giovedì 02 luglio 2009, 07:00 su Il Giornale
Una notte con i parà sotto il fuoco dei talebani nell’avamposto di Musahi
nostro inviato nella valle di Musahi, a sud di Kabul Luciano Gulli
Si vive così, un po' sospesi, come gli aquiloni che un tempo fluttuavano precari nel cielo di Kabul. Ci sono serate, poi, quando il vento soffia da nord, come stasera, e la sabbia mulina a mezz'aria cancellando i contorni delle cose, in cui tutto sfuma e si confonde: l'angoscia, la nostalgia di casa, il senso di straniamento e l'orgoglio di esserci; l'ultima mano di ramino con i colleghi alla «Tana del sorcio», il pub di Camp Invicta, a Kabul, e la sala operativa «Mambo» che chiama «Plutone 23»; il pianto di un bambino amputato - ancora, dopo tanti anni - da una vecchia mina sovietica e il riso di una ragazzina che corre a nascondersi dietro un cantone da cui spunta un uomo vestito come ai tempi di Saladino che impugna una cosa che potrebbe essere una zappa, ma anche un Ak 47. E certe volte anche con il visore notturno non si capisce.
Sono le volte in cui devi decidere in fretta, perché dipende solo da questo, da quanto sei stato svelto a capire, se sarai vivo anche domani. Ci sono serate in cui più di altre tocca resistere e scacciare ombre e inquietudini, come il ricordo delle tre pattuglie - amici tuoi - finite negli ultimi 45 giorni sotto il fuoco degli «insorti», come li chiamano qui.
E non si capisce se sono talebani, qaedisti o briganti di passo, questi «insorti». E allora non c'è di meglio che attaccarsi a qualcosa di concreto, come fa il caporalmaggiore Luca Arenare, 25 anni, di Altavilla Silentina. Lassù «in ralla», fuori dalla torretta del blindato, con il giubbotto antiproiettile, l'elmetto, gli occhialoni e la sciarpa tirata fin sul naso per evitare di mangiar troppa polvere, Luca stringe il pugno sul calcio della sua MG 42/59, carezzando con la sinistra il dorso della sua «ragazza di sempre», pronta a sparare 1200 colpi al minuto. Tocca resistere, le mani artigliate al volante, gli occhi due spilli puntati sul buio, come quelli dell'impeccabile caposcorta Carlo Adamo o del caporalmaggiore scelto Francesco Gatto, conduttore del nostro VTLM: onore e gloria all'ingegnere dell'Iveco che ha progettato questo veicolo tattico multiruolo da 7 tonnellate, 180 chili solo lo sportello, che ha già salvato tante vite (sacrificando qualche cervicale).
Quaggiù, a forte Sterzing, nella tana dei «ragazzi» del 186°, 25 chilometri a sud di Kabul, va in scena una notte come tante. Via dalla capitale, lungo la «Highway seven», la «Indigo» e la «Lince 1», dove il warning diramato dal comando della Folgore parla di «possibili attacchi di 40 uomini guidati dal comandante Darwish». Si viaggia a fari spenti, comprese le lucette di posizione. A voler fare un po' di facile retorica cinematografica, la base avanzata di Musahi si direbbe una specie di «avamposto degli uomini perduti»: una po' fortezza Bastiani di buzzatiana memoria e un po' trincea del '15-18.
Una grande valle che verdeggia solo al centro, tra meli, albicocchi, gelsi e campi di grano, circondata da aridi picchi che arrampicano fino a 2400 metri. Il forte, nel mezzo. Camminamenti protetti, le torrette come ad Alamo, lanciagranate da 40 millimetri, le mitragliatrici puntate verso i quattro punti cardinali, la sala mensa e la situation room dei mortaisti bunkerizzate. I primi tre razzi sparati dai talebani che tirano da Suryawun, tra Logar e Musahi, arrivano 5 minuti dopo la mezzanotte. Gli altri 3 atterrano all'1 e 20 del mattino. Razzi cinesi da 107 millimetri, sparati con la stessa tecnica rudimentale dei guerriglieri di Hamas, a Gaza. Puntano sul posto di polizia e sulla caserma dell'esercito afghano di Charasiab. Passano sulle nostre teste, ma cadono lontano dal bersaglio. «Li piazzano su cavalletti di fortuna, li attivano con una sveglia e poi si allontanano con calma», dice il tenente Salvatore Piazza, 27 anni, palermitano, comandante del nostro fort Apache.
I ragazzi della Folgore sono pronti a rispondere al fuoco.
Due mortai da 120 rigati, gittata 13 chilometri, sono in linea. Se ci sarà la certezza di aver individuato il gruppo di lanciatori avversari, ecco pronti due devastanti proietti ad alto potenziale. Ma qui non è come al cinema. Si spara solo se è necessario. Alla fine, il tenente Piazza giudica con freddezza che necessario non è. «Il rischio di produrre danni collaterali elevati è troppo alto», spiega. Si faranno le quattro e mezzo del mattino prima che lo stato di allarme si attenui; le cinque e mezzo, prima che gli sminatori escano coi cani in cerca di quel che resta degli ordigni sparati dall'avversario.
Anche stasera sarà una serata come tante, a Musahi. Con le donne che tornano ai loro miserabili tuguri al tramonto tirandosi dietro la mucca e guidando pecore (modello «station wagon», dicono i soldati, perché hanno delle gobbe di grasso sul groppone) e bambini, mescolati alla rinfusa; con gli uomini che vanno nei campi di grano, di cipolle e di patate a notte alta, facendosi luce con i lumi a petrolio o con una lampadinetta da minatore sulla fronte (i più evoluti). Di notte, al buio, quando l'umidità rende la terra più morbida e il sole non fa l'effetto di una fucilata alla schiena.
Al «fast food Mac Musahi», come i soldati hanno ribattezzato la mensa del forte, l'altra sera era di scena una favolosa pasta «all'Osama», con corredo di gamberetti, mentre due ragazzi controllavano il motore elettrico di un Raven, l'aeroplanino da ricognizione che si lancia a mano.
Ah, la mitezza degli afghani. «Li guardi - dice il primo caporalmaggiore Manolo De Vito, 24 anni, di Tor Pignattara - e non riesci a distinguere. Non sai mai chi è il tuo nemico, dov'è oggi la linea del fuoco». Il mese scorso, De Vito si è trovato per due volte di fronte agli insorti. Agguati a colpi di Rpg e di kalashnikov. «Il primo contatto è stato l'8 giugno. L'altro non me lo ricordo. Li segnerò tutti in una volta sul calendario, quando sarà finita».
I «Diavoli neri» della Quindicesima compagnia, le «Pantere indomite», i «Vampiri», i «Sorci verdi» e quelli della Compagnia comando «Potente e indomita» hanno una convinzione: «Se il destino è contro di noi, peggio per lui», dicono.
Nella ridotta di Forte Sterzing si vive così: un po' sospesi, come una volta gli aquiloni nel cielo di Kabul. E ora che la guerra sembra più vicina, anche gli svaghi di Camp Invicta, quando si tornerà a Kabul, sembrano una specie di rilassante retrovia: la palestra, il campetto da basket, due chiacchiere con gli amici alla «Tana del sorcio», una pizza al «Tappeto volante», un po' di internet e le canzoni di Ramazzotti.
Come in guerra, né più né meno.
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6 commenti:
Le basi italiane nella provincia di Herat sono in pratica TRE, in un'area di 54.778 km quadrati, con 1,5 milioni di abitanti.
Le truppe NATO ivi disponibili sono circa 10.000, ma quelle realmente chiamate a combattere molte meno.
Non voglio ripetermi e dare sempre prova di pessimismo quando parlo di Afghanistan, però sorge spontanea la domanda su come sia possibile cercare di controllare un territorio di tali dimensioni, per di più aspro ed impervio, con un pugno di uomini dispersi in pochissime basi.
I talebani ed i narco-trafficanti hanno a disposizione tutto lo spazio che vogliono per organizzarsi e spadroneggiare: le forze armate italiane sono la classica coperta troppo corta, veramente troppo, troppo corta.
Ci vorrebbero rinforzi ingenti, ma dove prelevarli?
Dimenticavo.
Le citazioni della "fortezza Bastiani" di Buzzati e dei "soldati perduti" delle guerre coloniali francesi sono davvero appropriate.
I nostri militari sono lontanissimi dalla loro Patria, in un territorio sconosciuto, dispersi in piccole basi in attesa del nemico: sono "soldati perduti", come è accaduto innumerevoli volte ad eserciti regolari contrapposti a guerriglie nel Novecento.
Frattanto, in Italia la "stampa" si preoccupava di risibili pettegolezzi sul Presidente del Consiglio.
Hai ragione Marco, ma non esiste solo l'Italia in pericolo, perché altre Nazioni non provvedono e rimpinguare le truppe per poter fare un'apera di salvaguardia efficace ?
Il generale Bertolini: "Più soldati non servono"
di Luciano Gulli
«La situazione è seria, inutile negarlo. Nel sud del Paese, soprattutto nella provincia di Helmand, a Kandahar, a Paktika, nei santuari del Waziristan pakistano, nelle vastissime aree dove si coltiva il papavero da oppio, c'è una guerra vera e propria». Il generale Marco Bertolini, capo di Stato Maggiore di Isaf - numero due della forza internazionale schierata in Afghanistan - non si fa illusioni. Vede anche lui che gli «insorti» guadagnano terreno, spadroneggiando in aree sempre più vaste del Paese. Ma vede anche i progressi dell'esercito e della polizia afghani, la loro tenacia, i loro primi successi. E forse anche solo per senso del dovere si dice ottimista.
Siamo in guerra anche noi italiani?
«Diciamo così: noi non siamo in guerra perché non c'è una dichiarazione di guerra. L'Italia, insieme con altri 41 Paesi, è schierata accanto al governo afghano. Il quale deve fronteggiare una forte opposizione armata. Mentre in altri teatri abbiamo condotto operazioni di peacekeeping, mettendoci in mezzo a due contendenti, qui stiamo conducendo un'operazione di peace enforcing».
Una volta si sarebbe detto che chi vuole imporre la sua pace con le armi è virtualmente in guerra. Dunque sarebbe meglio abituarsi all'idea. A proposito: c'è una strategia, un unico comando degli insorti? E soprattutto: chi sono?
«Il campo avversario è composto da varie entità: ci sono i talebani, i signori della guerra come Hekmatyar e Haqqani, ma ci sono anche le bande criminali dei grandi trafficanti di oppio. Non hanno una strategia e neppure una linea unica di comando. Sono divisi per aree. Il loro obiettivo è abbattere il governo, tornare a imporre l'emirato del mullah Omar».
A noi italiani è stata assegnata la difficile regione di Herat. Tra noi e gli spagnoli, circa 3mila uomini. Un'inezia.
«È vero. Il personale non basta. Ma non sarebbe sufficiente neppure se fosse il triplo. È l'esercito afghano che deve vincere la sua guerra. Noi siamo di supporto. Ma questa insurrezione si combatte soprattutto su altri fronti».
In che modo?
«Fornendo sicurezza alla popolazione, aiutando il governo a imporre la sua autorità e favorendo la ricostruzione e lo sviluppo. Ciò significa: strade percorribili con sicurezza, ospedali raggiungibili, medici addestrati, scuole che funzionino. È su nodi cruciali come questi che si gioca il futuro dell'Afghanistan».
Ambra, da quel pochissimo che so e che capisco il generale ha certo ragione: ci mancherebbe altro! Ciò che però egli non dice, suppongo per prudenza politica, è che le forze militari afghane nella provincia di Herat sono circa 1000 uomini, di dubbia affidabilità. Le sole forze di un sindaco ribelle al governo centrale di Kabul sono molto più numerose ed agguerrite.
Soltanto gli afghani possono vincere questa guerra contro narco-trafficanti e talebani, però quanti di loro appoggiano la NATO e Karzai?
Inoltre, costruire uno stato ed un'economia funzionanti è difficilissimo, con 30 anni di guerra alle spalle in un paese già povero, mentre invece ai vari "ribelli" è facile impedirlo: distruggere è più semplice che costruire, creare il caso immensamente più facile che costruire l'ordine.
Per l'aumento delle truppe, che pure Obama ha già ordinato, esiste un doppio problema:
1) scarsità di reparti disponibili. Gli eserciti NATO sono costituiti ormai da professionisti, e quindi hanno ridotte dimensioni, con una riserva ridotta.
2)il problema logistico, gravissimo in AFghanistan
Secondo me, cara Ambra, siamo impantanati, e soltanto decisi rinforzi di uomini e materiali, e ben maggiori somme per l'economia dell'Afghanistan, possono riuscire ad invertire l'esito della guerra.
Secondo me, come direbbe Duepassi.
Caro Marco, non mi sognerei mai di contraddirti, perché so che le tue parole sono dettate da realismo, più che da pessimismo; inoltre la cosa che tu dici circa il bisogno di maggiori risorse economiche pone un ostacolo ancora maggiore : dove trovarle in questi momenti di crisi mondiale ?
Non ci resta che affidarci alla Provvidenza Divina.
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