giovedì 27 dicembre 2007

COSI' SI DA' LA MORTE CIVILE

La mia opinione è netta. Io penso solo che Bruno Contrada, a 76 anni, arrestato il 24 dicembre 1992, malato, debba uscire dal carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. È un uomo spezzato. Da un'accusa, il "concorso esterno in associazione mafiosa", che considero un aggeggio da regimi inquisitori. Non spetta a me dire se avesse ragione la Corte d'appello di Palermo, che il 4 maggio 2001 lo aveva assolto cancellando la condanna a 10 anni di reclusione, di cui 3 allora già scontati. Se avesse ragione il Procuratore generale della Cassazione, che alla Suprema corte nel 2002 chiese (...) la conferma dell'assoluzione. Se avesse ragione invece la Cassazione, che al procuratore generale non diede retta e dispose la ripetizione dell'Appel lo. Se avesse ragione l'Appello-bis, che nel 2006 ribaltò l'assoluzione, e infine la Cassazione che nel maggio scorso confermò in maniera definitiva la condanna a 10 anni. Io sono assolutamente convinto che, dopo 15 anni di strazio pubblico e tormento dell'anima dietro le sbarre, a Bruno Contrada vada restituito non il suo onore - ché potrebbe tornare solo se vi fosse ripetizione del processo, e non mi pare proprio che tiri aria - ma almeno il diritto di avviarsi all'ultima fase della sua vita in condizioni meno ripugnantemente avvilenti del carcere militare. Il Capo dello Stato, ieri, non mi è piaciuto affatto, con la nota pilatesca mediante la quale si è lavato le mani della vicenda sostenendo che un uscita d'ur genza per motivi di salute dal penitenziario è materia di esclusiva pertinenza del giudice di sorveglianza. Sappiamo tutti, dopo 15 anni, in che cosa consista la vicenda giudiziaria Contrada. È la tesi secondo la quale un alto funzionario della Polizia di Stato prima e del Sisde poi, dopo decenni di incarichi delicati con assoluta unanimità di giudizio sulla sua indole integerrima, nella stessa Palermo in cui aveva servito benissimo lo Stato contro la mafia, sia divenuto invece una rotella di quel collegamento tra la cupola mafiosa corleonese e quel "terzo livello" politico-affaristico nella cui ricerca si è consumata l'intera parabola dell'antimafia militante. Con tanto di sconfitte cocenti, nei casi processuali che hanno spaccato la vita pubblica in due, riguardando Giulio Andreotti - "il" politico per definizione, nella Prima Repubblica - e Corrado Carnevale - "il" pre sidente di Cassazione per definizione, attento alla forma procedurale e al rispetto delle norme più e prima che a quei criteri "sostanziali" da sempre invocati da chi confonde il diritto con l'ideologia. L'ETERNO CASELLISMO Il Capo dello Stato sa come noi, che la ventina di pentiti coi quali l'accusa ha messo Contrada alla sbarra - da Buscetta a Riccobono, da Mannoia a Pennino, da Mutolo a Pirrone, da Spatola a Marchese - riferirono negli anni classiche circostanze de relato, apprese o riferite in incontri dei quali nessuna reale controprova è stato possibile acquisire, tranne fondare comunque la base accusatoria sulla quale radicare una fattispecie tanto suggestivamente gassosa come il "concorso esterno". E il concorso esterno era figlio di quell'impalpabile certezza che aveva preso a spirare con gli anni nella ali più ideologizzate dell'antimafia militante. Quella che considerava perdente e rinunciataria l'estrema prudenza di Giovanni Falcone a imbarcarsi sul treno dei "concorsi esterni politici". E che chiedeva invece conferme dalla bocca dei pentiti, della subdola alleanza mai ufficialmente stretta ma pur osser- vata tra "pezzi" di Stato e capicosca mafiosi. I procedimenti contro Contrada, Andreotti e Carnevale sono i prodotti di quella strategia. E suoi esiti sono giudizialmente falliti - due assoluzioni su tre - e storicamente controversi, visto che all'ala "caselliana" resta comunque la facoltà di ripetere ogni giorno che, per esempio, la sentenza su Andreotti non li priva della facoltà di dire che fino a un certo anno almeno non si esclude che il senatore a vita abbia potuto tenere con la mafia atteggiamenti compromissori. Ma mentre per Andreotti e Carnevale la pagina è chiusa, Bruno Contrada è rimasto nel carcere militare. A nulla gli sono valse testimonianze a favore di capi della Polizia come Parisi, e di prefetti speciali antimafia come De Francesco. I parenti dei caduti di mafia - che restano eroi dello Stato e di noi tutti ai processi testimoniarono che i loro mariti, padri e fratelli, nell'intimo delle inquietudini confessate ai congiunti, avevano loro detto o fatto capire che "non si fidavano" di Contrada. E dunque, a distanza di anni e malgrado la vita spezzata ora e ormai per sempre di Contrada, oggi sembra che un qualsiasi provvedimento che lo restituisca a un letto non di contenzione sia una specie di affronto diretto alle vittime della mafia, anzi ai loro familiari, e a coloro tra essi che della testimonianza militante hanno fatto bandiera di vita. E, talora, bandiera di lotta politica. APPELLO AL COLLE Non spetta a me neanche dare giudizi su questo, sul fatto cioè se la lotta alla mafia e per la legalità sia davvero un programma da declinare facendolo coincidere con una bandiera di partito, invece di considerarlo base comune di uno spirito repubblicano e istituzionale che da noi continua a mancare - convinto com'è ciascuno di incarnare il Bene nella lotta eterna contro il Male. Dare giudizi sulle opinioni espresse da vedove, sorelle e fratelli di commissari e giudizi uccisi dal fuoco mafioso mi ripugna, è un po' come mancare di rispetto ai caduti. Dico solo però che, proprio in ragione del fatto che una vicenda come quella di Contrada attraversa come un fil di spada tutte le contraddizioni e le tinteggiature ideologiche di una lunga fase di lotta alla mafia, e proprio perché le tensioni politiche e civili su questi temi sono ben lungi dall'esser ricomposte in uno spirito repubblicano comune e in un ordinamento giudiziario meno "creativo" del nostro, ecco perché un Capo dello Stato deve avvertire che c'è spazio per un proprio intervento. Chi altri se non lui - meglio di un ministro che incarna la politica al governo protempore - può pronunciare parole e assumere iniziative che al contempo tengano conto della vita spezzata di Contrada dopo 15 anni, e che non sembrino quell'offesa ai caduti che in nessun caso a nessuno dovrebbe essere lecito mettere in campo, se Contrada uscisse? Contrada libero e spezzato, dopo 15 anni, non può essere offesa a nessuno. Se non a chi confonde giustizia e lotta continua.

3 commenti:

Marco De Turris ha detto...

Cara Ambra,
il caso di Bruno Contrada è davvero incredibile, ma intristisce ulteriormente pensare che purtroppo non è certo il solo esempio d'errore giudiziario italiano. Il nostro paese è purtroppo diventato l'inferno degli innocenti ed il paradiso dei colpevoli

Voltaren ha detto...

Bravo Marco.
La tua frase "...l'inferno degli innocenti ed il paradiso dei colpevoli" mi è piaciuta assai.
Concordo.
Brevettala!

ambra ha detto...

Intanto l'ha regalata a noi.
Grazie4 Marco Giulio.