
In visita da Karzai in Afghanistan e sulla neve insieme alla moglie


Non lasciatemi sola ad esaltarla
Quella fabbrica di pentiti che ha annientato Contrada di Lino Jannuzzi - venerdì 28 dicembre 2007 Il giorno più lungo dei processi a Bruno Contrada, che sono durati 15 anni, fu il 13 luglio 1995. Il più famoso poliziotto di Palermo era stato arrestato tre anni prima, alla vigilia di Natale del '92, e per tre anni era rimasto sepolto vivo in un carcere militare riaperto appositamente per lui e solo per lui. Il processo era finalmente iniziato e Contrada era ricomparso dopo tre anni dinanzi alle telecamere nell’aula del tribunale e sembrava il suo stesso fantasma. Fiaccato crudelmente nel fisico, la bocca cascante, imbiancati i capelli che lasciava cadere ai due lati del viso, infiacchita dalla magrezza la mascella che era stata forte e quadrata, lo sbirro, il rambo, il finto giovanotto così attento a coltivare il physique du role, appariva trasformato in un vecchio, in uno spettro. Quel giorno il pm si è alzato a sorpresa e ha chiesto al tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo «pentito», spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa da dove, e dopo che ad accusare Contrada ne erano già sfilati sei o sette. È stato un attimo e Contrada è crollato. Aveva fatto per alzarsi, come per protestare, e subito si è accasciato sulla sedia, pallido e sudato, le labbra nere e serrate, le membra scosse da un tremito nervoso. Il presidente ha gridato: «L’udienza è sospesa». Il pm è rimasto immobile e interdetto. Un carabiniere è accorso a sorreggere Contrada prima che scivolasse sul pavimento e cercava di rianimarlo bocca a bocca. Accorsero gli altri, lo sollevarono di peso, lo stesero sulla barella dell’ambulanza, corsero all’ospedale, lo scaricarono al reparto di rianimazione, lo infilarono in un letto e gli praticarono le cure di emergenza per tentare di rianimarlo. Appena ha riaperto gli occhi, Contrada ha gridato: «Vogliono annientarmi». Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, ha strappato dalle mani dell’infermiere la siringa e ha tentato di infilarsela nella gola... VELENI DI PALERMO È stato a questo punto che una donna piccola e minuta che entrava e usciva, agitata e tremante, dalla cameretta della rianimazione, ha urlato. C’erano le telecamere accese e l’urlo si è sentito in diretta nei telegiornali della sera: «Caino, sia maledetto Caino... ». La signora Adriana, insegnante di lettere e latino in pensione e moglie di Bruno Contrada, ha spiegato con chi ce l’aveva: «Caino è un collega di mio marito. È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera. È qualcuno che a Roma ha capito che, mentre Bruno lottava qui a Palermo giorno dopo giorno contro la mafia, rischiando la vita, la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera. Bastava usare la Sicilia e l’antimafia come sgabello e salirci sopra... ma doveva eliminare Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli, e questo Caino l’ha fatto perché era in grado di sfornare contro Bruno un “pentito” al giorno e ancora lo fa». Sono passati 12 anni da quel giorno (15 da quando Contrada è stato arrestato) e sono stati celebrati tanti processi: quello di primo grado, conclusosi con la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e quello d’appello, che invece lo ha assolto con formula piena; la Cassazione che ha cassato l’assoluzione e lo ha rinviato a processo e il secondo processo d’appello che lo ha ri-condannato a 10 anni; la Cassazione che questa seconda volta ha approvato, e sono sfilati tanti «pentiti» ma, tra un appello e l’altro, tanti altri se ne sono aggiunti a quello sfornato a sorpresa quel giorno di luglio di 12 anni fa. Sono state riempite migliaia, centinaia di migliaia di pagine di verbali, ma niente più ha spiegato meglio origini e ragioni di questo processo-fatwa a un uomo che ha servito lo Stato per cinquant’anni lottando contro la mafia e rischiando ogni giorno la pelle, come quell’urlo di donna al capezzale del marito che cercava di uccidersi: «Caino, maledetto Caino... ». PENTITI VERI E PENTITI FALSI Lo stesso Contrada lo ha ribadito, dieci anni dopo, nell’ultima intervista rilasciata prima dell’ultima sentenza: «È stata la Dia, la direzione antimafia che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dirette dipendenze delle procure, che non gradiva che io mi fossi impegnato a creare una branca del Sisde, il servizio segreto civile, dedicata specificamente a combattere la mafia. È la Dia che si è specializzata nella gestione dei cosiddetti “pentiti” e che ha sfornato i “falsi pentiti” che sono serviti ad accusarmi». Perché i processi a Contrada sono basati esclusivamente sulle accuse dei «pentiti», e spesso si tratta di mafiosi e assassini a cui è stato proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli dinanzi al giudice e a farli condannare, e che si sono vendicati, più o meno sollecitati e incoraggiati, ri-guadagnando la libertà e con lo stipendio dello Stato. E c’è la testimonianza dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, che così ha deposto al processo: «Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo e ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafiosa, di cui è una memoria storica eccezionale, per questo ha ricevuto 33 elogi dall’amministrazione e dalla magistratura» CAMPAGNA DENIGRATORIA E così depone il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo Alto commissario antimafia e poi direttore del Sisde: «C’è stato uno specioso malanimo contro Contrada, quando è stato il mio capo di Gabinetto, un malanimo agitato da certe lobby e certe cordate del ministero dell’Interno». E un altro prefetto, Angelo Finocchiaro, pure lui direttore del Sisde: «Contro Contrada e il Sisde ci sono stati attacchi ripetuti e proditori ed è stata organizzata una campagna denigratoria» ACCUSE SENZA PROVE Come è stato possibile ai giudici non credere ai più autorevoli rappresentanti delle istituzioni della Repubblica e credere invece alle accuse senza prove né riscontri dei cosiddetti «pentiti», mafiosi, ladri, estortori e assassini? E molti di questi sono stati poi incriminati per calunnia, uno è stato espulso dal programma di protezione perché colto in flagrante mendacio e in riciclaggio di denaro sporco e traffico di stupefacenti, un altro ancora ha ritrattato tutte le accuse al processo d’appello e ha implorato i giudici di restituire l’onore a Contrada: di costui gli avvocati hanno scoperto, sempre nel processo d’appello, che era stato nascosto il verbale di un primo interrogatorio, in cui dichiarava di non sapere niente di Contrada. Alla contestazione il pm ha replicato che non aveva esibito quel verbale appunto perché di Contrada non si diceva niente: perché il pm avrebbe dovuto esibire qualcosa a difesa dell’imputato? Niente ancora a confronto del fatto che a presiedere la Corte d’appello che, la seconda volta, ha condannato Contrada è stato chiamato proprio il giudice che tre anni prima, quale componente del Tribunale della libertà, si era rifiutato di concedergli la libertà dalla carcerazione preventiva, dopo già due anni trascorsi in isolamento nel carcere militare: chi meglio di lui, che si era espresso così favorevolmente all’imputato, era più adatto a giudicarlo e a condannarlo? Il fatto è che Bruno Contrada non è stato soltanto vittima delle faide interne ai corpi dello Stato, ma è stato il sacrificio propiziatorio al teorema del «terzo livello» e della connivenza delle istituzioni e del potere politico con la mafia. Inizialmente il processo che hanno tentato di fare a Contrada e che ancora echeggia in certe dichiarazioni delle vedove dell’antimafia che si oppongono alla concessione della grazia, doveva essere il processo per la strage di via D’Amelio: Contrada doveva essere l’agente dei servizi segreti «deviati» che per conto del potere politico (leggi Andreotti, ma indagheranno pure su Dell’Utri e Berlusconi come «mandanti delle stragi») avrebbe fatto assassinare dalla mafia il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, dopo aver tentato di assassinare Giovanni Falcone con il tritolo sugli scogli dell’Addaura. L’hanno scritto e fatto scrivere in centinaia di articoli e in decine di libri, l’hanno messo persino in un film: Contrada che si aggira sul luogo della strage pochi secondi dopo l’esplosione del tritolo. Non sono riusciti nell’intento, non foss’altro perché Contrada in quegli istanti era in barca con dieci testimoni molte miglia al largo di Palermo e hanno ripiegato sullo scivoloso «concorso esterno», buono per tutti gli usi e facile a sostenersi con la volonterosa collaborazione dei soliti «pentiti». Ora temono la revisione del processo, che può smascherare i «pentiti» e scoprire gli autori della trama. E temono anche la grazia: meglio che Contrada muoia in carcere e al più presto. |
Contrada parla dal carcere: Santa Maria Capua Vetere - "La mia dignità di uomo e di servitore dello Stato vale più della mia libertà e non permetto a nessuno di distruggerla a costo della mia stessa vita". Sono le parole di Bruno Contrada, riportate dal generale di brigata Giancarlo Tirri, marito della sorella Anna Contrada, che è stato oggi davanti al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere non potendo incontrare il congiunto poiché la famiglia aveva esaurito i colloqui mensili stabiliti in base ai regolamenti del penitenziario militare. Tirri ha detto: "Questo altissimo senso di dignità e la ferma volontà di difendere il proprio onore dalle accuse infami che gli sono state rivolte stanno consentendo a mio cognato di rimanere ancora in vita, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui versa, inesorabilmente aggravate dalla stato di detenzione". "Bruno Contrada - ha aggiunto - da quando è in carcere, oltre alle preoccupanti patologie da cui era già affetto, ha subito per ben due volte una lesione ischemica nel territorio dell’arteria cerebrale posteriore che ha provocato altresì una ipertensione della guaina del nervo ottico di sinistra. Ciò gli impedisce di potersi dedicare alla lettura, l’unico sollievo che poteva servirgli a lenire l’enorme sofferenza interiore, con evidenti ripercussioni anche sul suo morale letteralmente a pezzi". |
L'Alitalia, Air France e Prodi.... | 23/12/2007 09:44 |
da "Danteskaj Itineroj" di Vittorio Russo
una magistrale traduzione di Nicolino Rossi
ovvero,
quando il traduttore è poeta egli stesso...
Guido, mi volus ke kun Lapo nia
ni tri kaptitaj estu de sorcx-sento
flosantaj per sxipet' cxe ajna vento
surmaren iru ni laux volo tia;
kaj ke la sxtormo aux vetero fia
ne nin obstaklu per baranta tento,
male, en vivkonkordo laux talento,
plu kresku al kunesto dezir' pria.
Damon Johana, Damon Lagxa kune
kun tiu cxe l' trideka rang' atenta,
kun ni irigu la sorcxanto bona:
tie pri amo dauxru vort' rezona,
ke cxiu damo estu korkontenta,
kiel kredeble ni kontentus dume.
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.
Gli Alpini ed il senso civico | ![]() | ![]() | ![]() |
Scritto da Enzo Trentin | |||
domenica 09 dicembre 2007 | |||
![]() Valmalenco: monumento agli Alpini Ciò che ci ha colpito, questa volta, è stato il riporto d’un dialogo tra un giovane che ad una domanda rispondeva: «Perché dovrei dare un anno della mia vita allo Stato?»; al quale ribatteva un vecchio ufficiale dalla penna bianca ora in pensione. Quest’ultimo sottolineava i numerosi aspetti positivi che, secondo lui, aveva il servizio di leva, concludendo con l’affermazione: «Un anno di naja non ti avrebbe fatto male.» Ci appare chiaro – è questa è la ragione per la quale ne scriviamo – che si tratta di due visioni parziali, e per certi versi – come dire…? – sfocate! Si sa, gli alpini nacquero nel 1872 dall’idea dell’allora Ten. Col. Agostino Ricci (secondo gli studi più recenti, e non dal Cap. Perrucchetti) che li prefigurò come le unità che avrebbero dovuto svolgere una azione di arresto per prendere poi l'iniziativa attaccando dovunque l'aggressore ai “sacri” confini della patria. Il loro reclutamento territoriale avrebbe meglio operato su territori che conoscevano dalla nascita, a difesa in primo luogo delle proprie genti e dei propri beni. La storia poi li proiettò in qualche angolo del mondo in imprese che nulla avevano a che fare con l’origine. ![]() Bassano Ciò nonostante, gli alpini hanno sempre conservato le loro peculiarità: gente semplice difficilmente dedita all’aggressione, alla crudeltà o al saccheggio. Montanari cresciuti ed abituati alla fatica, come alla solidarietà. Ma proprio perché impiegati anche dove proprio non sarebbero stati adatti, vivevano la naja come una costrizione, un servaggio dal quale smarcarsi alla prima opportunità. Gli alpini, generalmente, non hanno mai odiato il loro avversario. Quelli che uscirono faticosamente dalle steppe russe nel gennaio del 1943 testimoniano come – in molti – dovettero la vita alla solidarietà dei contadini russi. Giulio Bedeschi in “Centomila gavette di ghiaccio” ce ne offre testimonianza: «Osservato da un ragazzetto russo infreddolito, Scudrèra stava togliendo dallo zaino un paio di lunghi mutandoni di lana; li dispiegò al vento, li appallottolò e se li ficcò sotto il cappotto; ma facevano troppo volume, li sfilò e se li arrotolò al collo, come una sciarpa. A questo punto si vide osservato dal ragazzetto, che sorrideva divertito. Scudrèra dispiegò nuovamente le mutande accostandole al ragazzetto, come a misurargliele: erano più alte di lui, il ragazzo rideva. Scudrèra allora gli gettò le mutande sulle spalle, e gli disse: - To', ciàpa, ma cresci in fretta; intanto le porterà to nòna. Bàbuska! Bàbuska! Capito? - Karasciò! - esclamò il ragazzo russo. Fece un cenno di ringraziamento e filò verso un'isba chiamando: - Bàbuska! Bàbuska! - Nel correre, però, gli caddero sulla neve le mutande; mentre le raccoglieva e scappava, Scudrèra gli gridò dietro: - Ciò, insulso! Tienle ben, chè le ga fàte me màma! E rivolto a Pilon: - Te ga visto? El me ga capìo sùbito! Son mi che non capìsso dove go imparà a parlar in russo!» Gli alpini sono imbevuti di solidarietà. Basta leggere la memorialistica per rendersi conto di come difficilmente abbandonavano un commilitone, anche se questo poteva costare la vita al soccorritore. E per semplicità ricorriamo ancora a Bedeschi: «… e i soldati si chinavano sui fagotti grigioverdi, li caricavano sulle slitte straripanti, dal colmo dei carichi uno scrollo del mulo li rotolava di nuovo sulla neve, i compagni s'accorgevano più tardi d'averli perduti, forse erano stati raccolti più addietro da altri alpini; o forse no, perché il vento sollevava un polverio di neve e li ricopriva subito di bianco. Restavano là, steppa. - È un alpino del mio paese - disse di uno il furiere Clerici, e se lo caricò sulle spalle; col peso avanzò forse per cento metri ma poi il fiato gli si fece grosso; barcollò, cadde nella neve col cadavere, ritentò di sollevarlo, ricadde, imprecò, proseguì solo e roso da una rabbia cupa consegnò il portafogli del morto al capitano. Questi prese a braccio Clerici e camminavano insieme in silenzio. - Come volete che faccia a capire? - disse angosciosamente il furiere. - Chi? - domandò Reitani. - Sua madre. Mi maledirà, signor capitano. - Glielo diremo, che non potevi. - È vecchia, non sa com'è la guerra. Mi vedrà sempre, sta di fronte a casa mia.» È un Dna che hanno conservato anche nella vita civile dove, particolarmente nel nord del paese, i gruppi della protezione civile sono prevalentemente costituiti da alpini. I veci non si sono mai tirati indietro verso tutto ciò che provoca sofferenza fisica. Questi uomini sono sempre riusciti a procurarsi quel tipo di “allegria” che si ottiene soltanto superando ostacoli a prezzo di dure fatiche. Ed è sorprendente che non lo fanno per spirito di patria, che spesso è stata matrigna con loro. Lo hanno sempre fatto per osmosi; essi hanno sempre avuto una sorta di spirito civico che lo Stato non gli ha mai fornito. Per questo l’hanno sempre chiamata naja. È questo spirito civico che li fa affluire alle adunate, per riconoscersi e rincontrarsi in gaiezza, per scambiarsi nozioni ed informazioni da utilizzare quando, come volontari della protezione civile, saranno tra i primi ad intervenire, non mancando persino di mettere mano indifferentemente al manico del badile, come al proprio portafogli. È questa la lezione implicita delle loro sfilate, nel loro inalberare con orgoglio quello strano cappello di volta in volta guarnito con la penna d’aquila o di corvo, nel rivendicare una “specificità” che nessun politicante è mai stato in grado di scalfire, al contrario sempre pronto (il politicante) a cavalcare il loro senso civico. Dobbiamo essere giustamente compiaciuti del fatto che, in uno Stato carente come il nostro, riescano a sopravvivere uomini di questa specie. Per quanto la loro terra sia mal amministrata, è gente che non farà mai una rivoluzione violenta. Molti di loro, probabilmente, non conoscono nemmeno il pensiero e l’opera di Thomas Jefferson, autore della dichiarazione d’indipendenza e terzo presidente degli USA, il quale scriveva in una lettera a James Madison il 30 gennaio 1787: «Malo periculosam libertatem quam quietam servitutem. Ritengo che qualche ribellione, di tanto in tanto, sia cosa buona e che sia necessaria al mondo politico quanto le tempeste lo sono a quello fisico. In genere le ribellioni fallite mettono in luce violazioni dei diritti del popolo che le hanno cagionate. Esse sono invero una medicina necessaria per la salute di tutti, prevengono la degenerazione del governo e aumentano l’attenzione per gli affari pubblici.» Sì! Gli alpini non si ribelleranno mai, la loro integrità morale non glielo consente. Essi preferiscono l’impegno concreto e disinteressato, alla vulgata corrente dei subalterni al cellulare o "friggi cervello a microonde". E male non farebbe alla nostra democrazia un sistema di milizia, che molti paesi adottano. La Svizzera, per esempio, vive grazie al sistema di milizia. La Svizzera vive grazie all'impegno profuso da decine di migliaia di cittadine e cittadini al di fuori delle loro cerchie familiari e professionali. Essere in relazione gli uni con gli altri. Essere responsabili. Fare più di quanto è strettamente necessario − per sé, ma anche per gli altri! Questa forza insita nel sistema di milizia è un bene prezioso! Un bene che dovremmo recuperare e di cui avere la massima cura! L'impegno che caratterizza il sistema di milizia si manifesta nella vita politica, nelle associazioni e nelle società, in campo sociale, nella cultura, nello sport, nella protezione dell'ambiente, nei corpi dei pompieri, e anche nell'esercito. E a questo punto potremo accettare l’affermazione di quel vecio Colonnello: «Un anno di naja non farebbe male.»
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Il nostro Stato è uno Stato "tato" ? Il nostro Stato è uno Stato perduto ? Lo Stato siamo noi. E' una bella frase che ha perso ogni suo significato. La abbandono alla retorica più menzognera. Se lo Stato fossimo noi allora ciò che accade corrisponderebbe alla nostra volontà. Non mi sembra proprio. Noi non vogliamo ciò che stà accadendo. Noi non vogliamo che questo Stato sperperi i soldi che gli diamo in stipendi assurdi, viaggi, pranzi, cene, vacanze per i politici, per gli amici dei politici, per gli amici degli amici, per i figli dei politici, per i figli dei figli, per generazioni. Noi non vogliamo dei servizi scadenti, delle leggi ingiuste specie retroattive. Noi non vogliamo ridotta la nostra sicurezza e la nostra libertà. Noi non vogliamo che la famiglia Rotschild abbia contribuito a far eleggere Prodi affinchè il nostro Paese perda in competitività e credibilità internazionale. Noi non vogliamo uno Stato che ratifichi leggi europee e poi non le applichi, e quando viene sanzionato, condannato dalla Corte Europea a restituire ai cittadini il maltolto lui faccia una leggina per rinviare i pagamenti e poi rinvii la stampa dei moduli per il rimborso e poi non faccia più sapere se e come effettuerà questo benedetto rimborso. Noi non vogliamo uno Stato che ci faccia schifo. Noi non vogliamo che i politici si dimentichino della delega che gli abbiamo assegnato per rappresentarci e che facciano invece un'opera di persecuzione nei confronti dei cittadini. Noi non vogliamo la morte della iniziativa privata. Noi non vogliamo la concorrenza sleale dei grandi gruppi che schiacciano il piccolo, l'artigiano, il contadino, l'imprenditore, il commerciante, le gestioni familiari. Noi non vogliamo le caste, le mafie, le corporazioni. Noi non vogliamo uno Stato che non contribuisca ad educare i nostri figli e che non gli offra sufficienti opportunità nel mondo del lavoro. Noi non vogliamo che dopo 40 anni di lavoro un cittadino prenda una pensione da fame e che dei cittadini siano andati in pensione poco dopo i 40 anni avendo anche fatto un secondo lavoro in nero e li dobbiamo mantenere per il resto della loro vita. Noi non vogliamo uno Stato regno dei soprusi e dei privilegi. Noi vogliamo quello Stato che tanti ma tanti anni fa l'italiano era fiero di farne parte. Noi dovremmo avere il coraggio di fare a meno di questo Stato. Lo Stato non siamo noi. Lo Stato sono loro. | ||
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