lunedì 31 dicembre 2007

QUESTO L'UOMO CHE CI.....S-GOVERNA


In visita da Karzai in Afghanistan  e  sulla neve insieme alla moglie


domenica 30 dicembre 2007

LA SACRA FAMIGLIA

sabato 29 dicembre 2007

IL GARIBALDI MILITARE: LA "PANTERA"

1) Giuseppe Garibaldi è stato oggetto d’una mole imponente di studi ma, sorprendentemente, uno degli aspetti meno studiati della sua figura è dato dalle caratteristiche della sua arte bellica. Eppure, Garibaldi si presenta sotto questo aspetto quale un personaggio quasi unico, o comunque rarissimo, in quanto è stato valente comandante di terra e di mare al tempo stesso, anche se certo la sua fama si lega soprattutto alla sua abilità nella guerrilla sulla terraferma.
Nel corso della sua lunghissima carriera militare, durata in pratica quarant’anni, egli affrontò e vinse eserciti brasiliani, argentini, austriaci, francesi, napoletani, prussiani, quasi sempre alla guida di volontari male armati ed equipaggiati, e solitamente inferiore numericamente al nemico. Fra tutte le innumerevoli guerre a cui partecipò, si può ricordare l’episodio, solitamente trascurato, della sua partecipazione alla guerra tra Francia e Prussia. La vittoria di Digione contro un’armata prussiana nel 1871, ottenuta da un’accolita di volontari internazionali sotto la guida di Garibaldi, fu l’unico successo “francese” nella guerra franco-prussiana del 1870-1871, in cui tutte le altre battaglie si risolsero in pesanti od anche catastrofiche sconfitte per la Francia. Il successo in questione è tanto più significativo in quanto ormai Garibaldi era fortemente invecchiato ed assai malato, ed aveva dinanzi a sé quello che era, senz’altro, il miglior esercito del mondo: pure, gli inflisse l’unica sconfitta dell’intera guerra, e conquistò all’avversario l’unica bandiera da esso perduta nel conflitto.
L’eroe nizzardo si può considerare legittimamente uno dei maggiori Bandenführer (questo appellativo gli era stato attribuito nell’Accademia militare austriaca, in cui si studiavano le sue tattiche) della storia, accanto a personaggi come von Lettow-Forbeck (il generale tedesco che, completamente isolato da ogni rinforzo ed aiuto della madrapatria, nella prima guerra mondiale riuscì a resistere per cinque anni in Tanzania a forze nemiche dieci volte superiori alle sue, arrendondosi soltanto al termine del conflitto) od il celebre generale vietnamita Giap. Come accade per i comandanti militari “convenzionali”, anche i Bandenführer si differenziano fra loro per le proprie specifiche attitudini.
2) La formazione militare di Garibaldi Garibaldi aveva avuto le sue primissime esperienze di guerra sul mare, nel corso di violenti arrembaggi (il suo primo combattimento pare sia stato contro dei pirati nel Mediterraneo orientale, in cui egli navigava come marinaio), ciò che probabilmente ha influito sulla sua predilezione per lo scontro corpo a corpo. Però, il suo autentico apprendistato marziale si svolse nell’America del Sud. L’ambiente naturale del Brasile meridionale e dell’Uruguay, estremamente vario e sovente ostile, favorì lo sviluppo in Garibaldi d’uno straordinario senso tattico.[1] Egli apprese a “leggere” un campo di battaglia con rara abilità, comprendendo i punti forti del terreno, le vie di facilitazione, le possibilità di manovra, gli ordini tattici da adoperare. Ad esempio, nella sua prima campagna in Italia Garibaldi trovò l’occasione per mettere a frutto le esperienze vissute nell’America del Sud. Su terreni che non aveva mai percorso, come le Alpi, poi l’Appennino centrale, si muove con sorprendente disinvoltura, mentre in battaglia sa cogliere l’attimo propizio con grande rapidità, dando prova, anche quando sembra guidato solo dall’aggressività, di grande senso tattico.
3) L’impiego della tattica risolutiva La distinzione tradizionale fra tattiche, a prescindere da tutte le ulteriori, moltissime differenziazioni, distingueva fra l’azione distruttiva, lenta e studiata, condotta tramite l’impiego del fuoco a distanza, e quella risolutiva, breve ed intensa, sviluppata con l’attacco all’arma bianca: Garibaldi preferì sempre questa seconda tattica. Un celebre detto del generale russo Suvarov sentenziava "La palla è cieca, la baionetta sa quello che vuole!" Le armi da fuoco, sino al 1860 circa ed oltre, erano ancora, di solito, piuttosto imprecise e con un raggio d’azione ridotto. Inoltre, un reparto schierato in modo consono alla tattica distruttiva, ovvero in linea od in ordine sparso, poteva non essere adatto a reggere ad un attacco alla baionetta portato con decisione, soprattutto se esso avveniva di sopresa e con uno schieramento asimmetrico all’avversario, ovvero con azione condotta su di un lato (“battaglia d’ala” od “ordine obliquo”) oppure direttamente di fianco, aggirando la linea.
Non si deve neppure trascurare la componente psicologica, assai importante. A una carica condotta in maniera intrepida si aveva come reazione in linea di massima la fuga dell'avversario che si sottraeva al combattimento. Su questo, anche alla luce dell'esiguo numero di feriti da baionette, sono concordi la maggior parte degli studiosi di cose militari. Il generale medico Larrey dell'esercito napoleonico aveva avuto modo d’osservare statisticamente come la maggioranza dei feriti fossero dovuti al fuoco, anziché alle armi bianche, mentre il grande storico italiano Piero Pieri aveva avuto modo di considerare come, sino alla guerra di secessione americane e a quella franco-prussiana, con il grande perfezionamento dei fucili e la nascita delle mitragliatrici, la carica alla baionetta avesse conservato un’indubbia efficacia già solo dal punto di vista morale. Dal canto suo, l'ottocentesco teorico francese Ardant du Picq aveva sentenziato “Ogni nazione europea proclama «Nessuno ha il coraggio di affrontare una nostra carica alla baionetta.» E tutti quanti hanno ragione.”
Si deve notare come la tattica risolutiva risultasse particolarmente efficace se operata di sorpresa e condotta da soldati magari poco addestrati, ma ben motivati e quindi coraggiosi. Egli aveva a disposizione volontari, soldati determinati e fortemente caratterizzati dai loro ideali e pronti a morire, però scarsamente provvisti di disciplina e soprattutto d’addestramento, quindi incapaci di manovre troppo elaborate. Come già era accaduto per gli eserciti rivoluzionari francesi, composti da una massa di reclute entusiaste contrapposte a professionisti, la scelta più semplice e naturale era quella di sfruttare l’ardore delle truppe per caricare alla baionetta, evitando il complesso manovrare del fuoco di fila. L’abilità marziale di Garibaldi sul campo di battaglia consisteva in gran parte sia nel suo carisma, che gli consentiva di spingere con energia e risolutezza i suoi soldati in cariche impetuose, sia nella grande capacità tattica e manovriera, la quale gli permetteva d’adottare gli schieramenti maggiormente adatti al tipo di terreno e di cogliere di sorpresa l’avversario sui fianchi.
4) La capacità di manovra di Garibaldi Garibaldi è noto però soprattutto per le sue straordinarie abilità di manovra, che gli consentirono, praticamente sempre, di sfuggire all’avversario qualora egli non intendesse dare battaglia. Anzitutto, egli nelle marce dava propria della sua solita, eccezionale abilità tattica, che consentiva di far procedere le truppe su terreni che altri comandanti non avrebbero mai prescelto per il cammino, e di farlo oltretutto a notevole velocità. Inoltre, Garibaldi, per meglio sfuggire al nemico, prediligeva gli spostamenti notturni. Ancora, egli era solito irradiare tutto attorno al grosso un nugolo di cavalleggeri, in modo sia da tenersi informato sui movimenti del nemico, sia occultare in tal modo i propri. Infine, ultimo ma non ultimo, il generale liguro nelle sue marce faceva spesso e volentieri ricorso a vere e proprie finte, ulteriormente tese ad ingannare e confondere i suoi nemici, recandosi dapprima in una direzione, per poi invertire bruscamente la destinazione finale.
Alcune sue campagne sono celebri proprio per la straordinaria capacità manovriera dimostrata. Si possono qui ricordare la campagna di Lombardia nel 1848, quando, con 1500 uomini, riuscì a destreggiarsi fra 6 brigate austriache (20.000 uomini circa), guidate da D’Aspre, senz’altro il migliore dei generali di Radetzky. La cosa è tanto più notevole, se si considera che la campagna si svolse interamente nel Varesotto, quindi in un teatro operativo assai ristretto per dimensioni, e che non vide nessuna sconfitta per i garibaldini, ma anzi conobbe due insuccessi per gli austriaci, battuti a Luino ed a Morazzone.
Il capolavoro strategico di Garibaldi è però, forse, la ritirata da Roma nel 1849, quando, con 4700 uomini circa, riuscì a sfuggire a cinque eserciti (francese, spagnolo, napoletano, austriaco, toscano), forti di complessivi 86.000, che cercavano di stringerlo e distruggerlo, riuscendo infine a giungere col grosso sino a S. Marino, e con un contingente più piccolo a prendere il mare. E’ degno di nota come nell’intero ciclo operativo nessuno dei suoi nemici riuscì mai a costringerlo a battaglia, anzi di solito fosse totalmente disorientato riguardo alla posizione e direzione di marcia delle truppe garibaldine. Si può portare un esempio di questo. Uscendo da Roma, che aveva ormai capitolato, l’eroe si trovò la strada sbarrata dagli eserciti napoletano e spagnolo, mentre era incalzato da una divisione di quello francese, ma, con una sola e semplice manovra, riuscì a spedire a vuoto tutte le armate nemiche. Gli spagnoli si diressero a sud-ovest, i napoletani a sud-est, i francesi a nord-est. Nel varco così creatosi, Garibaldi potè far proseguire i suoi reparti. Anche quando, poi, gli avversari erano certi d’averlo infine circondato, Garibaldi riuscì sempre, forte della sua abilità tattica e del buon uso dei suoi stratagemmi, a trovare una via di scampo.
Altro ottimo esempio della inafferrabilità degli eserciti guidati dall’eroe nizzardo è naturalmente la campagna del 1859, quanto, con una sola brigata, quella dei “Cacciatori delle Alpi”, costituita da volontari male armati ed equipaggiati, vincolò su di sé ben 7 brigate austriache, ottenendo tre netti successi (Varese, San Fermo, Bormio), respingendo il nemico a Treponti e subendo infine uno scacco parziale sullo Stelvio, dovuto in verità all’asperrima posizione più che all’abilità del nemico. Anche in questo ciclo operativo il nostro riuscì ad evitare sempre che il nemico gli imponesse battaglia, che egli diede solo quando e come volle, con la sola eccezioni del combattimento di Treponti, che però fu innescato dalla decisione del suo luogotenente Türr, in assenza del comandante in capo.
Il caso più celebre di “finta” compiuta da Garibaldi, tesa a beffare il nemico, è però durante la campagna di Sicilia del 1860, quando, dopo aver spinto il suo esercito a sud, verso Corleone, invertì la direzione di marcia entrando la notte stessa a Palermo, mentre diversi contingenti borbonici, completamente sconcertati, proseguirono nel loro cammino, giungendo sino a Corleone ed oltre, cosicché, quando gli giunse notizia dell’entrata del nizzardo nella capitale siciliana e dell’insurrezione cittadina, erano ormai giunti, nella loro caccia ad un fantasma, quasi in vista della costa meridionale siciliana.
5) Garibaldi, la “pantera” . Luciano Manara, il combattente più rappresentativo delle “cinque giornate” di Milano, che poi, alla testa d’un reparto di volontari lombardi, combattè e morì in difesa della repubblica romana nel 1849, aveva, dopo un’iniziale diffidenza verso quello che gli appariva un avventuriero stravagante a capo d’un gruppo di banditi, scoperto le doti nascoste, umane e militari, dell’eroe nizzardo, divenendone un grande estimatore. Fra l’altro, egli diede del Garibaldi militare un giudizio quanto mai felice: “è una pantera”. Questa definizione può essere assunta, cum grano salis, quale ottima sintesi delle caratteristiche garibaldine del fare la guerra. Il grande felino è un animale veloce, agile, che predilige muoversi di notte scivolando silenzioso avvolto dal suo scuro mantello, e che attacca preferibilmente di sorpresa ed ai fianchi od alle spalle. E’ astuto e paziente, poiché sa aspettare il momento propizio, eppure inequivocabilmente feroce ed aggressivo quando infine s’avventa sulla preda.
Simile descrizioni, mutatis mutandis, s’attaglia in larga misura a Garibaldi. Egli riesce quasi sempre a far sì che i suoi movimenti sfuggano all’avversario e sa spostare un esercito a grande velocità nelle marce, anche se terreni piuttosto difficili. Compatibilmente alle esigenze belliche, non è precipitoso nello scegliere di dar battaglia, poiché, se può, preferisce fare ricorso alla sorpresa ed all’aggiramento. Tuttavia, i suoi attacchi, sviluppati con grande flessibilità tattica, sono rapidissimi e condotti con grande determinazione.
Il caratteristico stile di Garibaldi consisteva nel tenere, se possibile, le sue truppe in continuo movimento, in modo da sfuggire il nemico ed assieme di poter rimanere in attesa di poter cogliere il momento propizio. Quando poi si giungeva alla battaglia, possibilmente essa era data piombando sul fianco dell’avversario, od attirandolo dapprima in una direzione, con un attacco frontale, poi aggirandolo, ed in ogni caso con attacchi molto rapidi e risoluti, all’arma bianca. Nel caso bisognasse difendersi, il nizzardo opponeva di solito una difesa elastica, tenendo dei gruppi sparsi che contendevano il terreno al nemico, stancandolo e trattenendolo, per poi contrattaccare all’improvviso e con grande violenza su di un fianco.
6) Virtù e difetti del Garibaldi generale Questo grande e singolare personaggio è stato indubbiamente anche un grande comandante militare, come attesta la lunga serie di successi contro gli eserciti più svariati, sempre compiuti essendo a capo di reparti improvvisati. Oltre ai fattori e componenti sopra descritti, bisogna aggiungere fra le qualità dell'eroe nizzardo certo la sua personalità autoritaria ed assieme equilibrata, capace inoltre di grande fascino e carisma: ma si tratta d'un fatto ben noto.
Pure, certamente la sua prassi bellica aveva dei limiti. Garibaldi mancava di quel che si dice “grande strategia”.
Nel pensiero garibaldino la guerra è una serie di episodi distinti nel tempo e nello spazio, il che concedecertamente grande libertà di azione alla strategia del nizzardo, mentre l’onere del controllo del territorio resta all’avversario, il quale era così vincolato ad adoperare le sue forze in maniera dispersiva. Si riproduce in tal modo il contesto strategico caratteristico della guerriglia, capace d’imporre la propria iniziativa alle forze convenzionale nell’area territoriale in cui queste ultime dovrebbero garantire la sicurezza. Questa strategia, con la quale Garibaldi faceva guerra terrestre ragionando come un marinaio od un guerrigliero, esprimeva però nel suo disintereresse al controllo del territorio la almeno apparente incapacità d’esprimere una comprensione globale d’un intero teatro operativo, in cui si muovano diversi eserciti in una sorta di complicata partita a scacchi. Questo era un punto di forza dal punto di vista della guerrilla, ma un limite gravissimo alla guida d’un esercito convenzionale di grande dimensioni. Inoltre, l’ “eroe dei Due Mondi” era un pessimo organizzatore, tanto che un simile incarico era da egli sempre delegato ad altri: eppure, la logistica militare è importantissima.
I due limiti delle capacità militari garibaldine erano di fatto espressione d’una medesima forma mentis psicologica ed intellettiva, poiché egli mancava di quel che si dice una “mente orchestrale”. I principi ispiratori dell’arte garibaldina della guerra erano semplici e lineari, antitetici alla complessità architettonica della “grande strategia” e dell’organizzazione d’un grande esercito. Pertanto, se si dovesse paragonare Garibaldi ad altri generali, egli sarebbe certo dissimile da Napoleone o von Moltke, massimo stratega il primo, buon stratega e grande organizzatore il secondo.
Spesso ci si domanda che cosa sarebbe diventato un celebre comandante militare, se fosse vissuto in un’altra epoca: ad esempio, lo studioso napoleonico David Chandler ipotizza che il grande Còrso sarebbe stato simile, nel Novecento, a Mac Arthur.
Il nizzardo, con le sue doti tattiche, la sua grande capacità manovriera, la rapidità di decisione, la ricerca della sorpresa e la notevole aggressività, l’abitudine a guidare personalmente le truppe in prima linea, assomiglia piuttosto, in modo assai notevole, da una parte ad altri celebri Bandenführe, dall’altra ai comandanti di carri della seconda guerra mondiale, come Rommel e Guderian. Anche se è una domanda vana, è suggestivo chiedersi che cosa avrebbe saputo fare alla testa di una colonna di mezzi corazzati un uomo dalle doti tattiche, l’abilità manovriera ed il coraggio di Garibaldi.
[1] La distinzione tradizionale è fra “strategia”, che concerne gli spostamenti e le manovre compiute dall’esercito (ad esempio, aggiramento, attacco frontale, ordine obliquo, battaglia d’ala ecc.), e tattica, che concerne le disposizioni ovvero le formazioni adottate dall’esercito stesso (ad esempio, in linea, in colonna, a quadrato, in ordine sparso ecc.)

DA UN GIORNALISTA ESULE DELLA PATRIA

Il giorno più lungo dei processi a Bruno Contrada, che sono durati 15 anni, fu il 13 luglio 1995. Il più famoso poliziotto di Palermo era stato arrestato tre anni prima, alla vigilia di Natale del '92, e per tre anni era rimasto sepolto vivo in un carcere militare riaperto appositamente per lui e solo per lui. Il processo era finalmente iniziato e Contrada era ricomparso dopo tre anni dinanzi alle telecamere nell’aula del tribunale e sembrava il suo stesso fantasma. Fiaccato crudelmente nel fisico, la bocca cascante, imbiancati i capelli che lasciava cadere ai due lati del viso, infiacchita dalla magrezza la mascella che era stata forte e quadrata, lo sbirro, il rambo, il finto giovanotto così attento a coltivare il physique du role, appariva trasformato in un vecchio, in uno spettro.
Quel giorno il pm si è alzato a sorpresa e ha chiesto al tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo «pentito», spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa da dove, e dopo che ad accusare Contrada ne erano già sfilati sei o sette. È stato un attimo e Contrada è crollato. Aveva fatto per alzarsi, come per protestare, e subito si è accasciato sulla sedia, pallido e sudato, le labbra nere e serrate, le membra scosse da un tremito nervoso. Il presidente ha gridato: «L’udienza è sospesa». Il pm è rimasto immobile e interdetto. Un carabiniere è accorso a sorreggere Contrada prima che scivolasse sul pavimento e cercava di rianimarlo bocca a bocca. Accorsero gli altri, lo sollevarono di peso, lo stesero sulla barella dell’ambulanza, corsero all’ospedale, lo scaricarono al reparto di rianimazione, lo infilarono in un letto e gli praticarono le cure di emergenza per tentare di rianimarlo. Appena ha riaperto gli occhi, Contrada ha gridato: «Vogliono annientarmi». Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, ha strappato dalle mani dell’infermiere la siringa e ha tentato di infilarsela nella gola...

VELENI DI PALERMO
È stato a questo punto che una donna piccola e minuta che entrava e usciva, agitata e tremante, dalla cameretta della rianimazione, ha urlato. C’erano le telecamere accese e l’urlo si è sentito in diretta nei telegiornali della sera: «Caino, sia maledetto Caino... ». La signora Adriana, insegnante di lettere e latino in pensione e moglie di Bruno Contrada, ha spiegato con chi ce l’aveva: «Caino è un collega di mio marito. È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera. È qualcuno che a Roma ha capito che, mentre Bruno lottava qui a Palermo giorno dopo giorno contro la mafia, rischiando la vita, la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera. Bastava usare la Sicilia e l’antimafia come sgabello e salirci sopra... ma doveva eliminare Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli, e questo Caino l’ha fatto perché era in grado di sfornare contro Bruno un “pentito” al giorno e ancora lo fa».
Sono passati 12 anni da quel giorno (15 da quando Contrada è stato arrestato) e sono stati celebrati tanti processi: quello di primo grado, conclusosi con la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e quello d’appello, che invece lo ha assolto con formula piena; la Cassazione che ha cassato l’assoluzione e lo ha rinviato a processo e il secondo processo d’appello che lo ha ri-condannato a 10 anni; la Cassazione che questa seconda volta ha approvato, e sono sfilati tanti «pentiti» ma, tra un appello e l’altro, tanti altri se ne sono aggiunti a quello sfornato a sorpresa quel giorno di luglio di 12 anni fa. Sono state riempite migliaia, centinaia di migliaia di pagine di verbali, ma niente più ha spiegato meglio origini e ragioni di questo processo-fatwa a un uomo che ha servito lo Stato per cinquant’anni lottando contro la mafia e rischiando ogni giorno la pelle, come quell’urlo di donna al capezzale del marito che cercava di uccidersi: «Caino, maledetto Caino... ».

PENTITI VERI E PENTITI FALSI
Lo stesso Contrada lo ha ribadito, dieci anni dopo, nell’ultima intervista rilasciata prima dell’ultima sentenza: «È stata la Dia, la direzione antimafia che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dirette dipendenze delle procure, che non gradiva che io mi fossi impegnato a creare una branca del Sisde, il servizio segreto civile, dedicata specificamente a combattere la mafia. È la Dia che si è specializzata nella gestione dei cosiddetti “pentiti” e che ha sfornato i “falsi pentiti” che sono serviti ad accusarmi». Perché i processi a Contrada sono basati esclusivamente sulle accuse dei «pentiti», e spesso si tratta di mafiosi e assassini a cui è stato proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli dinanzi al giudice e a farli condannare, e che si sono vendicati, più o meno sollecitati e incoraggiati, ri-guadagnando la libertà e con lo stipendio dello Stato.
E c’è la testimonianza dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, che così ha deposto al processo: «Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo e ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafiosa, di cui è una memoria storica eccezionale, per questo ha ricevuto 33 elogi dall’amministrazione e dalla magistratura». Ed è proprio il capo della polizia, forse il più bravo e il più famoso, che accusa: «Bisogna far luce su eventuali interessi ed eventuali corvi che hanno ispirato ai pentiti le dichiarazioni contro Contrada. È quanto meno strano che soltanto dieci anni dopo vengono rivelati fatti di cui questi “pentiti” sarebbero stati a conoscenza da tanto tempo, a meno che non li abbiano appresi dopo e da chi ha voluto ispirarli. Perché questi “pentiti” parlano solo ora? Chi li manovra? Io vedo un pericolo per la democrazia».
CAMPAGNA DENIGRATORIA
E così depone il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo Alto commissario antimafia e poi direttore del Sisde: «C’è stato uno specioso malanimo contro Contrada, quando è stato il mio capo di Gabinetto, un malanimo agitato da certe lobby e certe cordate del ministero dell’Interno». E un altro prefetto, Angelo Finocchiaro, pure lui direttore del Sisde: «Contro Contrada e il Sisde ci sono stati attacchi ripetuti e proditori ed è stata organizzata una campagna denigratoria». E così hanno deposto altri capi della polizia, altri prefetti, altri ufficiali dei carabinieri, almeno tre dozzine di servitori dello Stato e uomini delle istituzioni. E l’ex presidente della Repubblica Cossiga ha addirittura chiesto la soppressione della Dia, accusandola di aver adottato «i metodi propri di un servizio segreto di polizia politica, sul modello della Gestapo nazista, dell’Ovra fascista e del Kgb sovietico».

ACCUSE SENZA PROVE
Come è stato possibile ai giudici non credere ai più autorevoli rappresentanti delle istituzioni della Repubblica e credere invece alle accuse senza prove né riscontri dei cosiddetti «pentiti», mafiosi, ladri, estortori e assassini? E molti di questi sono stati poi incriminati per calunnia, uno è stato espulso dal programma di protezione perché colto in flagrante mendacio e in riciclaggio di denaro sporco e traffico di stupefacenti, un altro ancora ha ritrattato tutte le accuse al processo d’appello e ha implorato i giudici di restituire l’onore a Contrada: di costui gli avvocati hanno scoperto, sempre nel processo d’appello, che era stato nascosto il verbale di un primo interrogatorio, in cui dichiarava di non sapere niente di Contrada. Alla contestazione il pm ha replicato che non aveva esibito quel verbale appunto perché di Contrada non si diceva niente: perché il pm avrebbe dovuto esibire qualcosa a difesa dell’imputato? Niente ancora a confronto del fatto che a presiedere la Corte d’appello che, la seconda volta, ha condannato Contrada è stato chiamato proprio il giudice che tre anni prima, quale componente del Tribunale della libertà, si era rifiutato di concedergli la libertà dalla carcerazione preventiva, dopo già due anni trascorsi in isolamento nel carcere militare: chi meglio di lui, che si era espresso così favorevolmente all’imputato, era più adatto a giudicarlo e a condannarlo?
Il fatto è che Bruno Contrada non è stato soltanto vittima delle faide interne ai corpi dello Stato, ma è stato il sacrificio propiziatorio al teorema del «terzo livello» e della connivenza delle istituzioni e del potere politico con la mafia. Inizialmente il processo che hanno tentato di fare a Contrada e che ancora echeggia in certe dichiarazioni delle vedove dell’antimafia che si oppongono alla concessione della grazia, doveva essere il processo per la strage di via D’Amelio: Contrada doveva essere l’agente dei servizi segreti «deviati» che per conto del potere politico (leggi Andreotti, ma indagheranno pure su Dell’Utri e Berlusconi come «mandanti delle stragi») avrebbe fatto assassinare dalla mafia il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, dopo aver tentato di assassinare Giovanni Falcone con il tritolo sugli scogli dell’Addaura. L’hanno scritto e fatto scrivere in centinaia di articoli e in decine di libri, l’hanno messo persino in un film: Contrada che si aggira sul luogo della strage pochi secondi dopo l’esplosione del tritolo. Non sono riusciti nell’intento, non foss’altro perché Contrada in quegli istanti era in barca con dieci testimoni molte miglia al largo di Palermo e hanno ripiegato sullo scivoloso «concorso esterno», buono per tutti gli usi e facile a sostenersi con la volonterosa collaborazione dei soliti «pentiti». Ora temono la revisione del processo, che può smascherare i «pentiti» e scoprire gli autori della trama. E temono anche la grazia: meglio che Contrada muoia in carcere e al più presto.


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CRONACA SU DI UNA MORTE CIVILE

Santa Maria Capua Vetere - "La mia dignità di uomo e di servitore dello Stato vale più della mia libertà e non permetto a nessuno di distruggerla a costo della mia stessa vita". Sono le parole di Bruno Contrada, riportate dal generale di brigata Giancarlo Tirri, marito della sorella Anna Contrada, che è stato oggi davanti al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere non potendo incontrare il congiunto poiché la famiglia aveva esaurito i colloqui mensili stabiliti in base ai regolamenti del penitenziario militare. Tirri ha detto: "Questo altissimo senso di dignità e la ferma volontà di difendere il proprio onore dalle accuse infami che gli sono state rivolte stanno consentendo a mio cognato di rimanere ancora in vita, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui versa, inesorabilmente aggravate dalla stato di detenzione".

"Bruno Contrada - ha aggiunto - da quando è in carcere, oltre alle preoccupanti patologie da cui era già affetto, ha subito per ben due volte una lesione ischemica nel territorio dell’arteria cerebrale posteriore che ha provocato altresì una ipertensione della guaina del nervo ottico di sinistra. Ciò gli impedisce di potersi dedicare alla lettura, l’unico sollievo che poteva servirgli a lenire l’enorme sofferenza interiore, con evidenti ripercussioni anche sul suo morale letteralmente a pezzi".



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giovedì 27 dicembre 2007

COSI' SI DA' LA MORTE CIVILE

La mia opinione è netta. Io penso solo che Bruno Contrada, a 76 anni, arrestato il 24 dicembre 1992, malato, debba uscire dal carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. È un uomo spezzato. Da un'accusa, il "concorso esterno in associazione mafiosa", che considero un aggeggio da regimi inquisitori. Non spetta a me dire se avesse ragione la Corte d'appello di Palermo, che il 4 maggio 2001 lo aveva assolto cancellando la condanna a 10 anni di reclusione, di cui 3 allora già scontati. Se avesse ragione il Procuratore generale della Cassazione, che alla Suprema corte nel 2002 chiese (...) la conferma dell'assoluzione. Se avesse ragione invece la Cassazione, che al procuratore generale non diede retta e dispose la ripetizione dell'Appel lo. Se avesse ragione l'Appello-bis, che nel 2006 ribaltò l'assoluzione, e infine la Cassazione che nel maggio scorso confermò in maniera definitiva la condanna a 10 anni. Io sono assolutamente convinto che, dopo 15 anni di strazio pubblico e tormento dell'anima dietro le sbarre, a Bruno Contrada vada restituito non il suo onore - ché potrebbe tornare solo se vi fosse ripetizione del processo, e non mi pare proprio che tiri aria - ma almeno il diritto di avviarsi all'ultima fase della sua vita in condizioni meno ripugnantemente avvilenti del carcere militare. Il Capo dello Stato, ieri, non mi è piaciuto affatto, con la nota pilatesca mediante la quale si è lavato le mani della vicenda sostenendo che un uscita d'ur genza per motivi di salute dal penitenziario è materia di esclusiva pertinenza del giudice di sorveglianza. Sappiamo tutti, dopo 15 anni, in che cosa consista la vicenda giudiziaria Contrada. È la tesi secondo la quale un alto funzionario della Polizia di Stato prima e del Sisde poi, dopo decenni di incarichi delicati con assoluta unanimità di giudizio sulla sua indole integerrima, nella stessa Palermo in cui aveva servito benissimo lo Stato contro la mafia, sia divenuto invece una rotella di quel collegamento tra la cupola mafiosa corleonese e quel "terzo livello" politico-affaristico nella cui ricerca si è consumata l'intera parabola dell'antimafia militante. Con tanto di sconfitte cocenti, nei casi processuali che hanno spaccato la vita pubblica in due, riguardando Giulio Andreotti - "il" politico per definizione, nella Prima Repubblica - e Corrado Carnevale - "il" pre sidente di Cassazione per definizione, attento alla forma procedurale e al rispetto delle norme più e prima che a quei criteri "sostanziali" da sempre invocati da chi confonde il diritto con l'ideologia. L'ETERNO CASELLISMO Il Capo dello Stato sa come noi, che la ventina di pentiti coi quali l'accusa ha messo Contrada alla sbarra - da Buscetta a Riccobono, da Mannoia a Pennino, da Mutolo a Pirrone, da Spatola a Marchese - riferirono negli anni classiche circostanze de relato, apprese o riferite in incontri dei quali nessuna reale controprova è stato possibile acquisire, tranne fondare comunque la base accusatoria sulla quale radicare una fattispecie tanto suggestivamente gassosa come il "concorso esterno". E il concorso esterno era figlio di quell'impalpabile certezza che aveva preso a spirare con gli anni nella ali più ideologizzate dell'antimafia militante. Quella che considerava perdente e rinunciataria l'estrema prudenza di Giovanni Falcone a imbarcarsi sul treno dei "concorsi esterni politici". E che chiedeva invece conferme dalla bocca dei pentiti, della subdola alleanza mai ufficialmente stretta ma pur osser- vata tra "pezzi" di Stato e capicosca mafiosi. I procedimenti contro Contrada, Andreotti e Carnevale sono i prodotti di quella strategia. E suoi esiti sono giudizialmente falliti - due assoluzioni su tre - e storicamente controversi, visto che all'ala "caselliana" resta comunque la facoltà di ripetere ogni giorno che, per esempio, la sentenza su Andreotti non li priva della facoltà di dire che fino a un certo anno almeno non si esclude che il senatore a vita abbia potuto tenere con la mafia atteggiamenti compromissori. Ma mentre per Andreotti e Carnevale la pagina è chiusa, Bruno Contrada è rimasto nel carcere militare. A nulla gli sono valse testimonianze a favore di capi della Polizia come Parisi, e di prefetti speciali antimafia come De Francesco. I parenti dei caduti di mafia - che restano eroi dello Stato e di noi tutti ai processi testimoniarono che i loro mariti, padri e fratelli, nell'intimo delle inquietudini confessate ai congiunti, avevano loro detto o fatto capire che "non si fidavano" di Contrada. E dunque, a distanza di anni e malgrado la vita spezzata ora e ormai per sempre di Contrada, oggi sembra che un qualsiasi provvedimento che lo restituisca a un letto non di contenzione sia una specie di affronto diretto alle vittime della mafia, anzi ai loro familiari, e a coloro tra essi che della testimonianza militante hanno fatto bandiera di vita. E, talora, bandiera di lotta politica. APPELLO AL COLLE Non spetta a me neanche dare giudizi su questo, sul fatto cioè se la lotta alla mafia e per la legalità sia davvero un programma da declinare facendolo coincidere con una bandiera di partito, invece di considerarlo base comune di uno spirito repubblicano e istituzionale che da noi continua a mancare - convinto com'è ciascuno di incarnare il Bene nella lotta eterna contro il Male. Dare giudizi sulle opinioni espresse da vedove, sorelle e fratelli di commissari e giudizi uccisi dal fuoco mafioso mi ripugna, è un po' come mancare di rispetto ai caduti. Dico solo però che, proprio in ragione del fatto che una vicenda come quella di Contrada attraversa come un fil di spada tutte le contraddizioni e le tinteggiature ideologiche di una lunga fase di lotta alla mafia, e proprio perché le tensioni politiche e civili su questi temi sono ben lungi dall'esser ricomposte in uno spirito repubblicano comune e in un ordinamento giudiziario meno "creativo" del nostro, ecco perché un Capo dello Stato deve avvertire che c'è spazio per un proprio intervento. Chi altri se non lui - meglio di un ministro che incarna la politica al governo protempore - può pronunciare parole e assumere iniziative che al contempo tengano conto della vita spezzata di Contrada dopo 15 anni, e che non sembrino quell'offesa ai caduti che in nessun caso a nessuno dovrebbe essere lecito mettere in campo, se Contrada uscisse? Contrada libero e spezzato, dopo 15 anni, non può essere offesa a nessuno. Se non a chi confonde giustizia e lotta continua.

martedì 25 dicembre 2007

lunedì 24 dicembre 2007

BEATO ANGELICO - IN ATTESA

domenica 23 dicembre 2007

NORBERTO BOBBIO: UN INTELLETTUALE LAICO CONTRO L'ABORTO

Parlando d’aborto, si deve evitare in modo d’assoluto di presentare l’opposizione al medesimo quale una posizione di parte, che sarebbe legata all’appartenenza, vera o presunta, dei suoi avversari al cattolicesimo. In realtà, sono esistiti ed esistono anti-abortisti d’altre religioni od affatto laici, così come esistono sostenitori dell’aborto che si dicono cattolici.
In realtà, la questione dell’aborto può e deve essere affrontata e risolta in termini meramente razionali ed obiettivi, lasciando da parte ogni posizione che può essere considerata soggettiva e personale.
Giudicare ingiusto quest’atto si fonda su motivi d’ordine etico non diversi da quelli per i quali si condanna in linea di principio l’omicidio d’un essere umano, indifferentemente dalla sua età, capacità intellettiva, cultura, ricchezza, sesso, etnia ecc.
Bobbio, detto il “papa laico” per la sua autorevolezza nell’ambiente dei laici italiani, così spiegava nel 1981, alla vigilia del referendum sull’aborto, le ragioni della sua contrarietà al medesimo.


Bobbio: ecco perché sono contro l’aborto di Giulio Nascimbeni
G.L. Alla vigilia del referendum sull'aborto, il «Corriere della sera» dell'8 maggio 1981 pubblicò un'intervista di Giulio Nascimbeni a Norberto Bobbio. Il filosofo, tra i massimi esponenti della cultura laica del dopoguerra, spiega così le sue ragioni a favore della vita.
Sono con Norberto Bobbio nel suo studio di Torino, fra scaffali gremiti e tavoli coperti da giornali e riviste. «Non parlo volentieri di questo problema dell'aborto» mi dice. Gli chiedo perché. «È un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri».
G.L. Quali diritti e quali doveri sono in conflitto?
Bobbio. «Innanzitutto il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. È lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione dell'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto».
G.L. Lei parlava di diritti, non di un solo diritto
Bobbio.«C'è anche il diritto della donna a non essere sacrificata nella cura dei figli che non vuole. E c'è un terzo diritto: quello della società. Il diritto della società in generale e anche delle società particolari a non essere superpopolate, e quindi a esercitare il controllo delle nascite».
G.L. Non le sembra che, così posto, il conflitto fra questi diritti si presenti pressoché insanabile?
Bobbio. «È vero, sono diritti incompatibili. E quando ci si trova di fronte a diritti incompatibili, la scelta è sempre dolorosa».
G.L. Ma bisogna decidere.
Bobbio. «Ho parlato di tre diritti: il primo, quello del concepito, è fondamentale; gli altri, quello della donna e quello della società, sono derivati. Inoltre, e questo per me è il punto centrale, il diritto della donna e quello della società, che vengono di solito addotti per giustificare l'aborto, possono essere soddisfatti senza ricorrere all'aborto, cioè evitando il concepimento. Una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere».
G.L. Quali critiche muove alla legge 194?
Bobbio.«Al primo articolo è detto che lo Stato "garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile". Secondo me, questo diritto ha ragione d'essere soltanto se si afferma e si accetta il dovere di un rapporto sessuale cosciente e responsabile, cioè tra persone consapevoli delle conseguenze del loro atto e pronte ad assumersi gli obblighi che ne derivano. Rinviare la soluzione a concepimento avvenuto, cioè quando le conseguenze che si potevano evitare non sono state evitate, questo mi pare non andare al fondo del problema. Tanto è vero che, nello stesso primo articolo della 194, è scritto subito dopo che l'interruzione della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite».
G.L. E se, abrogando la legge 194, si tornasse ai «cucchiai d'oro», alle «mammane», ai drammi e alle ingiustizie dell'aborto clandestino? L'aborto è una triste realtà, non si può negarla.
Bobbio. «Il fatto che l'aborto sia diffuso, è un argomento debolissimo dal punto di vista giuridico e morale. E mi stupisce che venga addotto con tanta frequenza. Gli uomini sono come sono: ma la morale e il diritto esistono per questo. Il furto d'auto, ad esempio, è diffuso, quasi impunito: ma questo legittima il furto? Si può al massimo sostenere che siccome l'aborto è diffuso e incontrollabile, lo Stato lo tollera e cerca di regolarlo per limitarne la dannosità. Da questo punto di vista, se la legge 194 fosse bene applicata, potrebbe essere accolta come una legge che risolve un problema umanamente e socialmente rilevante».
G.L. Esistono azioni moralmente illecite ma che non sono considerate illegittime?
Bobbio. «Certamente. Cito il rapporto sessuale nelle sue varie forme, il tradimento tra coniugi, la stessa prostituzione. Mi consenta di ricordare il Saggio sulla libertà di Stuart Mill. Sono parole scritte centotrent'anni fa, ma attualissime. Il diritto, secondo Stuart Mill, si deve preoccupare delle azioni che recano danno alla società : "il bene dell'individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente"».
G.L. Questo può valere anche nel caso dell'aborto?
Bobbio. «Dice ancora Stuart Mill: "Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano". Adesso le femministe dicono: "Il corpo è mio e lo gestisco io". Sembrerebbe una perfetta applicazione di questo principio. Io, invece, dico che è aberrante farvi rientrare l'aborto. L'individuo è uno, singolo. Nel caso dell'aborto c'è un "altro" nel corpo della donna. Il suicida dispone della sua singola vita. Con l'aborto si dispone di una vita altrui».
G.L. Tutta la sua lunga attività, professor Bobbio, i suoi libri, il suo insegnamento sono la testimonianza di uno spirito fermamente laico. Immagina che ci sarà sorpresa nel mondo laico per queste sue dichiarazioni?
Bobbio. «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».

I ragionamenti di Norberto Bobbio, insigne pensatore e giurista dell’intellettualità laica italiana, definito il “papa laico”, caposcuola della corrente detta del “gobettismo”, in quanto rifacentesi agli insegnamenti di Piero Gobetti ed alla sua dottrina liberale, spiccano per la loro logicità ed equilibrio, mostrando con semplicità e linearità consequenziale come l’aborto risulti contrario ai principi di giustizia a cui si rifà uno stato laico e liberale.
Il limpido argomentare bobbiano spiega altresì come la legittimazione dell’aborto considerato quale “male necessario” sia in realtà inaccettabile rispetto alle esigenze poste dalla morale naturale, così come lo sarebbe depenalizzare ad esempio i furti d’automobili.
Pertanto, anche secondo questo laicissimo giurista e filosofo, l’aborto consiste nell’uccisione d’una vita altrui, pertanto esso è un atto intrisecamente ingiusto, poiché il diritto alla vita è primario e fondamentale rispetto ad ogni altro diritto (anche perché è il requisito imprescindibile per il loro esercizio), tanto più che questi possono essere facilmente esercitati evitando il concepimento.
E’ inammissibile ammettere l’aborto, in quanto violazione di ciò che anche Bobbio considera “imperativo categorico” , il principio di non uccidere.

QUANDO UN SOLDATO PARLA DA HERAT.........

battistad


L'Alitalia, Air France e Prodi....
oggi l'Alitalia è il problema. Ieri le intecettazioni domani, la trippa per il gatto... risolvere un problema no è...

Buon Natale

(estratto da LS)

sabato 22 dicembre 2007

DEDICATO AI NOSTRI SOLDATI IN MISSIONE

Che la strada si alzi per venirti incontro,
che il vento soffi sempre alle tue spalle,
che il sole t’illumini e ti riscaldi
e la pioggia cada piano sui tuoi campi
fino al momento in cui ci ritroveremo,
e che Dio ti tenga lieve sul palmo della sua mano.
(Augurio irlandese)

venerdì 21 dicembre 2007

mercoledì 19 dicembre 2007

UN FETO DI 8 SETTIMANE

UNA MORATORIA CONTRO L'ABORTO

Dal momento che si è firmata una moratoria sulla pena di morte comminata a persone riconosciute colpevoli di crimini in seguito a regolare processo, perché non procedere ora, coerentemente, ad una moratoria della pena di morte chiamata aborto? Questo è quanto oggi (19 dicembre 2007) si domanda, giustamente, Giuliano Ferrara su Il Foglio, ma la diversità d'atteggiamento in proposito è stata osservata già in passato da molti, ed appare comunque del tutto incontestabile.
Ad esempio, l’associazione Amnesty International è da sempre contraria alla pena capitale, ma non ha mia speso una parola contro l’aborto. Eppure, le esecuzioni capitali in un anno sono decine di migliaia, mentre gli abortiti sono milioni. Si calcola che le vite soppresse per via abortiva superino il miliardo. Soltanto in Italia, sono state più che il doppio dei caduti delle due guerre mondiali messi assieme.
L’atteggiamento di moltissimi, a cominciare dai cosiddetti “radicali”, è schizofrenico, se non ipocrita. tentare di difendere la vita del reo, del criminale, ignorando completamente i diritti dell'essere più indifeso e innocente che è il concepito. E’ innegabile constatatare che l'aborto non è affatto «una scelta privata della persona», perché coinvolge tragicamente la vita di un soggetto di diritto del tutto indifeso. L'aborto è la soppressione cruenta ed omicida, l'uccisione ovvero l’assassinio, di un individuo umano che non è ingiusto aggressore, non è in condizioni di nuocere, non porta su di sé nessuna responsabilità giuridica o morale. Tale uccisione è oltretutto perpetrata senza che alla vittima sia consentito di difendersi.
Se suscita un moto spontaneo di commozione la visione delle immagini delle ultime ore di un condannato alla sedia elettrica, almeno uguale dovrebbe essere l'indignazione di Amnesty International di fronte alle immagini del «Grido silenzioso», il documentario che mostra gli ultimi istanti di vita di un feto che viene dilaniato dagli strumenti del medico abortista. La distinzione tra «uomini già nati e non ancora nati» è un clamoroso esempio di discriminazione tra persone, che sorprende ascoltare sulla bocca di chi sostiene di battersi contro ogni razzismo. Esiste poi un'altra sconcertante contraddizione nel variegato movimento contrario alla pena capitale. Al suo interno, molti ritengono che l'aborto legale sia lecito perché voluto dalla maggioranza della popolazione. Ma se questi sono i parametri per definire una legge giusta, allora si dovrebbe riconoscere che negli USA, ed in molti altri paesi del pianeta, la maggioranza della popolazione è favorevole alla pena capitale.Si può portare un’ultima considerazione. Qui in Italia il declino economico è legato anche a quello demografico. Un paese sempre più vecchio non può pensare di competere con altri di gran lunga più giovani, attivi e dinamici, né l’immigrazione può realmente compensare i vuoti demografici. A ciò, si può ancora aggiungere come, se non si avrà un rapido e deciso aumento della natalità, il popolo italiano stesso sarà condannato all’estinzione in tempi lunghi, ed in tempi brevi alla conquista da parte di etnie straniere, anzitutto islamiche ed africane. E’ appena il caso di ricordare come la popolazione italiana abbia smesso di crescere dal momento in cui l’aborto è divenuto legale, sopprimendo fisicamente oltre cinque milioni di nascituri. Ciò rappresenta un autentico genocidio.

lunedì 17 dicembre 2007

GLI ITALIANI NON SONO CODARDI

Nell’immaginario collettivo d’alcuni popoli stranieri gli italiani sarebbero per natura imbelli, vili, e traditori. Già l’Inghilterra del ‘500 aveva un’idea simile dell’italiano: un individuo raffinato, colto, ma sleale, codardo ed ipocrita, che tiene lo stiletto nascosto fra gli sbuffi della sfarzosa camicia di seta.
In realtà, già soltanto a considerare i comandanti militari d’Italia nei secoli XVI-XVIII risulta con chiarezza come la nostra patria abbia dato all’Europa tanti geni della guerra quanti nessun’altra.

Comandanti al servizio degli Asburgo
Enea Silvio Caprara (comandante supremo degli imperiali nella guerra contro i turchi del 1693)Il conte di Collalto (comandò a lungo gli imperiali; nel 1630 fu fatto presidente dell'Hofkriegsrat, ministro della Guerra e capo di Stato Maggiore dell'Impero asburgico; tenne la carica per un lungo periodo nella guerra dei trent'anni);Il conte di Colloredo (comandante in capo degli imperiali in numerose guerre; fu anche lui Presidente del Consiglio di Guerra dell'Impero)Torquato de' Conti (appartenente ad una stirpe ancestrale che si ricollegava alle famiglie senatoriali dell'antica Roma, si arruola nelle truppe imperiali; vince tartari, ungheresi, danesi, svedesi e fu certo la figura più significativa di questi condottieri italiani e romani in particolare);
Mattia Galasso (fedele all'Impero ed agli Asburgo, come la gran parte degli italiani, per i quali era l'unica fede di soldati, divenne comandante supremo di tutte le forze imperiali; era anche un valoroso guerriero e per la sua forza fisica un grande trascinatore di uomini);
Ascanio Spinelli (comandante degli imperiali nella battaglia della Montagna Bianca, presso Praga, prima fase della guerra dei Trent'anni.)Antonio Odescalchi (dopo numerose guerre al servizio dell'Impero, fu addirittura designato a divenire re di Norvegia; non accettò la designazione per non abiurare il cattolicesimo);Federico Veterani (raggiunse il grado di Feldmaresciallo dell'Impero).
Gerardo Gambacorta di Limata (vincitore della battaglia di Nordlingen contro gli svedesi ed i protestanti tedeschi. Prese prigioniero lo Horn, generale in capo degli svedesi e ferì il famoso generale tedesco Bernardo di Weimar.)Ottavio Piccolomini (comandante supremo dell'esercito asburgico. Risollevò politicamente l'Impero, servì in tutte le guerre dei trent'anni, dall'Ungheria alla Boemia, alla Pomerania, al Reno. Era generale supremo dell'Impero alla pace di Westfalia)
Antonio Isolani (combattente imperiale nelle guerre turche. Era di famiglia veneziana; fu nella sua epoca uno dei migliori generali dell'Impero)Raimondo Montecuccoli (Inventore della artiglieria ippotrainata, vincitore della grande battaglia del San Gottardo sulla Raab contro i turchi, divenne comandante supremo degli imperiali. Stratega e dominatore della grande guerra nordica);Eugenio di Savoia Accanto a Federico II di Prussia, il più grande militare dell’era moderna anteriore a Napoleone, che vide in lui il suo vero maestro e lo pose accanto ad Alessandro, Annibale e Cesare nel ristretto pantheon dei geni di guerra della storia. Massimo generale degli Asburgo, autentico fondatore dell’impero asburgico, inflisse colpi decisivi ai turchi, da cui Istanbul mai più si riprese, contribuendo in modo determinante al declino degli Ottomani.

Comandanti al servizio della Spagna
Fabrizio Colonna (diverse volte a capo d’eserciti spagnoli, autentico vincitore della battaglia di Cerignola, che segnava l’inizio d’una nuova tattica di guerra)
Emanuele Filiberto di Savoia (vincitore della battaglia di S. Quentino contro i francesi);Alessandro Farnese (comandante degli spagnoli nelle Fiandre,vincitore di Enrico IV di Borbone-Navarra)
Ambrogio Spinola (altro condottiero della Spagna. celebre per la conquista di Breda. Vincitore di Maurizio d’Orange)
Comandanti al servizio della Francia, od alleati
I marchesi di Saluzzo (diverse volte al comando degli eserciti francesi nel '500);Alfonso D'Este (il maggiore tecnico e studioso dell'artiglieria di tutto il '500, decisivo nel determinare la vittoria francese nella grande battaglia di Ravenna);Giangiacomo Trivulzio (gran maresciallo di Francia, autentico vincitore della battaglia d’Agnadello)
Bartolomedo d’Alviano (a lungo comandante degli eserciti veneziani, fra i maggiori generali del primo Cinquecento, decise la durissima battaglia di Melegnano tra francesi e svizzeri, rovesciando le sorti dello scontro che ormai vedevano il prevalere degli elvetici)

Ammiragli
Andrea Doria (grande ammiraglio, uno dei condottieri più valorosi del '500, profondamente legato alla Spagna);Agostino Barbarigo (il comandante dei veneziani a Lepanto, morto in combattimento);
Sebastiano Venier (il grande stratega della battaglia di Lepanto);
Si può dire con piena certezza che nessuna altra nazione europea nei secoli dell’era moderna abbia prodotto tanti grandi comandanti quanto l’Italia. A ciò si può aggiungere che i migliori generali della Spagna (fra Cinquecento e metà Seicento massima potenza europea, ed una delle principali al mondo) e d’Asburgo sono stati quasi tutti italiani. Non pochi inoltre furono gli italiani a capo d’eserciti francesi. Le forze navali che vinsero a Lepanto i Turchi, nella più grande battaglia navale anteriore alla seconda guerra mondiale, erano quasi interamente italiane, sia come naviglio, sia come equipaggi ed ufficiali. Su tutti, poi, spicca il genio assoluto d’Eugenio di Savoia.
Il breve ed incompleto elenco suddetto fa però risaltare anche un particolare significativo e doloroso. Le capacità degli italiani sono state spese al servizio di potenze straniere.

DEDICATO A NOI

Guido, mi volus ke...

da "Danteskaj Itineroj" di Vittorio Russo
una magistrale traduzione di Nicolino Rossi
ovvero,
quando il traduttore è poeta egli stesso...

Guido, mi volus ke kun Lapo nia
ni tri kaptitaj estu de sorcx-sento
flosantaj per sxipet' cxe ajna vento
surmaren iru ni laux volo tia;

kaj ke la sxtormo aux vetero fia
ne nin obstaklu per baranta tento,
male, en vivkonkordo laux talento,
plu kresku al kunesto dezir' pria.

Damon Johana, Damon Lagxa kune
kun tiu cxe l' trideka rang' atenta,
kun ni irigu la sorcxanto bona:

tie pri amo dauxru vort' rezona,
ke cxiu damo estu korkontenta,
kiel kredeble ni kontentus dume.


Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

(l'originale si trova cliccando sul titolo)



venerdì 14 dicembre 2007

TANTI AUGURI AGLI UOMINI DI BUONA VOLONTA'




UN PENSIERO DI MARCO GIULIO

C'è di che meditare

La situazione attuale in Italia è già stata descritta dal Poeta, sette secoli fa. Dopo aver riferito dell’incontro fra Sordello da Goito e Virgilio in Purgatorio, nei quali i due poeti s’abbracciano calorosamente perché provengono dalla medesima terra, Dante commenta:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell’ anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Sono passati sette lunghi secoli, il panorama economico, sociale, culturale è cambiato in misura enorme, ma l’Italia è ancora oggi divisa in fazioni in feroce lotta intestina. Eppure, quando scriveva il Padre Dante, non esistevano né Berlusconi, né Prodi, mentre i vari Napoleone, Pio IX, Garibaldi, Mussolini non erano ancora nati.
Siamo un paese che ha avuto un noto pensatore politico, anzi uno statista d’un certo rilievo, il quale ha posto il “particulare” al centro dei fini dell’azione politica stessa. Però, il Guicciardini è vissuto cinque secoli fa. Ciò che gli italiani, noi italiani, fatichiamo in genere a comprendere, è che mentre l’individualismo può appagare, in una certa misura, il singolo, esteso alla dimensione comunitaria fa marciare un popolo od uno stato verso la rovina. Un individuo che non rispetta le regole della circolazione stradale, o non paga le tasse, a per strada, può, in tal modo, trarre dei benefici, ma un simile comportamento esteso ad una comunità è collettivamente disastroso. Politicamente, rischiamo d’essere scaltri ma non intelligenti. Tutto ciò è una pianta con origini antiche e radici profonde e vigorose, pertanto è difficile da estirpare.

giovedì 13 dicembre 2007

Il Rinascimento e la crisi militare italiana

Piero Pieri è stato probabilmente il maggiore degli storici militari italiani. Nella sua numerosa produzione egli è stato capace di coniugare l’analisi propriamente militare al contesto storico complessivo, essendo ben consapevole dell’interdipendenza reciproca fra ciò che i sociologi definiscono “sistemi”, come ad esempio quello politico, ma anche economico, socio-culturale ed appunto militare.
Una delle opere più importanti di Pieri s’intitola Il Rinascimento e la crisi militare italiana, la cui prima edizione risale al 1952 (Einaudi, Torino). In essa, il suddetto studioso cerca di rispondere ad un interrogativo di grande rilievo, ovvero come sia possibile conciliare l’assoluta supremazia europea, anzi europea e mediterranea, dell’Italia nel periodo rinascimentale dal punto di vista economico e culturale da una parte, ed il suo rapido cadere, al principio del secolo XVI, in condizioni di subalternità politica in seguito a ripetute invasioni straniere ed alla definitiva conquista spagnola del regno di Napoli e del ducato di Milano.
La risposta comune a tale quesito consisteva nell’ipotizzare una presunta insufficienza militare italiana, per cui gli eserciti italiani si sarebbero rivelati inferiori a quelli stranieri. Pieri, lucidamente, spiega come tale teoria cada in contraddizione con uno dei principi basilari della ricerca storiografica applicata alla sfera bellica, ovvero alla correlazione inevitabile fra il “sistema militare” e gli altri. E’ utile riportare alcuni passi della prefazione scritta da Pieri stesso:
"La splendida fioritura economica e spirituale dell'Italia nel basso Medioevo e nel Rinascimento termina, o meglio, s'interrompe bruscamente con un grande tracollo che lascia il nostro paese in gran parte in mano allo straniero; ed è come il preludio d'un ormai in frenabile declino in ogni altro campo. Come si spiega la con­traddizione intima fra tanta attività, genialità, ricchezza e la serie dei rovesci che porta alla perdita dell'indipendenza Quale tarlo ascoso rode al profondo tutta la struttura della vita italiana? Siamo di fronte a uno di quei grandi problemi che ogni genera­zione è solita porsi e spera di risolvere o alla luce d'una nuova serie d'indagini e studi o con una sua diversa intelligenza storica ed esperienza politica. Certo, il fatto piú appariscente sembra l'in­feriorità militare degl'Italiani, che si manifesta dalla calata di Carlo VIII in poi, attraverso una serie di dolorosi rovesci. Ma è vano voler vedere solo il fatto militare, perché la guerra non è che la manifestazione, costi come la politica e l'economia, d'un piú vasto e complesso fenomeno; e in ogni caso la guerra non può esser con­siderata a sé, ma nei suoi rapporti con le altre attività pratiche dello spirito: da esse influenzata, le modifica a sua volta, contri­buendo all'evolversi della civiltà e alla trasformazione di tutto l'assetto economico, politico e sociale." (P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, p. 13]
Perciò, egli ha deciso anzitutto di considerare l’economia, la finanza, la struttura sociale e l’apparato politico-giuridico dei diversi stati italiani, per poi procedere ad esaminare anche i loro eserciti ed, infine, le guerre combattute all’epoca. Questo grande storico può quindi aggiungere:
"Ora veramente mi parve di scorgere i primi elementi d'una razionale spiegazione del complesso problema; e ora soltanto presi ad esaminare il fenomeno militare, vale a dire una terza forma d'attività pratica dello spirito, ma piú strettamente legata a quella politica; e vidi cose assai diverse da quelle narrate usualmente, e mi apparve una fioritura per nulla minore di quella che avevo ammirato negli altri campi; ma anche qui inficiata da un'intrinseca debolezza politica che ne sminuiva non poco il rendi­mento complessivo: l'organizzazione militare trovava le sue radici nel campo politico, e la politica piú che mai stabiliva le premesse dello strumento guerresco e ne condizionava l'impiego, giusta i pre­cetti del Clausewitz: la guerra è la politica continuata con altri mezzi; se la guerra è mal condotta, vuol dire che la politica è manchevole.In questo modo la crisi militare italiana mi si presentava in ben altra guisa, come chiusa di un dramma politico; e d'assai piú alto interesse quindi." (Pieri, Il Rinascimento, cit., p. 15)
Infatti, egli ha buon gioco a provare come i diversi stati della penisola disponessero d’apparati bellici certo non inferiori a quelli degli altri paesi d’Europa. Confrontando le armate italiane rispetto a quelle d’Oltralpe, Pieri può dimostrare come la loro cavalleria leggera fosse in assoluto la migliore, quella pesante superata solo dalla francese, l’artiglieria tecnicamente pari a quella di Francia, ovvero migliore a tutte le rimanenti, l’ingegneria bellica senz’altro da preferirsi ad ogni altra, la fanteria leggera d’altissima qualità. L’unico difetto, seppur grave, era dato da una fanteria pesante di valore diseguale, in cui convivevano reparti eccellenti con altri mediocri o persino pessimi. Si può però ancora aggiungere come i comandanti italiani fossero nel complesso ottimi, tanto che la strategia e la tattica dell’epoca furono in buona misura elaborate proprio da loro. Non si devono neppure trascurare due altri fattori di considerevole importanza, quale la piena supremazia navale e la disponibilità di ben maggiori risorse finanziarie rispetto a quelle di qualsivoglia altro stato europeo.
Pertanto, spiega Pieri, la debolezza italiana non era strettamente militare, bensì squisitamente politica. L’Italia, nonostante i suoi primati nell’arte e nella letteratura, nella scienza e nell’economia, era divisa in numerosissimi stati e staterelli, in feroce rivalità reciproca. Inoltre, i diversi principati italiani erano ulteriormente frammentati al loro interno da contrasti fra contado e città, tra città subalterne e città dominante, ed ancora dalle rivalità di diverse fazioni dell’aristocrazia. In breve, gli italiani, dinanzi alle invasioni nemiche, furono sempre divisi fra loro, divenendo così facile preda della Francia e della Spagna, paesi sotto molti aspetti inferiori all’Italia, certamente non superiori dal punto di vista militare, ma provvisti d’una organizzazione politica unitaria e d’una forte coesione nazionale.
Accadde così che tutte le conquiste straniere, ovvero quasi tutte le battaglie che si tradussero in sconfitte italiane, videro il contributo decisivo di stati italiani, che preferirono allearsi all’invasore anziché ai propri connazionali. Non si deve neppure dimenticare come l’oro italiano servisse a finanziare gli eserciti stranieri, mentre l’abilità diplomatica dei governi della penisola contribuiva ulteriormente ai successi francesi e spagnoli. Gli anni compresi fra il 1494, anno della calata di Carlo VIII, ed il 1530, quando la caduta di Firenze suggellò definitivamente l’egemonia iberica in Italia, assistettero allo spettacolo d’italiani divisi fra loro, in guerra gli uni contro gli altri, la qual cosa rappresentò senz’altro la causa prima e fondamentale dell’asservimento agli stranieri.
Il nostro storico può così scrivere nella conclusione del suo grande lavoro:
"In realtà, la crisi militare italiana del Rinascimento non era il risultato di una pervertita consuetudine guerresca, ma bensì un aspetto, notevole e interessante al massimo grado, della più generale e profonda crisi costituzionale dell’intera penisola, la quale doveva dolorosamente risolversi nella più vasta crisi della libertà italiana." (Pieri, Il Rinascimento, cit., p. 615)
L’opera di Pieri, che oltre che un grande storico, è stato anche un grande patriota,[1] si traduce non soltanto in un insegnamento storiografico d’alto livello, ma pure etico e politico. Non interviene così né una scissura rigida ed arbitraria tra l’analisi scientifica e l’ammaestramento politico, né, peggio ancora, una riduzione della storia ad ancella dell’ideologia, bensì s’attua un’armoniosa fusione delle due componenti, come accade nei migliori fra gli storici antichi, da Tucidide a Polibio, da Livio a Tacito.
Piero Pieri è così stato in grado, scrivendo Il Rinascimento e la crisi militare italiana, provare come la conquista d’Italia da parte degli stranieri non sia stata dovuta ad una presunta natura imbelle e vile degli italiani, i quali erano anzi all’epoca fra i migliori combattenti d’Europa, bensì alla loro cronica mancanza di senso nazionale. Proprio ciò condusse alla lunga fase della supremazia spagnola in Italia, causa non ultima d’un secolare declino.
[1] Egli aveva partecipato come volontario alla Grande Guerra, venendo decorato con medaglia d’argento per il suo valore, e, si può dire per l’intera sua attività di studioso, ha sempre cercato di conciliare le esigenze della ricerca con quelle del patriottismo

Marco De Turris

mercoledì 12 dicembre 2007

lunedì 10 dicembre 2007

ILARIA DEL CARRETTO di JACOPO DELLA QUERCIA

domenica 9 dicembre 2007

ARTICOLO da IL LEGNO STORTO

Gli Alpini ed il senso civico PDF Stampa E-mail
Scritto da Enzo Trentin
domenica 09 dicembre 2007
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Valmalenco: monumento agli Alpini
A maggio si terrà l’ennesima adunata degli alpini. Questa volta in un luogo simbolo per le truppe da montagna: Bassano del Grappa. Alcuni quotidiani veneti, già da ora, danno particolare risalto alla manifestazione, seguendone i dettagli organizzativi e soprattutto esponendo rievocazioni e testimonianza varie.
Ciò che ci ha colpito, questa volta, è stato il riporto d’un dialogo tra un giovane che ad una domanda rispondeva: «Perché dovrei dare un anno della mia vita allo Stato?»; al quale ribatteva un vecchio ufficiale dalla penna bianca ora in pensione.
Quest’ultimo sottolineava i numerosi aspetti positivi che, secondo lui, aveva il servizio di leva, concludendo con l’affermazione: «Un anno di naja non ti avrebbe fatto male.»
Ci appare chiaro – è questa è la ragione per la quale ne scriviamo – che si tratta di due visioni parziali, e per certi versi – come dire…? – sfocate!
Si sa, gli alpini nacquero nel 1872 dall’idea dell’allora Ten. Col. Agostino Ricci (secondo gli studi più recenti, e non dal Cap. Perrucchetti) che li prefigurò come le unità che avrebbero dovuto svolgere una azione di arresto per prendere poi l'iniziativa attaccando dovunque l'aggressore ai “sacri” confini della patria. Il loro reclutamento territoriale avrebbe meglio operato su territori che conoscevano dalla nascita, a difesa in primo luogo delle proprie genti e dei propri beni. La storia poi li proiettò in qualche angolo del mondo in imprese che nulla avevano a che fare con l’origine.
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Bassano

Ciò nonostante, gli alpini hanno sempre conservato le loro peculiarità: gente semplice difficilmente dedita all’aggressione, alla crudeltà o al saccheggio. Montanari cresciuti ed abituati alla fatica, come alla solidarietà. Ma proprio perché impiegati anche dove proprio non sarebbero stati adatti, vivevano la naja come una costrizione, un servaggio dal quale smarcarsi alla prima opportunità.
Gli alpini, generalmente, non hanno mai odiato il loro avversario. Quelli che uscirono faticosamente dalle steppe russe nel gennaio del 1943 testimoniano come – in molti – dovettero la vita alla solidarietà dei contadini russi.
Giulio Bedeschi in “Centomila gavette di ghiaccio” ce ne offre testimonianza: «Osservato da un ragazzetto russo infreddolito, Scudrèra stava togliendo dallo zaino un paio di lunghi mutandoni di lana; li dispiegò al vento, li appallottolò e se li ficcò sotto il cappotto; ma facevano troppo volume, li sfilò e se li arrotolò al collo, come una sciarpa. A questo punto si vide osservato dal ragazzetto, che sorrideva divertito. Scudrèra dispiegò nuovamente le mutande accostandole al ragazzetto, come a misurargliele: erano più alte di lui, il ragazzo rideva. Scudrèra allora gli gettò le mutande sulle spalle, e gli disse:
- To', ciàpa, ma cresci in fretta; intanto le porterà to nòna. Bàbuska! Bàbuska! Capito?
- Karasciò! - esclamò il ragazzo russo. Fece un cenno di ringraziamento e filò verso un'isba chiamando: - Bàbuska! Bàbuska! - Nel correre, però, gli caddero sulla neve le mutande; mentre le raccoglieva e scappava, Scudrèra gli gridò dietro:
- Ciò, insulso! Tienle ben, chè le ga fàte me màma! E rivolto a Pilon: - Te ga visto? El me ga capìo sùbito! Son mi che non capìsso dove go imparà a parlar in russo!»
Gli alpini sono imbevuti di solidarietà. Basta leggere la memorialistica per rendersi conto di come difficilmente abbandonavano un commilitone, anche se questo poteva costare la vita al soccorritore.
E per semplicità ricorriamo ancora a Bedeschi: «… e i soldati si chinavano sui fagotti grigioverdi, li caricavano sulle slitte straripanti, dal colmo dei carichi uno scrollo del mulo li rotolava di nuovo sulla neve, i compagni s'accorgevano più tardi d'averli perduti, forse erano stati raccolti più addietro da altri alpini; o forse no, perché il vento sollevava un polverio di neve e li ricopriva subito di bianco.
Restavano là, steppa.
- È un alpino del mio paese - disse di uno il furiere Clerici, e se lo caricò sulle spalle; col peso avanzò forse per cento metri ma poi il fiato gli si fece grosso; barcollò, cadde nella neve col cadavere, ritentò di sollevarlo, ricadde, imprecò, proseguì solo e roso da una rabbia cupa consegnò il portafogli del morto al capitano. Questi prese a braccio Clerici e camminavano insieme in silenzio.
- Come volete che faccia a capire? - disse angosciosamente il furiere.
- Chi? - domandò Reitani.
- Sua madre. Mi maledirà, signor capitano.
- Glielo diremo, che non potevi.
- È vecchia, non sa com'è la guerra. Mi vedrà sempre, sta di fronte a casa mia.»
È un Dna che hanno conservato anche nella vita civile dove, particolarmente nel nord del paese, i gruppi della protezione civile sono prevalentemente costituiti da alpini.
I veci non si sono mai tirati indietro verso tutto ciò che provoca sofferenza fisica. Questi uomini sono sempre riusciti a procurarsi quel tipo di “allegria” che si ottiene soltanto superando ostacoli a prezzo di dure fatiche. Ed è sorprendente che non lo fanno per spirito di patria, che spesso è stata matrigna con loro. Lo hanno sempre fatto per osmosi; essi hanno sempre avuto una sorta di spirito civico che lo Stato non gli ha mai fornito. Per questo l’hanno sempre chiamata naja.
È questo spirito civico che li fa affluire alle adunate, per riconoscersi e rincontrarsi in gaiezza, per scambiarsi nozioni ed informazioni da utilizzare quando, come volontari della protezione civile, saranno tra i primi ad intervenire, non mancando persino di mettere mano indifferentemente al manico del badile, come al proprio portafogli.
È questa la lezione implicita delle loro sfilate, nel loro inalberare con orgoglio quello strano cappello di volta in volta guarnito con la penna d’aquila o di corvo, nel rivendicare una “specificità” che nessun politicante è mai stato in grado di scalfire, al contrario sempre pronto (il politicante) a cavalcare il loro senso civico. Dobbiamo essere giustamente compiaciuti del fatto che, in uno Stato carente come il nostro, riescano a sopravvivere uomini di questa specie.
Per quanto la loro terra sia mal amministrata, è gente che non farà mai una rivoluzione violenta. Molti di loro, probabilmente, non conoscono nemmeno il pensiero e l’opera di Thomas Jefferson, autore della dichiarazione d’indipendenza e terzo presidente degli USA, il quale scriveva in una lettera a James Madison il 30 gennaio 1787: «Malo periculosam libertatem quam quietam servitutem. Ritengo che qualche ribellione, di tanto in tanto, sia cosa buona e che sia necessaria al mondo politico quanto le tempeste lo sono a quello fisico. In genere le ribellioni fallite mettono in luce violazioni dei diritti del popolo che le hanno cagionate. Esse sono invero una medicina necessaria per la salute di tutti, prevengono la degenerazione del governo e aumentano l’attenzione per gli affari pubblici.»
Sì! Gli alpini non si ribelleranno mai, la loro integrità morale non glielo consente. Essi preferiscono l’impegno concreto e disinteressato, alla vulgata corrente dei subalterni al cellulare o "friggi cervello a microonde". E male non farebbe alla nostra democrazia un sistema di milizia, che molti paesi adottano.
La Svizzera, per esempio, vive grazie al sistema di milizia. La Svizzera vive grazie all'impegno profuso da decine di migliaia di cittadine e cittadini al di fuori delle loro cerchie familiari e professionali. Essere in relazione gli uni con gli altri. Essere responsabili. Fare più di quanto è strettamente necessario − per sé, ma anche per gli altri!
Questa forza insita nel sistema di milizia è un bene prezioso! Un bene che dovremmo recuperare e di cui avere la massima cura!
L'impegno che caratterizza il sistema di milizia si manifesta nella vita politica, nelle associazioni e nelle società, in campo sociale, nella cultura, nello sport, nella protezione dell'ambiente, nei corpi dei pompieri, e anche nell'esercito. E a questo punto potremo accettare l’affermazione di quel vecio Colonnello: «Un anno di naja non farebbe male.»
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LA SINISTRA - DI TUTTO DI PIU'

Ma non verrà il sereno.

venerdì 7 dicembre 2007

OPINIONI DI UN CITTADINO DELLA NOSTRA ITALIA

Los Tato o Lost ato?
Il nostro Stato è uno Stato "tato" ?
Il nostro Stato è uno Stato perduto ?
Lo Stato siamo noi.
E' una bella frase che ha perso ogni suo significato.
La abbandono alla retorica più menzognera.
Se lo Stato fossimo noi allora ciò che accade corrisponderebbe alla nostra volontà.
Non mi sembra proprio.
Noi non vogliamo ciò che stà accadendo.
Noi non vogliamo che questo Stato sperperi i soldi che gli diamo in stipendi assurdi, viaggi, pranzi, cene, vacanze per i politici, per gli amici dei politici, per gli amici degli amici, per i figli dei politici, per i figli dei figli, per generazioni.
Noi non vogliamo dei servizi scadenti, delle leggi ingiuste specie retroattive. Noi non vogliamo ridotta la nostra sicurezza e la nostra libertà. Noi non vogliamo che la famiglia Rotschild abbia contribuito a far eleggere Prodi affinchè il nostro Paese perda in competitività e credibilità internazionale. Noi non vogliamo uno Stato che ratifichi leggi europee e poi non le applichi, e quando viene sanzionato, condannato dalla Corte Europea a restituire ai cittadini il maltolto lui faccia una leggina per rinviare i pagamenti e poi rinvii la stampa dei moduli per il rimborso e poi non faccia più sapere se e come effettuerà questo benedetto rimborso. Noi non vogliamo uno Stato che ci faccia schifo. Noi non vogliamo che i politici si dimentichino della delega che gli abbiamo assegnato per rappresentarci e che facciano invece un'opera di persecuzione nei confronti dei cittadini. Noi non vogliamo la morte della iniziativa privata. Noi non vogliamo la concorrenza sleale dei grandi gruppi che schiacciano il piccolo, l'artigiano, il contadino, l'imprenditore, il commerciante, le gestioni familiari. Noi non vogliamo le caste, le mafie, le corporazioni. Noi non vogliamo uno Stato che non contribuisca ad educare i nostri figli e che non gli offra sufficienti opportunità nel mondo del lavoro. Noi non vogliamo che dopo 40 anni di lavoro un cittadino prenda una pensione da fame e che dei cittadini siano andati in pensione poco dopo i 40 anni avendo anche fatto un secondo lavoro in nero e li dobbiamo mantenere per il resto della loro vita. Noi non vogliamo uno Stato regno dei soprusi e dei privilegi.
Noi vogliamo quello Stato che tanti ma tanti anni fa l'italiano era fiero di farne parte.
Noi dovremmo avere il coraggio di fare a meno di questo Stato.
Lo Stato non siamo noi.
Lo Stato sono loro.