli eserciti più svariati, sempre compiuti essendo a capo di reparti improvvisati. Oltre ai fattori e componenti sopra descritti, bisogna aggiungere fra le qualità dell'eroe nizzardo certo la sua personalità autoritaria ed assieme equilibrata, capace inoltre di grande fascino e carisma: ma si tratta d'un fatto ben noto.
Pure, certamente la sua prassi bellica aveva dei limiti. Garibaldi mancava di quel che si dice “grande strategia”.
Nel pensiero garibaldino la guerra è una serie di episodi distinti nel tempo e nello spazio, il che concedecertamente grande libertà di azione alla strategia del nizzardo, mentre l’onere del controllo del territorio resta all’avversario, il quale era così vincolato ad adoperare le sue forze in maniera dispersiva. Si riproduce in tal modo il contesto strategico caratteristico della guerriglia, capace d’imporre la propria iniziativa alle forze convenzionale nell’area territoriale in cui queste ultime dovrebbero garantire la sicurezza. Questa strategia, con la quale Garibaldi faceva guerra terrestre ragionando come un marinaio od un guerrigliero, esprimeva però nel suo disintereresse al controllo del territorio la almeno apparente incapacità d’esprimere una comprensione globale d’un intero teatro operativo, in cui si muovano diversi eserciti in una sorta di complicata partita a scacchi. Questo era un punto di forza dal punto di vista della guerrilla, ma un limite gravissimo alla guida d’un esercito convenzionale di grande dimensioni. Inoltre, l’ “eroe dei Due Mondi” era un pessimo organizzatore, tanto che un simile incarico era da egli sempre delegato ad altri: eppure, la logistica militare è importantissima.
I due limiti delle capacità militari garibaldine erano di fatto espressione d’una medesima forma mentis psicologica ed intellettiva, poiché egli mancava di quel che si dice una “mente orchestrale”. I principi ispiratori dell’arte garibaldina della guerra erano semplici e lineari, antitetici alla complessità architettonica della “grande strategia” e dell’organizzazione d’un grande esercito. Pertanto, se si dovesse paragonare Garibaldi ad altri generali, egli sarebbe certo dissimile da Napoleone o von Moltke, massimo stratega il primo, buon stratega e grande organizzatore il secondo.
Spesso ci si domanda che cosa sarebbe diventato un celebre comandante militare, se fosse vissuto in un’altra epoca: ad esempio, lo studioso napoleonico David Chandler ipotizza che il grande Còrso sarebbe stato simile, nel Novecento, a Mac Arthur.
Il nizzardo, con le sue doti tattiche, la sua grande capacità manovriera, la rapidità di decisione, la ricerca della sorpresa e la notevole aggressività, l’abitudine a guidare personalmente le truppe in prima linea, assomiglia piuttosto, in modo assai notevole, da una parte ad altri celebri Bandenführe, dall’altra ai comandanti di carri della seconda guerra mondiale, come Rommel e Guderian. Anche se è una domanda vana, è suggestivo chiedersi che cosa avrebbe saputo fare alla testa di una colonna di mezzi corazzati un uomo dalle doti tattiche, l’abilità manovriera ed il coraggio di Garibaldi.
[1] La distinzione tradizionale è fra “strategia”, che concerne gli spostamenti e le manovre compiute dall’esercito (ad esempio, aggiramento, attacco frontale, ordine obliquo, battaglia d’ala ecc.), e tattica, che concerne le disposizioni ovvero le formazioni adottate dall’esercito stesso (ad esempio, in linea, in colonna, a quadrato, in ordine sparso ecc.)
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