venerdì 31 luglio 2009

ANNI DI PIOMBO, INQUIETANTE DOCUMENTAZIONE (click)

Dal blog CIELI LIMPIDI di Gabriele Paradisi (raggiungibile cliccando sul titolo) si apprendono cose davvero inquietanti su Moro, la sua morte, la strage di Bologna e il lodo Moro...
Episodi terribili di quelli che vengono definiti Anni di piombo e su cui ancora non si è fatta sufficiente chiarezza.
Fin quando questa non sarà fatta, ci porteremo sulle spalle un peso che non farà di questa Italia un Paese libero.

Succede oggi a Rubaix, in Francia. Quando in Italia?

28.07.2009

Riportiamo le dichiarazioni di Mohamed Sabaoui, giovane sociologo dell'università cattolica di Lille, d'origine algerina, naturalizzato francese, indicative di Eurabia in arrivo :

La nostra invasione pacifica a livello europeo non è ancora giunta a termine .. Noi intendiamo agire in tutti i paesi simultaneamente. Siccome ci date sempre più spazio , sarebbe stupido da parte nostra non approfittarne. Noi saremo il vostro Cavallo di Troia. I Diritti dell'uomo di cui vi proclamate autori , ora vi tengono in ostaggio. Così, per esempio , se voi doveste parlarmi in questo modo in Algeria , o in Arabia Saudita , come stò facendo ora io con voi , sareste immediatamente arrestati . Voi Francesi non siete capaci di imporre rispetto ai nostri giovani. Perché dovrebbero rispettare un paese che capitola davanti a loro ? Si rispetta solo chi si teme . Quando avremo il potere noi , non vedrete più un solo immigrato dar fuoco a una macchina o svaligiare un negozio........ Gli Arabi sanno che la punizione inesorabile per un ladro è, da noi , il taglio della mano .
E sempre lo stesso Mohamed Sabaoui in un'intervista recente : “”Le leggi della vostra repubblica non sono conformi a quelle del Corano e non devono essere imposte ai musulmani che possono essere governati solo dalla Sharia . Noi quindi dovremo agire per prendere il potere che ci è dovuto. Cominceremo da Roubaix che è attualmente musulmana al 60%. Alle prossime elezioni municipali , mobilizzeremo i nostri effettivi e il prossimo sindaco sarà musulmano. Dopo aver negoziato con lo Stato e la Regione, dichiareremo Roubaix enclave musulmana indipendente e imporremo la Sharia(la legge di Dio) a tutti gli abitanti . La minoranza cristiana avrà lo statuto di Dhimmi . Sarà una categoria a parte che potrà riscattare libertà e diritti col pagamento di una tassa speciale. Inoltre faremo ciò che serve per portarli alla nostra religione . Decine di migliaia di francesi hanno già abbracciato l'Islam di loro volontà , perché mai i cristiani di Roubaix non dovrebbero farlo ? Attualmente all'Università di Lille organizziamo le brigate della fede, incaricate di convertire gli abitanti di Roubaix riluttanti , cristiani o ebrei che siano , per farli entrare nella nostra religione, perché Dio lo vuole ! Noi siamo i più forti perché Dio l'ha voluto . Noi non abbiamo l'obbligo cristiano di portare aiuto all'orfano, al debole , all'handicappato . Noi possiamo e dobbiamo invece schiacciarli se costituiscono un ostacolo , soprattutto se sono infedeli.
Mohamed Sabaoui ripete questi concetti fin dal 1996 quando aveva 25 anni ed era studente .Ora è sociologo ma anche cofondatore del “Comitato per la Difesa dei musulmani di Francia “ quindi rappresenta il famoso Islam delle moschee.
Questi concetti sono stati più volte ripetuti in interviste ,articoli e libri . E non crediate siano il frutto di un pensiero isolato , se l'islam diventasse maggioritario in Europa , di questo passo è previsto nel 2050 se non reagiamo , è l'insieme dei musulmani che adotterà questi concetti e questo pensiero e siate sicuri che il loro modo di agire sarà pari all'odio che gli ispiriamo .
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=30387

mercoledì 29 luglio 2009

L'Unità d'Italia è una cosa seria. (click)

Celebrazioni per i 150 anni

Serve un'iniziativa all'altezza dell'evento

intervista a Luigi Compagna di

Fabrizia B. Maggi

28 Luglio 2009

Ancora troppi progetti, poche buone intenzioni e niente di concreto per i festeggiamenti del 150° anniversario della nascita del Regno. Da più parti sono emerse critiche all’organizzazione, al sistema dei finanziamenti ma anche alla sostanza della stessa celebrazione. Lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, presidente dell’organo istituito per organizzare l’evento, non ha escluso di dimettersi. Abbiamo chiesto allo storico e senatore del Pdl, Luigi Compagna cosa ne pensa della vicenda.

Professor Compagna, venerdì scorso ha presentato un’interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. Perché lo ha fatto?

Ritengo che le iniziative celebrative del 150° anniversario dell’Unità d’Italia non siano adeguate. Sia in termini storici che in termini simbolici. Non esiste neppure un progetto all’altezza dell’evento. Da più parti ci sono state numerose critiche per l’organizzazione e la sostanza stessa della festa: basti pensare che non si capisce quali risorse verranno utilizzate e da chi saranno finanziate le spese.

Nella sua interrogazione ha proposto di istituire un nuovo organo che sovraintenda la celebrazione.

Molti dei componenti hanno annunciato le loro dimissioni dal “Comitato dei Garanti” e lo stesso presidente Carlo Azeglio Ciampi, in una intervista giornalistica, non ha escluso di dimettersi. Ho chiesto di sciogliere il cosiddetto comitato e di creare al suo posto un comitato nazionale di storici. Un’altra grave mancanza è mancato coinvolgimento dell’Archivio Centrale dello Stato, che è il custode della memoria storica nazionale e che, in seno al Comitato Nazionale presieduto allora dal senatore a vita Leo Valiani, nel 1986 fece un gran lavoro per i festeggiamenti del quarantesimo anniversario della Repubblica, anche grazie al suo futuro direttore professor Aldo Ricci.

E che differenza c’è tra il “Comitato dei Garanti” e quello che lei ha proposto?

In primo luogo, sarebbe formato da storici e specialisti nella materia col compito di sovrintendere alle iniziative per le celebrazioni dell'Unità d'Italia, che operando poi in seno all’Archivio Centrale dello Stato, potrebbe elaborare con la collaborazione di altri istituti dei beni culturali, università ed altri centri di ricerca un programma di manifestazioni culturali tutte di carattere nazionale. Ad esempio, solo se includiamo l’Archivio si potrebbe contare con l’importantissimo apporto degli Uffici Storici dello Stato Maggiore della Difesa, essenziali per la ricostruzione storiografica e di grande valore scientifico.

Lei ha anche criticato che sia stata lasciata alle Regioni troppa autonomia.

Sì, perché non si comprende per quale ragione tali iniziative debbano consistere in “un intervento infrastrutturale per ciascuna regione”, quasi a voler per forza identificare nelle istituzioni regionali il filo conduttore della vicenda dello Stato nazionale. Nessuno critica le iniziative a base regionale ma, come ha fatto bene a sottolineare Ernesto Galli della Loggia, il co-finanziamento va bene solo se c’è chiarezza. La collaborazione con Regioni ed Enti locali deve essere finalizzata al tema dell'identità nazionale nella storia d'Italia, e non viceversa. Nel 2011 insomma si deve festeggiare l’identità della Nazione italiana, e non la sua articolazione regionale.

Visto che una caratteristica del nostro Paese è proprio la diversità culturale e storica, qual è il problema di svolgere le celebrazioni con un'impronta più locale?

Il rischio è, innanzitutto, di finire nel caos istituzionale. Non critico i progetti regionali. Ritengo solo che le iniziative di carattere locale devono avere un’ispirazione nazionale che può essere garantita solo da un coordinamento unico. Poi c’è il problema della mala gestione che esiste nel Mezzogiorno. Affidare alle regioni la memoria storica porterebbe a una lotta tra Nord e Sud che rischia di banalizzare questa celebrazione. Lasciare la gestione dell’evento agli istituti scientifici come l’Archivio Centrale dello Stato, l’Istituto Nazionale del Risorgimento o quello di Storia Moderna e Contemporanea, è una garanzia contro una visione puramente propagandistica e limitata della storia d’Italia.

Che cosa si aspetta quindi che esca dal Consiglio dei Ministri che esaminerà la questione della celebrazione dell’anniversario dell’Unità d’Italia?

C’è bisogno di una ridiscussione critica, senza che diventi un’orgia di retorica, di tutti i motivi all’unità nazionale, anche quelli di contrasto. Spero che si corregga l’impostazione di lasciare tutta l’organizzazione in mano alle istituzioni regionali e di servirsi di queste occasioni celebrative solo per far arrivare più soldi al ministero dei Beni culturali. Da sempre, l’Archivio dello Stato è il custode della memoria storica dell’Italia. Mi auguro che grazie al buon senso del ministro Bondi si possa dare l’impostazione originale dello stesso presidente Ciampi quando era capo dello Stato, quello di mettere al centro il tema delle radici della Nazione Italia.

Ernesto Galli della Loggia ha accusato la classe politica di aver perso il senso dell’identità dell’Italia. E Vittorio Feltri ha scritto che la maggioranza degli italiani considera i 150 anni dell’Unità d’Italia “una iattura da non festeggiare”. Ma le cose stanno davvero così?

Nell’articolo di Galli della Loggia ci sono allusioni più maliziose di quelle che, secondo me, ci siano nella realtà. E’ vero che la politica dei Bassolino, dei Loiero e dei Vendola non fanno che svendere il sentimento unitario della nazione, come è altrettanto vero che Calderoli non è il mio ideale di politico. Ma ho la sensazione che gli italiani si sentano più vicini allo Stato e a queste celebrazioni quando viene amministrato bene il territorio. Quando il premier Berlusconi decise di portare il Consiglio dei Ministri a Napoli per combattere il problema della spazzatura, gli italiani si sono entusiasmati perché hanno avuto la sensazione che Napoli fosse stata restituita allo Stato. Il leghismo nasce da un’insoddisfazione dello Stato. Se rispondiamo al problema regionale dando spazio sempre di più al regionalismo e al federalismo ignorando lo Stato, finiremo col dover dare ragione al barone Metternich quando, più di 150 anni fa, disse che l’Italia non è altro che un’espressione geografica.

Ma il Paese dimentica questo SCIENZIATO (click)

L'intervento Inglesi, vi stanno disinformando.

di Antonino Zichichi

È fuori discussione che l'Inghilterra sia stata la culla della democrazia moderna e chi scrive ha avuto il privilegio di conoscerla agli inizi dei lontani anni cinquanta del secolo scorso, quando a Londra era quasi impossibile trovare un ristorante in cui si potessero mangiare gli spaghetti, per non parlare del «caffè ristretto». Arrivato in Inghilterra venni accolto con una tale carica di simpatia da dimenticare le difficoltà di una lingua che conoscevo da autodidatta. Il capo del gruppo di ricerca nel quale ebbi il privilegio di entrare era una figura mitica della Fisica: il Professore Patrick M.S. Blackett, Grande Ammiraglio della Marina Britannica, Premio Nobel e Lord. Aveva scoperto negli anni trenta, con il nostro Beppo Occhialini (uno dei padri fondatori della fisica italiana del dopoguerra), la produzione nei raggi cosmici di antielettroni ed elettroni prevista dall'equazione di Dirac. Scoperta destinata ad aprire le frontiere della realtà detta virtuale in quanto nessuno strumento riuscirà mai a osservarla, ma che produce effetti misurabili con rigore galileiano. Blackett era amico di Bertrand Russell al quale volle presentarmi per discutere di Galileo Galilei. Nelle sue parole di presentazione c'era tutta la simpatia e la stima per l'Italia. Grazie a Blackett entrai nel cuore della Fisica moderna. La scoperta dell'antimateria nucleare, mi portò a conoscere un altra figura mitica, l'autore della famosa equazione prima citata, Paul Dirac, che ci aprì gli occhi sulla esistenza di antiparticelle, antimateria, antistelle e antigalassie. Insomma oltre al mondo deve esistere un antimondo. Quando Dirac mi invitò a casa sua per festeggiare la scoperta dell'antimateria nucleare, la Signora Dirac (ungherese), sapendo che ero siciliano, preparò come dolce l'equivalente ungherese della «cassata siciliana».
Può una Nazione che vanta un altissimo numero di scienziati, tutti amanti dell'Italia, avere della nostra Patria un'idea tanto negativa come sembra emergere da una parte della stampa inglese? Si potrebbe pensare a un affettuoso interesse per evitare che in Italia si instauri una dittatura. Il governo è però retto da una persona democraticamente eletta. La popolarità di Silvio Berlusconi è sotto gli occhi di tutti. Il motivo è nei risultati che il governo da lui guidato riesce ad ottenere, nonostante le enormi difficoltà in cui è costretto a operare. Difficoltà legate al fatto che i cinquant'anni di guerra fredda - con la celata alleanza tra governo (Dc e alleati) e opposizione (Pci) - hanno prodotto in Italia un sistema in cui chi vince le elezioni ha enormi difficoltà a governare.
Quando si scriverà la Storia di questo angolo d'Europa verrà fuori che senza l'ingresso in politica di Berlusconi ben cinque anni dopo il crollo del Muro di Berlino si sarebbe realizzato un fatto senza precedenti. A reggere le sorti del nostro Paese sarebbero state chiamate quelle stesse forze condannate e perdenti nella storia del mondo i cui ideali hanno portato al Muro di Berlino, che ha due componenti, una politica e una culturale. Quella politica ha dovuto scontrarsi con Berlusconi, quella culturale con nessuno in quanto durante il mezzo secolo di Guerra Fredda il potere culturale in Italia è stato totalmente dominato dalla sinistra. Ecco come mai se sei di sinistra non hai bisogno né di invenzioni né di scoperte per essere classificato tra gli scienziati: la componente culturale del Muro di Berlino è rimasta intatta. Gli attacchi a Berlusconi trovano infatti ancora oggi subito appoggio e condivisione in quella cultura dominante aggrappata al Muro di Berlino.
Non è necessario essere politologi per capire che in Italia non c'è alcuna dittatura. Le elezioni sono libere. Non ci sono persone che vengono picchiate, manganellate, incarcerate per le loro idee. Eppure c'è qualcosa di grave nelle informazioni che vanno dall'Italia all'estero. La saggezza popolare, che nel corso della lunga Guerra Fredda non ha mai dato il potere al Pci esiste ancora e lo dimostrano i risultati elettorali che nel 1994 hanno dato la vittoria a Berlusconi; poi c'è stato il ribaltone e il potere è andato alla sinistra. Nel 2001 ha vinto le elezioni Berlusconi che è rimasto fino al 2006, anno in cui le elezioni le ha vinte Prodi che, per liti interne alla sinistra, fu costretto a lasciare nel 2008; le elezioni hanno riportato Berlusconi al governo.
Non avrei mai pensato che nella culla della democrazia potessero essere diffuse notizie che non hanno alcun legame con la verità. Questa disinformazione reca gravissimi danni all'immagine dell'Italia nel mondo. Quando Berlusconi è stato sconfitto, si è seduto sui banchi dell'opposizione e ha fatto politica. Non ha demonizzato i suoi avversari. È rimasto nel gioco della democrazia: chi vince governa, chi perde torna a casa. E sarà così anche alle prossime elezioni. Chi non accetta la scelta della maggioranza degli italiani, sono quelli rimasti aggrappati al Muro di Berlino. È lì che percepisco un sentimento anti-democratico. È la logica di chi dice: Berlusconi non può governare perché indegno, quasi fosse il simbolo di un male metafisico. Berlusconi il nemico, Berlusconi da odiare, Berlusconi da delegittimare e abbattere con ogni mezzo. Berlusconi, il tiranno.
Chi evoca la dittatura in tempi di democrazia offende i martiri di tutti i totalitarismi: quelli di Hitler e di Pol Pot, di Stalin e della Spagna di Franco, di Tito, del fascismo, del Portogallo di Salazar, i desaparecidos argentini, gli studenti cinesi, i vietnamiti e i coreani del nord, le vittime cilene e di tutte le teocrazie islamiche o non islamiche, i martiri di Cuba e di quei Paesi del Sudamerica, dell'Asia e dell'Africa dove la libertà è morta. Alcuni fra questi erano poeti, commediografi, romanzieri. E hanno narrato e raccontato, con l'ombra della morte alle spalle, la tragica realtà delle dittature. Non avevano giornalisti ad ascoltarli, ma giustizieri. È troppo facile, e terribilmente vile, fare gli antifascisti senza fascismo.
Cari amici invitate i vostri lettori a venire in Italia per constatare se c'è democrazia o dittatura. Negli ultimi quindici anni sono venuti in Italia decine di migliaia di scienziati da tutto il mondo per partecipare alle attività del Centro di Cultura scientifica Ettore Majorana a Erice, che appartiene anche a voi inglesi essendo nato grazie a Blackett e a un grande amico e collega inglese, John S. Bell, autore del famoso Teorema della Disuguaglianza, che porta il suo nome. Invitate i vostri lettori a verificare queste verità; invitateli a visitare in Abruzzo un gioiello della scienza di frontiera: il più grande e potente laboratorio sotterraneo del mondo, dove il sole non sorge né tramonta. Brilla sempre, giorno e notte, di neutrini. Berlusconi è accusato di infischiarsene di scienza e cultura. I fatti dicono che non è così. Berlusconi ha scelto, come suo braccio destro, una persona da tempo impegnata nella cultura moderna, Gianni Letta, che ha al suo attivo il coraggio di avere creato in Italia una pagina scientifica su un quotidiano di cui era il direttore; il successo dell'iniziativa ha portato i giornali di massima diffusione ad aprire le loro porte alla cultura scientifica. Per i Beni Culturali Berlusconi ha scelto Sandro Bondi che ha dato priorità alla grande alleanza tra cultura scientifica e cultura umanistica. Il suo compito è di straordinaria difficoltà dovendo incominciare ad abbattere l'ancora quasi intoccabile Muro di Berlino «culturale». Per l'Università e la Scienza, Berlusconi ha scelto una giovane ragazza che ha avuto il coraggio di partire con una Riforma contro la quale si sono scatenati gli attacchi della cultura aggrappata al Muro di Berlino. Pochi mesi fa un gioiello della fisica mondiale, il Cern di Ginevra, ha corso il rischio di perdere il sostegno di qualche Nazione. Il governo italiano - grazie a Berlusconi e a Frattini - si è subito mosso per evitare l'inizio di una fase negativa nel più grande laboratorio di fisica subnucleare delle alte energie esistente al mondo. Una delle nostre bandiere è la Scienza senza segreti e senza frontiere. Berlusconi ha proposto Erice per gli incontri di pace tra Palestinesi e Israeliani. Dateci una mano anche voi portando ai vostri lettori le nostre notizie.

*Emeritus Professor of Advanced Physics, University of Bologna, Italy

martedì 28 luglio 2009

La "cultura islamica" : utilizzo di oggi.

martedì 28 luglio 2009, 07:00

«Noi, baby-kamikaze contro i soldati italiani»

di Gaia Cesare su Il Giornale

Hanno imparato che anche uccidere i genitori - «se sono dalla parte sbagliata» - può essere un atto di fede ad Allah. Gli hanno insegnato che combattere i nemici dell’islam è un dovere e che il martirio è la ricompensa migliore per un musulmano. Per sedici ore ogni giorno li hanno allenati fisicamente e indottrinati psicologicamente, in modo che potessero affrontare la morte propria e quella del nemico con il fanatismo che si richiede a un vero eroe dell’islam. Ora le truppe pachistane li hanno catturati. Ma di fronte non si sono trovati kamikaze qualunque. In quel campo di addestramento smantellato dalle forze di Islamabad nella valle dello Swat sono stati «allevati» al martirio fra i 1.200 e i 1.500 bambini. Tutti di età compresa fra gli undici e i quindici anni. Rapiti dai talebani e da loro addestrati per andare a morire in Afghanistan.

Niente scuola, addio agli amici e alla famiglia. I guerriglieri islamici li hanno sequestrati e portati a Mingora, la città nella valle dello Swat, al confine con l’Afghanistan, che in base a un accordo col governo pachistano è rimasta in mano agli integralisti, salvo poi subire l’offensiva militare delle forze di Islamabad quando i talebani hanno disatteso i patti. I piccoli protagonisti di una guerra più grande della loro stessa volontà - una volta catturati dai soldati di Islamabad - hanno raccontato a un giornalista del Times i loro giorni da incubo. Abdul Wahab è stato portato via dalla madrassa, la scuola islamica in cui studiava, e trasferito nel campo con la forza. Ha solo 15 anni: «Mi hanno detto che allenarmi per combattere i nemici dell’islam era dovere di ogni buon musulmano». Poi l’ammissione: «Ero terrorizzato quando mi hanno avvertito che sarei stato addestrato per gli attacchi suicidi». A Murad, 13 anni, hanno messo subito in mano una pistola: «Il mio istruttore mi ha detto che il martirio è la ricompensa migliore di Allah». A Kurshid Khan, 14 anni, hanno insegnato «a non esitare anche ad uccidere i genitori se stanno dalla parte sbagliata». Poi hanno istigato l’odio anche contro le forze pachistane, «diventate amiche dei cristiani e degli ebrei».

Il giorno dell’attacco, il baby-kamikaze viene portato in moschea e elogiato per essere stato prescelto da Dio. E le forze pachistane non hanno dubbi: i bimbi di circa dodici anni allenati alla morte per l’islam sono almeno 1.200. Un numero e una circostanza che si sommano alle notizie svelate da un rapporto delle Nazioni Unite, che ricorda come l’80 per cento degli attentati contro le forze americane e occidentali impegnate in Afghanistan coinvolga persone addestrate in campi militari allestiti in Pakistan.

Per alcuni di questi bambini però c’è una speranza. Dopo il blitz dei soldati pachistani, qualcuno è stato restituito alle proprie famiglie. Murad è tornato a Mingora. «Non avevamo idea di dove fosse finito - ha raccontato il padre. Mi ha fatto orrore sapere che mio figlio potesse diventare un kamikaze».

Qualcun altro però non ha trovato la via di ritorno a casa. Molti sono stati venduti ad altri militanti. Impossibile sapere quanti di loro siano ancora vivi.

L'inno nazionale: una libera traduzione del testo

Italiani, fratelli in una stessa Patria!
È giunta la nostra ora, finalmente. L’Italia si è risvegliata da un sonno troppo lungo e ha indossato nuovamente l’elmo che fu di Scipione l’Africano, l’eroe di Zama.
Se riusciremo a vincere?
Ma non vedete che la dea Vittoria ha scelto di offrirsi alla nuova Italia, affinché rinnovi la gloria di quella Roma antica di cui essa stessa fu schiava, per volere divino?
Considerate la nostra condizione: da secoli siamo schiacciati sotto il tallone straniero, da secoli abbiamo perduto dignità e onore. Questo perché non siamo un vero popolo, perché la nostra Patria è smembrata in sette stati, sette confini, sette insegne. Ma se ci raccogliamo attorno a un unico vessillo di libertà, se ci affidiamo tutti alla medesima speranza di libertà, allora capiremo che è scoccata l’ora di divenire una cosa sola, un’anima sola.
Uniamoci nella concordia, amiamoci nella fratellanza: soltanto attraverso l’unione, soltanto grazie all’amore riusciremo a scorgere e a intraprendere il cammino che il Signore ha voluto destinarci.
Giuriamo, allora, di far libera la nostra Patria: se lo faremo, e se Dio ci renderà uniti, nessuno sarà in grado di sconfiggerci!
Guardatevi attorno. Non vedete che ovunque, dalle Alpi alla Sicilia, si rinnova l’antico giuramento di libertà della Lega Lombarda contro il Barbarossa, che rese sacra la giornata di Legnano?
Non vi accorgete che ognuno di noi è degno di figurare, per generosità e coraggio, accanto a Francesco Ferrucci, colui che difese, nel 1530, la libertà di Firenze contro l’esercito imperiale di Carlo V?
Su di lui, ferito e prigioniero, si scagliò la furia omicida di Maramaldo, italiano al soldo straniero.
Ma fece in tempo, Francesco, a scagliargli l’anatema del disprezzo – Tu uccidi un uomo morto – che avrebbe segnato per sempre, col marchio dell’infamia, il nome del suo uccisore.
Non capite che anche nei più giovani figli d’Italia cova l’animo e l’ardimento del figlio del popolo genovese, il Balilla? Quel sasso scagliato dalla mano di fanciullo divenne un macigno e accese la rivolta che travolse gli Austriaci e li scacciò dalla Superba, giusto cento anni fa.
E non sentite che, oggi, ogni campana d’Italia sta battendo gli stessi rintocchi che, sei secoli fa, chiamarono i siciliani ai loro Vespri?
Gli eserciti mercenari d’Austria sono deboli come giunchi piegati dal vento, e la nera aquila bicipite d’Asburgo, una volta fiera e tracotante, è ormai una spennacchiata parodia di se stessa. È riuscita ancora, è vero, insieme con l’alleato russo, a straziare l’Italia e la fiera Polonia, bevendo il sangue che sgorgava dalle crudeli ferite. Ma quel sangue si è tramutato in veleno, dilaniandole il cuore.
È tempo di agire: ovunque ci si serri in armi, ogni cittadino si faccia soldato. E ciascuno sia pronto a morire, perché a chiamarci è stata la nostra Madre Italia!
GOFFREDO MAMELI
Genova, 1847

lunedì 27 luglio 2009





lunedì 27 luglio 2009, 08:31


Aghanistan, Bossi agita il governo Ma La Russa frena: "No al ritiro"

Roma - "La presenza dei nostri militari in Afghanistan è imprescindibile. Lasceremo il Paese solo quando saranno garantite le condizioni di sicurezza". Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, stronca sul nascere ogni speculazione. Il governo non pensa, né può pensare al ritiro della missione. E le parole di un ministro di peso come Umberto Bossi ("Io li porterei a casa tutti") sono state dettate da uno slancio affettivo, "un sentimento paterno".


La presenza militare in Afghanistan Si affretta a chiudere la vicenda, il ministro della Difesa. Ma le affermazioni del leader della Lega, consegnate ai giornalisti nella notte di sabato, mettono in difficoltà il governo. Sia perché per la prima volta mostrano possibilità di spaccature sulle missioni militari all’estero. Sia perché scoprono il fianco all’opposizione. Con il Partito democratico che invoca sicurezza per i militari e l’Italia dei valori che chiede di "ridiscutere in Parlamento il senso della missione". "Torneremo indietro - assicura La Russa - quando avremo concluso l’obiettivo della missione, che è dare all’Afghanistan la possibilità di gestire autonomamente il territorio".


L'invito di Bossi al rientro Commentando il ferimento, ieri, di alcuni militari, Bossi sosteneva: "La missione costa un sacco di soldi e visti i risultati e i costi bisognerebbe pensarci su". Una questione di rapporto benefici-costi, quella che ha posto il ministro delle Riforme, dunque. Ma dal governo il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta si affretta a bocciarla e il titolare della Difesa la derubrica a reazione sentimentale: "pensieri da papà". "Le opinioni di Bossi sono rispettabilissime - taglia corto anche il presidente della commissione Esteri del Senato, Lamberto Dini - ma non sono quelle dei partiti di maggioranza e opposizione".


L'impegno italiano Del resto niente sul fronte governativo lascia intravedere una riduzione dell’impegno in Afghanistan. Anzi, di fronte a quella che "è visibilmente un’escalation", il ministro degli Esteri Franco Frattini in un’intervista al Corriere della Sera assicura che i militari italiani saranno messi in condizione di fronteggiare i pericoli: "aumenteremo i Predator e la copertura dei Tornado". Mentre La Russa annuncia un vertice della Difesa tra martedì e mercoledì prossimi a L’Aquila, per fare il punto della situazione. E il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, chiarisce che "nelle prossime ore" otterrà il via libera definitivo a Palazzo Madama la legge che proroga la partecipazione italiana alle missioni. Ma intanto l’opposizione mette in evidenza le divisioni nel governo. Il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, sottolinea che sulla vita degli italiani "non si può giocare" e non si può avere "la lingua biforcuta". Mentre l’Italia dei valori chiede di "ridiscutere il senso della missione" (missione di pace o partecipazione a una guerra?), dopo il 20 agosto, data delle elezioni afghane.


Quanto al Pd, mentre gli ex alleati della sinistra estrema tornano a invocare il ritiro, i democratici rispondono compatti che non è in discussione la presenza in Afghanistan. "Il primo nostro dovere è proteggere i nostri soldati", sottolinea il segretario Dario Franceschini, il quale chiede al governo di "ridefinire i termini della missione" a livello internazionale, dopo l’escalation. Ma "non si può tornare indietro", dice il presidente del Copasir Francesco Rutelli, che, alludendo a Bossi, invoca il "pieno supporto delle istituzioni" per i militari. Mentre l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi intima al governo di attenersi ai termini delle missioni così come approvati dal Parlamento, senza prendere altre decisioni.
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sabato 25 luglio 2009

QUALUNO INTERVENGA (click)

Cattiva Difesa?

Di Lisio: le responsabilità della sua morte non ricadono solo sui talebani

25 Luglio 2009

Il 14 luglio 2009, in Afghanistan un ordigno esplode al lato della strada 517 e il caporalmaggiore Alessandro Di Lisio perde la vita. Ma se il mezzo investito dall’onda d’urto dell’esplosione fosse stato costruito a prova di IED (Improvised Explosive Device), il nostro militare oggi sarebbe ancora vivo.

Il caporalmaggiore, Alessandro Di Lisio.

E’ il 12 ottobre 1492. Le tre caravelle di Cristoforo Colombo, la “Nina”, la “Pinta” e la “Santa Maria”, veleggiano verso le Indie, o presunte tali. Alle due di notte un grido sveglia i marinai della “Pinta”: “Terra, terra!”. Chi grida è il marinaio andaluso Juan Rodriguez Bermejo, detto dagli amici Rodrigo De Triana, abbarbicato sulla coffa della nave. Oggi, in linguaggio militarese, lo chiameremmo il “coffista”. Rodrigo ha intravisto la terra illuminata dalla luna ed ha annunciato agli altri marinai della spedizione che la missione era compiuta. Le Indie erano a portata di mano. Anzi no, si trattava dell’America, ma poco importava.

Oggi a Siviglia, nel quartiere Triana che diede i natali a Rodrigo, un monumento lo raffigura in piedi sulla coffa, la mano destra aggrappata all’albero, la sinistra rivolta verso il nuovo continente, la bocca aperta nel grido rimasto famoso. Sul basamento, una scritta semplice ed eloquente in lingua spagnola: “Tierra, tierra!”

Pochi sanno che il Bermejo, di religione islamica, dovette convertirsi al cristianesimo per potersi imbarcare sulle caravelle del cristianissimo Re di Spagna, altrimenti nessuno lo avrebbero accettato. Un forte incentivo fu rappresentato dall’ingente premio in denaro che Cristoforo Colombo promise a colui che per primo avrebbe avvistato la terra agognata. Ma Rodrigo non ricevette alcun premio. I maligni spiegano il fatto sottolineando che Colombo, in fin dei conti, era genovese. E così, al ritorno dal suo lungo viaggio, a causa della delusione per il mancato pagamento della ricompensa promessa da Colombo, Rodrigo si riconvertì alla religione cui apparteneva suo padre. E la spedizione ritornò in Europa con un cristiano in meno e un musulmano in più.

Nel mezzo millennio successivo, la figura del “coffista” passò gradatamente di moda, fino a scomparire del tutto. L’invenzione della bussola, del sestante, del cannocchiale, la migliorata precisione delle carte nautiche, la radio, il radar, i satelliti, il GPS e tutte le più moderne diavolerie consentirono alla marineria di archiviare la benemerita figura del “coffista”, che oggi sarebbe assurda su qualsiasi nave da guerra o mercantile.

E’ il 14 luglio 2009. In Afghanistan, sulla strada 517, quella che collega Farah, una provincia nell’estremo ovest del Paese, con la Ring Road, il “grandissimo raccordo anulare” di asfalto che circonda tutto l’Afghanistan, un IED (Improvised Explosive Device) posto al lato della strada esplode al passaggio di un convoglio italiano. Il mezzo investito dall’onda d’urto dell’esplosione si ribalta. Per il militare che sporgeva dal mezzo, come Rodrigo sulla “Pinta” ben 517 anni fa, non c’è niente da fare. In quelle condizioni, se non è fatale l’onda d’urto dell’esplosione, lo sono gli effetti del ribaltamento del mezzo.

Il mezzo in questione viene spesso magnificato in quanto portatore di una innovazione avveniristica: un alloggiamento interno dotato di una piastra corazzata a forma di “V” che devia verso i lati gli effetti delle esplosioni. Ebbene, l’innovazione è talmente “avveniristica” che nel 1992, quando siamo andati in Mozambico a sostituire l’esercito zimbabwano che presidiava il corridoio di Beira, ci siamo accorti che gli Zimbabwani (e non, si badi bene, gli Israeliani, gli Americani o i Marziani, bensì gli Zimbabwani dello Zimbabwe) già possedevano da vari anni la stessa tecnologia. Lo strategico corridoio di Beira, a quel tempo, era percorso da pattuglie dell’ex Rhodesia del Sud a bordo di veicoli trasporto truppa dalla forma sagomata a V. Brutti a vedersi e somiglianti a strani animali preistorici (noi peacekeepers del contingente italiano dell’ONU li chiamavamo scherzosamente “blindosauri”), questi blindati erano particolarmente efficaci quando si trattava di attraversare tratti di terreno minato: se la mina scoppiava, l’onda d’urto che partiva da terra veniva deviata verso i lati delle fiancate ma non riusciva a bucare il fondo. E la squadra fucilieri che stava all’interno era salva.

Ma il Mozambico del 1992 (secolo scorso, millennio scorso) è diverso dall’Afghanistan del 2009. Oggi le mine non sono più a basso potenziale e non scoppiano più sotto la pancia dei mezzi quando ci si va a sbattere sopra, oggi gli IED sono ad elevato potenziale, magari a carica cava, e vengono posti ai lati delle strade, vengono perfettamente mimetizzati tanto da assomigliare a rocce qualunque e vengono azionati da lontano, elettricamente o via radio.

Se la tecnologia della corazza a “V” è in ritardo di un ventennio su un decoroso ma modesto esercito dell’Africa Australe, la ralla lo è di mezzo millennio rispetto alla coffa della “Pinta”. La ralla è quell’arnese circolare su cui ruota la mitragliatrice in torretta, azionata dal malcapitato rallista che per manovrarla si deve sporgere dal mezzo.

Questa procedura può essere utile per missioni di ordine pubblico in ambienti urbani e di bassa intensità, ma nulla può contro gli IED afgani provenienti dall’Iraq, dove sono stati testati, sviluppati, resi sempre più micidiali e poi esportati.

Inizialmente in Iraq i mezzi americani che pattugliavano il territorio erano anch’essi armati con una mitragliatrice in torretta protetta da uno scudo corazzato, manovrata da un mitragliere che stava seduto a cavalcioni su una cinghia basculante (come le strisce di plastica incrociate dei salvagente per bambini, su cui si accucciano i neonati alle loro prime esperienze balneari) che gli permetteva di sporgere dal veicolo soltanto dal torace in su. Man mano che la minaccia degli IED aumentava, quella cinghia basculante è stata battezzata “il sedile dell’uomo morto”.

Il passo successivo è stato quello - ovvio ma non per tutti - di adottare un sistema di comando dell’arma dall’interno del mezzo, oggi in vigore su quasi tutti i mezzi militari e non solo. Anche i veicoli in dotazione alle compagnie private di sicurezza come la “Blackwater”, infatti, hanno le mitragliatrici che vengono azionate da un operatore che sta all’interno del mezzo. Che i mitraglieri della Blackwater sparino lungo il percorso contro tutto ciò che si muove, è un’altra storia ma intanto, protetti all’interno del veicolo, potranno morire d’infarto o di vecchiaia, ma non certo per gli effetti di un’esplosione. E nemmeno per il ribaltamento del mezzo.

I rallisti italiani, invece, continuano a sporgere all’esterno del veicolo, novelli Rodrigo De Triana, e sembrano condannati fin dal momento della partenza del convoglio: più bersagli che Bersaglieri.

Riusciremo un bel giorno a superare il 1492? Riusciremo mai a non giocare a calcio come se fossimo in guerra e a non andare in guerra come se fosse una partita di calcio? Riusciremo mai a far sì che la Difesa pretenda e ottenga dall’Industria ciò che serve anziché farsi imporre dall’Industria ciò che quest’ultima preferisce? I soldati che impieghiamo in missioni all’estero hanno diritto al “meglio”, al non plus ultra degli armamenti, degli equipaggiamenti e della sicurezza. Per salvaguardare le loro vite non dobbiamo badare a spese.

E se siamo così miserabili da non poterci permettere le spese, teniamoli a casa. Un Paese che non dà il meglio ad Alessandro Di Lisio, non è degno di Lui.

venerdì 24 luglio 2009

BRUNO CONTRADA è ancora vivo (click originale)

(coipia)
PALERMO, 8 LUGLIO 2009


Caro Avvocato,
tra poco sarà un anno dal giorno (24-7-2008) in cui, aperti l’uno dopo l’altro i sette cancelli frapposti fra la mia cella nel carcere militare e la strada, sono tornato alla mia famiglia, nella mia casa, in detenzione domiciliare.
La ricorrenza mi suscita emozioni, sentimenti e pensieri; tra questi ultimi, ma primo più sentito, quello rivolto alla Sua persona.
Un pensiero che non voglio tenere chiuso in me, per me soltanto, come è per tanti altri, ma a Lei trasmettere in semplici e spontanee parole. Prendo, quindi, un foglio e una penna e Le scrivo una lettera che – La prego - non consideri una formale e doverosa forma di ringraziamento e gratitudine.
Se ciò fosse, incorrerei nel banale, nell’ovvio, nel vieto.
Pertanto, in questa circostanza, metto da parte, anche se in me radicati e vivi i sensi della mia riconoscenza per il perseverante, tenace, infaticabile, ineguagliabile e ammirevole operato professionale da Lei svolto per la mia difesa in varie sedi giudiziarie, sin dal nostro primo incontro in carcere, il 15 dicembre 2008.
Ora mi rivolgo e parlo con l’uomo Giuseppe Lipera e non con l’avvocato Giuseppe Lipera. Perciò mi permetto indirizzare lo scritto al “caro avvocato” e non “all’illustre avvocato”.
Lei, da uomo, ha creduto in un altro uomo, Lei ha avuto fiducia in me ed ha abbracciato e sostenuto con vigore, volontà inflessibile, nobiltà d’animo, la mia “causa” umana, anteponendola e privilegiandola a quella giudiziaria.
Lei si è ripromesso e mi ha promesso di non lasciare nulla di intentato acchè la pietra sepolcrale della cosiddetta giustizia definitiva e inderogabile seppellisse nell’oblio, nel silenzio, nell’oscurità, e nel freddo dell’indifferenza, ogni mia residua, labile ed evanescente speranza.
Lei ha creduto nella mia innocenza prima da uomo e poi da giurista e ciò le ha dato la forza incrollabile, - anche a me trasmessa, nonché ai miei addolorati familiari,- di lottare, di opporsi, di non deflettere, di mai arrendersi per allievare intanto la mia sofferenza fisica e morale. La sofferenza morale (innanzi tutto) e fisica di un vecchio uomo dello Stato, per età e per servizio, rinchiuso ingiustamente e inumanamente tra sbarre e cancelli, in attesa della fine della pena, non soltanto di quella giudiziaria ma anche di quella terrena.
Lei stato il vento che ha gonfiato le vele afflosciate e rimesso in movimento la barca della mia esistenza destinata alla deriva per la quiete dell’indifferenza e della non curanza di uomini ingiusti e ingrati.
Il primo porto è stato la mia casa,nel calore degli affetti familiari, tra le mie cose, con i miei libri, tra i ricordi della mia vita passata e di quelli che mi hanno preceduto.
Sono ormai un uomo vecchio e, per legge di natura, l’ultimo porto cui approdare non è molto lontano… Ma l’ultimo tratto del viaggio è più sereno perché sono nella mia casa, nel mio rifugio e non più ai ceppi, che danno immensa sofferenza ai colpevoli ma sofferenza insopportabile e distruttiva a chi di nessuna colpa si è macchiato.
Il mio attuale stato lo devo a Lei e spero che lei vorrà continuare ad essere ancora il vento che dia slancio alla barca della mia residua esistenza.
Un abbraccio forte, suo
Bruno Contrada.
p.s.
“Res iudicata facit de albo nigrum, originem creat, aequat quadrata rotundis, naturalia sanguinis vincula et falsum in verum mutat”
Lei, illustre avvocato Lipera, ha operato e lottato e ancora lo sta facendo affinchè, siffatto brocardo, non si applichi anche a me...

mercoledì 22 luglio 2009

Afghanistan - Così il destino delle donne (click)

22/07/2009 - 12.15

AFGHANISTAN: PIU' DONNE SCELGONO IL PERCORSO A OSTACOLI DEL DIVORZIO, DIMINUITI I SUICIDI


(IRIS) - ROMA, 22 LUG - Accade grazie alle associazioni di donne. E accade per la loro autodeterminazione. Meno donne Afghane scelgono il suicidio in favore del divorzio, nonostante un percorso legale difficile e complesso per la legge impari in materia. ''Nel 2006 abbiamo avuto 98 casi di donne che si sono auto-immolate, mentre nel 2008 sono scesi a 73'', spiega Suraya Pakzad, a capo di una casa di accoglienza per donne ad Herat. La sua organizzazione aiuta le mogli afgane a liberarsi da da matrimoni difficili dove la violenza fiisica e psichica ad opera dei mariti tende a scoraggiare le donne ad intraprendere il percorso del divorzio.. La legge afghana sul divorzio consente agli uomini di mettere fine al matrimonio senza chiedere il consenso della moglie, mentre le donne devono avere l'ok dei mariti e portare in aula testimoni che sostengano le ragioni della separazione. Spesso, per ottenere il consenso dei mariti, le donne sono costrette a rinunciare all'affidamento dei figli. ''Ma in questo caso molte preferiscono togliersi la vita piuttosto che vedersi togliere i figli'', spiega Pakzad

T.San

Più PREDATOR per i nostri Parà.

mercoledì 22 luglio 2009, 07:00

«Manderemo più Predator Sulla sicurezza non si transige»

di Gian Micalessin su Il Giornale

Farah (Afghanistan). Un anno dopo si ricomincia da Farah. Nell'inferno di sole e polvere il ministro Ignazio La Russa in mimetica e sciarpa tattica è di nuovo davanti ai suoi soldati. Un anno fa fu per sdoganare la missione, per svelare la verità - fino ad allora mai interamente raccontata - di un Afghanistan dove garantire la sicurezza significa anche combattere. Ora quell'anno è un secolo. Ora il ministro fa i conti con il fantasma di Alessandro Di Lisio , il ragazzo della Folgore saltato su una trappola esplosiva sulla ring road, l'anello d'asfalto che collega questa base al resto dell'Afghanistan. I suoi compagni del reggimento guastatori e quelli del 187° Folgore sono tutti qui, una macchia di mimetiche e baschi amaranto in una fornace di sabbia cucinata da un sole a 50 gradi.

Non hanno bisogno d'incoraggiamento. «Hanno ripreso a lavorare quel giorno stesso con la dedizione di sempre, con un impegno che solo chi sta qui può apprezzare», ricorda orgoglioso il generale Rosario Castellano, comandante del settore ovest. Ma il ministro lo ripete da quando è salito sull'aereo: «Sulla sicurezza non si transige». È il leitmotiv del viaggio, l'impegno con la I maiuscola annunciato qui a Farah e - tre ore prima - nella piazza d'armi del comando di Herat. «È un impegno solenne, lo prendo davanti a tutti voi, ci potranno essere ristrettezze di bilancio per qualsiasi settore, ma Parlamento, ministro e governo non defletteranno mai, vi garantiremo il massimo di sicurezza, di mezzi, misure e addestramento». Quella promessa non è solo rispetto per il caporalmaggiore morto. Quel lutto è la punta dell'iceberg, la tragedia arrivata a ricordare che l'Afghanistan è a una svolta cruciale e che da qui alle presidenziali del 20 agosto la situazione potrà soltanto peggiorare.

Le statistiche illustrate al ministro dal generale Castellano nella sala briefing di Herat sono pericolosamente eloquenti. Se nei primi sette mesi del 2008 le trappole esplosive rinvenute dai nostri soldati erano 27, quest'anno sono già 56, se quelle esplose nel 2008 erano 38, nel 2009 sono diventate 54. Per attacchi convenzionali e suicidi l'impennata è la stessa. Come rispondere? Il ministro l'ha spiegato a Herat: «Per innalzare il livello di sicurezza manderemo più Predator, più elicotteri, e se sarà opportuno più copertura aerea pur senza bombardare». In quei tre ingredienti si sintetizza la nuova cura. I Predator, l'aereo telecomandato, il grande fratello capace di vigilare giorno e notte su strade e percorsi si è già rivelato prezioso per individuare le cellule specializzate nell'interramento di trappole esplosive. Gli elicotteri d'assalto Mangusta sono fondamentali grazie all'impiego chirurgico di missili e cannone di bordo per portare soccorso immediato alle unità sotto attacco. Più complessa e tutta da verificare, precisa il ministro, la possibilità di utilizzare i due Tornado non soltanto per semplici ricognizioni, ma anche per il sostegno alle truppe sul terreno. «Si potrebbe non dotarli di bombe utilizzarne solo il resto dell'armamento per evitare il rischio di perdite collaterali e sfruttarne la precisione quasi pari a quella degli elicotteri unita a velocità d'intervento molto elevata».

Le riflessioni sulla sicurezza vanno di pari passo con un impegno che tra qualche mese si concentrerà esclusivamente nelle quattro province occidentali e diventerà probabilmente sempre più intenso e caldo qui a Farah e nella ridotta di Bala Mourghab all'apice nord occidentale del nostro settore. «Il progetto - spiega il ministro - è mettere fine al nostro impegno nella zona di Kabul e trasferire tutte qui le nostre truppe». Il trasloco dalla capitale e dalla valle di Musay garantirà al fronte occidentale un totale di circa 2.700 uomini e un'unità d'intervento e azione fondamentale per utilizzare al meglio il potenziale militare.

lunedì 20 luglio 2009

I muscoli di Hezbollah fanno paura (click)

di Fiamma Nirenstei

L’attacco subito nel sud del Libano dalle truppe dell’Unifil mentre tentavano di verificare in che cosa consistesse il deposito d’armi degli hezbollah saltato per aria qualche giorno prima con morti e feriti, è un pessimo segnale per la pace in Medio Oriente. Quel centinaio di abitanti di Kirbat a Silm che alla fine si sono persino messi a sparare contro le forze internazionali sono il segno della solida presenza degli hezbollah al sud del fiume Litani, dove hanno comprato, costruito, arruolato; è un segnale della determinazione della milizia sciita a proteggere le armi e le loro infrastrutture nonostante la risoluzione dell’Onu che ne stabilisce lo smantellamento.

La chiave dell’aggressività delle ultime azioni degli hezbollah, che hanno taciuto per lungo tempo e che sembravano determinati a conquistare il potere in Libano tramite un percorso di legittimazione democratica, deve essere letta alla luce dei risultati delle ultime elezioni, anche se è lo scontro con Israele la stella polare intorno a cui costruiscono l’azione e il consenso.

Venerdì all’improvviso un gruppo di 15 libanesi, evidentemente espressione degli hezbollah dato che ne portavano le bandiere in corteo, si era introdotto dal Libano dentro il confine israeliano, rompendo ogni regola di rispetto internazionale: l’esercito israeliano ha deciso di non intervenire dato che la gente introdottasi illegalmente non portava armi e aveva con sé alcuni bambini. Né vi è stata reazione militare alla scoperta, nel sud del Libano, di cinquanta razzi puntati verso Israele. Di fronte poi alla grande esplosione di Kirbat, che ha fatto saltare dozzine di katiuscia da 122 millimetri che hanno lasciato numerosi buchi nel tetto, Israele ha sollevato il problema all’Onu ed evidentemente l’Unifil ha agito di conseguenza. Ieri poi il capo degli hezbollah, Hassan Nasrallah, ha citato come motivo di ulteriore contenzioso con Israele la presenza nelle carceri israeliane di un suo adepto, ribadendo che non ci sarà pace finché Israele non lo restituirà. L’allusione è micidiale, se si pensa che la vicenda di Regev e Goldwasser, rapiti per farne merce di scambio con un terrorista infanticida, Samir Kuntar, ha portato alla guerra del 2006. Gli hezbollah insistono, sostenuti in questo dall’esercito libanese che lo dichiara sul suo sito, nell’idea che Israele debba consegnare loro le cosiddette «Shabaa Farms» un terreno sul confine con la Siria e col Libano, che apparterrebbe - sempre che Israele per disinnescare la milizia filo iraniana, non lo consegni, come sembrerebbe, al Libano - al contenzioso con Bashar Assad.

Hezbollah dunque soffia sul fuoco: il fatto è che a più di un mese dalle elezioni in cui Hezbollah ha perso a favore del sunnita moderato Sa’ad Hariri, figlio del primo ministro ucciso Rafik Hariri la formazione del governo è ancora oggetto degli sforzi immani del primo ministro incaricato, che non ignora davvero che Hezbollah ha arsenali di armi moderne fornite dall’Iran tramite la Siria.

Benché la coalizione di Hariri abbia una maggioranza di 71 seggi contro 57, e formare un governo appaia un compito facile, in realtà Hariri junior si è mosso fin dall’inizio nell’intento di formare un governo di unità nazionale, perché sa che altrimenti il Libano rischia la guerra civile. Questo pacificherebbe la Siria e l’Iran e smorzerebbe l’attività bellica interna e esterna degli hezbollah. Ma l’opposizione avendo perso le elezioni vuole recuperare imponendo i suoi termini: chiede infatti un terzo dei ministri, ovvero 10 su 30, e anche il diritto di veto sulle decisioni importanti. Erano accordi già fatti col precedente governo dopo l’accordo di Doha del maggio 2008 e che misero fine a mesi di violenze. La novità è che l’Egitto ha cercato di spingere la Siria a suggerire agli hezbollah di accettare un accordo, anche sulla scia dello choc subito da Mubarak quando ha scoperto una congiura degli hezbollah sul suo territorio. I cristiani e i sunniti di Hariri tendono a escludere il diritto di veto, ma il druso Walid Jumblatt, antico leader, capo del partito socialista, ha fatto una riunione con Nasrallah per cercare un accordo. Gli sciiti, dice, dopo tutto sono il più vasto gruppo etnico libanese. Mentre gli Usa, la Francia, l’Italia, insieme all’Arabia Saudita ed Egitto cercano di favorire una situazione in cui il potere degli hezbollah sia limitato, la Siria, l’Iran, gli hezbollah in primis non danno segno di voler diminuire le loro aspettative.

Questo potrebbe trasformarsi in violenza. Oppure il balenare continuo delle armi del gruppo estremista sciita potrebbe forzare la mano verso il conferimento di larghi poteri a Nasrallah che certo diminuirebbero il valore della vittoria democratica. Se i partiti vittoriosi alle elezioni non potranno resistere alle pressioni degli hezbollah, Iran e Siria avranno vinto una battaglia che certo non aiuterà nessun processo di pace. Insomma, ambedue le prospettive non sono allegre.

sabato 18 luglio 2009

Occhio, qualcosa si muove.

Libano: feriti soldati italiani e francesi

18 Luglio 2009 22:38 ESTERI

BEIRUT - Un gruppo di manifestanti, che protestavano nel sud del Libano contro l'apertura di un'inchiesta sulla recente esplosione di un deposito d'armi, ha ferito leggermente oggi quattordici militari Unifil, tre italiani e 11 francesi. Gli incidenti sono avvenuti nella localita' di Kherbet Selem, non lontano dal quartier generale del contingente italiano. E' il primo avvenimento del genere ad avere coinvolto Caschi blu e popolazione locale dalla fine della guerra del 2006 tra forze israeliane e Hezbollah.

dal CORSERVA

Si barrica in casa e uccide carabiniere: catturato (click)


Tenente Colonnello Valerio Gildoni.

Uno dei tanti Eroi fra le nostre Forze dell'Ordine, nella guerra che tutti i giorni si trovano a combattere fra e per noi.

Una preghiera

venerdì 17 luglio 2009

"In Afghanistan per la pace" (click)

..."Quello della famiglia di Alessandro è un dolore che attraversa il cuore dell’intera nazione e spinge noi credenti a pregare", ma "non ci lasceremo vincere dall’odio e dalla disperazione. Alessandro è stato un instancabile operatore di pace, anelito indistruttibile del suo cuore, speranza insopprimibile nella sua mente". Così monsignor Vincenzo Pelvi, arcivescovo ordinario militare...

Sonata al chiaro di luna

Da Dagoberto ad Alessandro Di Lisio

Un caro ragazzo è morto, un parà della gloriosa Folgore, ma nella tristezza di questa morte, finalmente posso dire che non si sono sentite le solite urla su un ritiro della missione. Ed è un bene, perché le varie dichiarazioni sul ritiro, almeno io la vedo in questo modo, dopo Nassirya e gli altri vari caduti erano stonate, quanto un possibile ritiro della polizia, carabinieri e magistratura subito dopo la strage di capaci e di via D’Amelio. Finalmente un piccolo diamante che segnala la strada verso una democrazia civile.

Oggi sarò presente alle esequie del primo CaporalMaggiore Di Lisio.

In Afghanistan aumentano i rischi, ma la strategia è quella giusta (click)

di Matteo Gualdi
gualdi@ragionpolitica.it
giovedì 16 luglio 2009

La morte del caporal maggiore Di Lisio riporta al centro dell'attenzione il conflitto in Afghanistan, dove, a distanza di otto anni dall'inizio delle operazioni Enduring Freedom ed ISAF, la situazione è ancora fluida. Le forze occidentali ed il governo di Kabul, pur avendo avviato la democratizzazione e la ricostruzione del paese, non hanno ancora il pieno controllo del territorio e, soprattutto, non sono riusciti a conquistare i cuori e le menti di molti cittadini afghani. Un obiettivo per alcuni irrealizzabile, ma che, secondo i vertici militari statunitensi, può invece essere raggiunto aumentando gli uomini sul terreno, allo scopo di ridurre la distanza tra popolazione civile e militari e, di conseguenza, far crescere la fiducia e la sicurezza (è questo l'obiettivo dell'operazione «Colpo di Spada» avviata i primi giorni di luglio). Ma questa strategia implica inevitabilmente un aumento dei rischi per le truppe occidentali, specie per gli uomini impegnati nelle attività quotidiane di pattuglia. Più truppe uguale più bersagli per i Talebani, come sanno bene il generale Petraeus, che dirige il Comando Centrale statunitense (CENTCOM), ed il generale McCrystal, comandante delle truppe alleate in Afghanistan. Un rischio necessario, che bisogna correre, se si vuole provare davvero a vincere questa guerra.

Inoltre l'aumento degli uomini diventa ancora più importante man mano che si avvicinano le elezioni presidenziali e provinciali previste per il 20 agosto (e come sempre l'Italia farà la sua parte, portando a 3.000 il numero totale complessivo dei propri militari). La stabilizzazione del paese, infatti, passa anche attraverso il rafforzamento delle istituzioni democratiche e la dimostrazione alla popolazione che la democrazia funziona ma che ognuno deve fare la propria parte, anche semplicemente scegliendo i propri governanti. Ovviamente, se questo appuntamento è molto importante per l'Occidente, altrettanto lo è per i Talebani, che però operano con l'obiettivo opposto: boicottare le elezioni ed evitare che la gente si rechi ai seggi, per dimostrare la fragilità e la debolezza della democrazia e per evitare di perdere potere, visto che finora le elezioni hanno sempre premiato le forze ostili agli insorgenti, erodendone i consensi. Per questo gli attacchi aumenteranno inevitabilmente, e per questo dobbiamo prepararci ad un possibile aumento delle vittime. Ma non ci sono alternative a questa strategia. L'idea che attraverso gli attacchi aerei si possano ottenere successi duraturi si è scontrata contro la dura realtà delle vittime civili, che hanno alienato agli alleati le simpatie di parte della popolazione.

Ma affinché questa nuova strategia abbia successo non basta l'aumento dei soldati americani, occorre un altro tassello fondamentale: la partecipazione concreta degli afghani. I civili, certo, ma anche e soprattutto le forze armate, la polizia, la giustizia, in una parola lo Stato. Anche su questo versante il nostro paese è impegnato direttamente: basti pensare all'unità dell'Arma dei Carabinieri, la Carabinieri Training Unit Afghanistan (CTU-A), composta al momento da 34 unità e operante nella base USA di Adraskan (provincia di Herat) per l'addestramento dell'Afghan National Civil Order Police (ANCOP), od alla Task Force «Grifo», composta di 13 unità della Guardia di Finanza, che svolge ad Herat attività di addestramento a favore della Polizia di frontiera (Afghan Border Police ABP) nonché di funzionari delle dogane. Nonostante l'eccellente lavoro svolto finora, molto ancora ne deve essere fatto, come sanno bene i vertici militari alleati: non a caso l'aumento degli istruttori dell'Arma è stata una delle richieste che il presidente Berlusconi ha avuto da Obama durante il suo recente viaggio a Washington. Ci sono segnali importanti che inducono a guardare al futuro con speranza, la strategia è quella giusta, ma occorrerà perseguirla con grande determinazione se vogliamo davvero vincere la guerra centrale contro il terrorismo.

Vogliamo tornare a Kabul : non diamogliela vinta !



venerdì 17 luglio 2009, 07:00

«Vogliamo tornare a Kabul. Non diamogliela vinta»


di Roberto Fabbri su Il Giornale

Le lettere e i pacchi sono una cosa privata per definizione: li aprono i destinatari, e solo loro. Per noi abitanti del vituperato Occidente è normale, ed è normalissimo che esista un reato di violazione della corrispondenza. A parole è così in tutto il mondo, ma si sa che la privacy è un concetto che disturba i regimi che hanno un debole per l’onnipotenza della polizia. E ci sono Paesi dove questa «debolezza» sembra essere iscritta nell’anima nazionale. La Russia, per esempio. Da dove arriva una notizia che equivale a un brutto salto indietro nella Storia: tutta la corrispondenza epistolare, pacchi compresi, potrà essere controllata senza l’autorizzazione giudiziaria da otto diverse «strutture di forza», dalle dogane all’antidroga, dalle guardie giudiziarie agli immancabili servizi segreti, i veri padroni del Paese.


La denuncia di quello che rischia di essere un ritorno alle prassi dei tempi bui dello zarismo e del comunismo viene da Radio Eco di Mosca. Dalle sue frequenze è uscito l’annuncio di un decreto firmato dal ministro delle Telecomunicazioni, Igor Shchiogolev, che dà facoltà a «otto strutture di forza» di violare senza autorizzazione giudiziaria la segretezza della corrispondenza a partire da martedì 21 luglio.«È un passo verso lo Stato totalitario», protesta l’attivista per i diritti umani Yuri Vdoghin, che chiederà alla Corte Suprema russa di cancellare il decreto. «Un provvedimento nettamente anticostituzionale», rincara l’avvocato Yuri Schmidt (uno dei difensori dell’ex proprietario del colosso petrolifero Yukos, Mikhail Khodorkovskij, da anni in carcere in Siberia).


Vdoghin e Schmidt si affannano a ricordare che la Costituzione russa «garantisce ai cittadini la segretezza di ogni tipo di comunicazione e ammette interferenze solo sulla base di una decisione della Corte». Ma anche la Costituzione sovietica rispettava formalmente la privacy epistolare: ed è ben documentato dagli storici che tutta la corrispondenza internazionale era sicuramente controllata dagli organi dello Stato totalitario. Quanto all’epoca imperiale, solo negli ultimi anni del potere degli Zar fu introdotta una norma che prevedeva l’autorizzazione di un giudice: prima il sinistro Gabinetto Nero provvedeva a ficcare il naso e le mani dello Stato nelle lettere e nei pacchi che i russi inviavano e ricevevano.


È evidente che solo una minima parte della corrispondenza gestita dalle poste russe (solo le lettere sono un miliardo e mezzo ogni anno) potrà essere controllata. Ma la spiacevolissima sensazione di non poter contare sul rispetto della propria privacy varrà per tutti. Rimane da capire per quale maledizione la Russia, uscita da secoli di totalitarismi, sembri condannata a ricaderci passo dopo passo.

giovedì 16 luglio 2009

AFGHANISTAN/ Il caro prezzo di garantire la sicurezza in un paese in bilico (click)


Gian Micalessin

È un inferno e può soltanto peggiorare. Almeno fino al prossimo 20 agosto, fino a quelle cruciali elezioni presidenziali destinate a diventare la prima cartina di tornasole per valutare la nuova politica di Barack Obama e degli alleati della Nato. Se, all’indomani del 20 agosto, la maggior parte degli afghani avrà raggiunto le urne, deposto le schede ed eletto, in maniera più o meno democratica, un nuovo presidente allora si sarà raggiunto un primo timido obiettivo. Se le elezioni si trasformeranno in caos, paura ed ecatombe i talebani potranno incominciar a cantare vittoria.

La vita del caporal maggiore Alessandro di Lisio si è consumata lungo quest’impervio tragitto politico e militare. Quel tragitto - nel caso di noi italiani - dovrà continuare a fare i conti con le insidie di Farah, la provincia più calda e turbolenta fra le quattro del settore occidentale affidato al nostro comando. In quella provincia i talebani marciano gomito a gomito con quelli di Helmand, la roccaforte integralista dove 4000 marines stanno cercando di sloggiare i guerriglieri del Mullah Omar.

La teoria dei vasi comunicanti rappresenta in questo caso il nocciolo del problema. Sottoposti alla pressione della macchina statunitense, le bande degli insorti integralisti si spostano inevitabilmente sull’asse nord occidentale, dove possono contare sul sostegno di clan e tribù solidali e omogenei. «Gli ordini partono tutti da Quetta in Pakistan - spiega un ufficiale italiano responsabile dell’intelligence all’interno delle nostre forze speciali - non c’è bomba o attentato contro di noi che non segua gli ordini della shura talebana, il comando degli insorti con sede in quella città pakistana. Gli ordini di colpire noi o gli americani arrivano sempre dallo stesso vertice».

Insomma siamo nell’ingranaggio e non ne usciremo tanto facilmente. Farah rappresenta, del resto, il cruciale passaggio ad ovest su cui viaggia l’oppio di Helmand, la principale zona di produzione dell’Afghanistan, e quello prodotto nella stessa Farah, dove le narcopiantagioni garantisco un quinto del raccolto nazionale. Per spegnere questo vulcano di guerra e narcotraffico il comando italiano può contare, compresi anche gli alleati spagnoli, sloveni e lituani, su non più di 3000/3500 uomini. Tutti insieme non bastano a garantire la sufficienza di quattro province vaste quanto il nord Italia. Diventano una forza irrisoria se si realizza che le truppe in grado di combattere e muoversi sul territorio non superano effettivamente le 600/800 unità.

A Farah insomma i nostri soldati devono accontentarsi di portare a termine azioni mirate e non possono certo illudersi di sigillare il territorio. E gli alleati dell’esercito afghano, male armati e peggio addestrati, non sono in grado di fare la differenza. E a volte diventano il problema nel problema.

La colonna guidata dal mezzo del caporal maggiore Alessandro di Lisio rientrava ieri da una missione di presidio a difesa di una caserma in costruzione continuamente attaccata dagli insorti. Quella missione fatale, condotta su percorsi ripetitivi a più di 50 chilometri dalla base su un territorio insidioso e complesso, è il paradosso di una sfida dove le nostre truppe proteggono un esercito chiamato in teoria a garantire la sicurezza di paese e popolazione.

PER COMBATTERE IL TERRORISMO (click)

Sono 2.795 militari italiani in Afghanistan, tra Kabul ed Herat
6/7/2009 (8:7) - LE BASI AVANZATE NEL TERRITORIO DEI TALEBAN

I parà nei fortini :"I viveri arrivano in elicottero
Alla base di Bala Murghab troppo rischiosi i rifornimenti via terra
FRANCESCO GRIGNETTI
ROMA
Otto luglio, appena una settimana fa. La valle di Bala Murghab, estremo Ovest dell’Afghanistan, è sorvolata da un aereo militare a elica, un C130J color grigioverde. Dal portellone posteriore vengono lanciati alcuni grossi pacchi. Si aprono i paracadute e gli imballi scendono a terra lentamente. Sono in tutto cinque tonnellate di materiali: cibo, acqua potabile, munizioni, pezzi di ricambio. A terra, ad attendere i rifornimenti, c’è una squadra di paracadutisti della Folgore armati fino ai denti. Sono i difensori del fortino di Bala Murghab che il comando preferisce rifornire dal cielo piuttosto che via terra. E comunque è un’operazione sempre a rischio, l’aviolancio. Non solo di agguati, ma anche di incidenti. Il 31 agosto scorso, nel corso di un lancio simile, due bersaglieri sono rimasti contusi da un fusto di carburante che il vento gli ha sbattuto contro.

Nei manuali militari dell’Alleanza atlantica, questo e altri fortini vengono chiamati «Fob», Forward Operational Base, Basi operative avanzate. Sono una sorta di Fort Apache che i nostri soldati allestiscono a 200 o 300 chilometri dalla città afghana di Herat dove si trova il comando e dove è acquartierato il grosso delle truppe. Chi è destinato a proteggere una «Fob» deve mettere in conto un brutto periodo in territorio ostile.

Certo a Bala Murghab non si guarda alle ore di straordinario. Piuttosto ci si protegge le spalle. E infatti i fortini sono straordinariamente muniti, con difese attive e passive, piccoli bunker, autoblindo, nidi di mitragliatrice e sacchi di sabbia. È la nuova filosofia della Nato: bisogna allargare il raggio di azione dei soldati occidentali e quindi aprire costantemente nuove basi avanzate secondo un cronoprogramma deciso tra i comandi supremi di Kabul e Bruxelles. Oltretutto ciò incoraggia le forze governative che vedono affacciarsi soldati alleati anche là dove non s’erano mai visti prima.

Ed ecco i risultati: il 9 febbraio, a Bala Murghab una compagnia di alpini guastatori della Brigata Julia inaugura la nuova base battezzata «Tobruk». Il 4 giugno, ampio rastrellamento nella valle a caccia di «insurgents». Venti giorni dopo, di nuovo soldati afghani e italiani ingaggiano battaglia: un parà rimane ferito, un soldato afghano morto, quatro autoblindo «Lince» lievemente danneggiate, devono intervenire due elicotteri da combattimento per risolvere la situazione. Ordinari bollettini di guerra.

Rifornire i fortini, però, sparpagliati in un territorio montagnoso e senza strade come l’Afghanistan è un incubo. E va fatto di continuo perché bisogna portare di tutto ai soldati e non è il caso di andare in paese a fare la spesa. Inviare da quelle parti convogli di camion, inoltre, non è pensabile: «Sarebbero un bersaglio troppo facile», dice un ufficiale di stanza a Herat. Si consideri che per attraversare i duecento chilometri che separano Bala Murghab dal capoluogo servirebbero molte ore. «Qui non c’è mica l’autostrada». E dunque si utilizzano quasi quotidianamente elicotteri o aerei. «In genere ci si appoggiava agli americani; l’8 luglio è stata la prima volta che gli italiani hanno fatto tutto da soli».

martedì 14 luglio 2009

Zona dell'attacco

AFGHANISTAN - I NUNERI DEL CONTINGENTE ITALIANO

(AGI) - Roma, 14 lug. - Il contingente italiano in Afghanistan e' costituito da circa 2.350 soldati divisi tra Kabul, circa un migliaio, e la Regione occidentale di Herat. A Herat, area di confine con l'Iran, sono schierati 1.900 militari con veicoli corazzati 'Dardo' e blindati 'Lince'. La copertura aerea e' garantita 5 elicotteri d'attacco Mangusta A-129, tre AB-212 AMI da trasporto, 3 velivoli spia senza pilota 'Predator'. Negli Emirati Arabi Uniti a Al Bateen sono dislocati 3 C130J Hercules per le operazioni di trasporto. Alla vigilia delle elezioni di agosto saranno inviati altri 500 uomini.

Attentato ai Parà Italiani a Farah


Brutta notizia : una prece per il Parà Italiano e per i feriti.


a circa 50 chilometri a nord-est di Farah

Afghanistan, ucciso un militare italiano

Ordigno al passaggio di una pattuglia di paracadutisti della Folgore e del 1° Reggimento Bersaglieri: tre feriti

KABUL - Un militare italiano è rimasto ucciso e altri tre sono stati feriti in un attentato contro una pattuglia in Afghanistan, martedì mattina a circa 50 chilometri a nord-est di Farah. Una pattuglia di paracadutisti della Folgore e del 1° Reggimento Bersaglieri è stata attaccata con un ordigno che è esploso lungo la strada e che ha colpito il primo mezzo: sono rimasti feriti tre parà, mentre un quarto è morto per le ferite all'ospedale militare di Farah.

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14 luglio 2009

sabato 11 luglio 2009

Afghanistan, una lunga estate calda (click)


La grande operazione dei marines in Helmand ha messo in fuga i talebani verso le zone italiane, dove pare si stia preparando un'analoga massiccia offensiva in vista delle elezioni di Agosto

Dal nostro inviato
Enrico Piovesana

Finora, più che i talebani, è il caldo torrido a mietere vittime tra la fila dei quattromila marines impegnati dal 2 luglio nell'operazione Khanjar, nel profondo sud dell'Afghanistan.

Gli uomini del generale Larry Nicholson - uno di quei 'duri' dagli occhi di ghiaccio che sembra uscito da un film di guerra hollywoodiano - marciano da giorni sotto un sole che ha già fatto collassare decine di soldati. Marciano risalendo il corso del fiume Helmand, che a sud di Lashkargah serpeggia attraverso il Dasht-e-Margo, il Deserto della Morte, rendendo possibile la coltivazione di papaveri da oppio e la vita in miseri villaggi di argilla addossati lungo le sponde del fiume. I giovani marines, sudando l'anima sotto gli elmetti, entrano in questi villaggi e li occupano, uno dopo l'altro, senza incontrare nessuna resistenza.

Gli scontri a fuoco finora sono stati sporadici: si parla di 27 guerriglieri uccisi in una settimana. I talebani si sono volatilizzati. Mischiatisi tra i civili, secondo il generale Nicholson, in attesa di sferrare un contrattacco a sorpresa quando i suo uomini saranno sfiancati dal caldo e dalla tensione. Fuggiti a nord, invece, secondo il generale Zahir Azami, portavoce della Difesa afgana, che accusa i marines di aver solamente spostato il problema 'talebani' da un'altra parte.

"Dall'inizio dell'operazione Khanjar - ha dichiarato alla stampa il generale Azami* - i combattenti talebani si sono spostati nel nord della provincia di Helmand, precisamente nella zona di Baghran che è controllata dalle truppe Nato tedesche, e nei distretti orientali della vicina provincia di Farah, che sono invece sotto il controllo delle truppe Nato italiane. Questo spostamento ha suscitato lamentele da parte dei comandanti tedeschi e italiani".

Si preannuncia un'estate molto calda per i paracadutisti italiani della brigata 'Folgore', che già da maggio combattono nel deserto di Farah per contrastare la crescente presenza dei talebani nei distretti di Bala Baluk, Pust-e-Rod e Delaram, e che nelle prossime settimane saranno presumibilmente coinvolti anche in una grande offensiva pre-elettorale, sullo stile di quella dei marines in Helmand, alle porte di Herat.

"Le truppe afgane e internazionali si stanno preparando in vista di un'offensiva contro le roccaforti talebane alla periferia della città di Herat", ha dichiarato lunedì alla stampa locale il comandante provinciale della polizia, generale Esmatullah Alizai, senza specificare le zone interessate. Le aree sotto controllo talebano più vicine a Herat sono i distretti di Guzara (alla periferia sud della città), Rabat-i-Sangi (50 chilometri a nord) e Khushk Kohna (70 a nord-est).

PeaceReporter ha chiesto conferme ai portavoce del contingente italiano a Herat e Kabul, rispettivamente maggior Magagnino e capitano Lipari, i quali hanno detto di non saperne nulla, aggiungendo (Lipari) che "anche se fosse vero, nessuna informazione sull'operazione verrebbe divulgata prima del suo inizio". Il giorno successivo Peacereporter ha raggiunto telefonicamente il comandante della polizia di Herat, generale Alizai, per approfondire la questione, ma l'ufficiale non ha voluto parlare.

martedì 7 luglio 2009

Dobbiamo lottare per i nostri diritti, perché nessuno lo farà per noi (click)


" In Afghanistan c’è un solo sindaco donna a sfidare la rabbia talebana ".



Azra Jafari

Roma. Indossa il chador con mitezza Azra Jafari. E’ la prima e unica donna sindaco dell’Afghanistan, amministra la cittadina di Nili, nella provincia del Dai Kundi, una regione nella quale sono molto frequenti i rapimenti di operatori stranieri e dove l’esercito di Kabul deve far fronte alla guerriglia islamica. Un termitaio di tagliagole, separatisti sciiti e squadroni della guerra. Azra Jafari, esule in Iran tornata al seguito dell’invasione angloamericana del paese nel 2002, è uno dei simboli più belli dell’Afghanistan post talebano, ma anche uno dei pegni più fragili della sua sopravvivenza. Dietro Azra c’è una scia impressionante di insegnanti, attiviste dei diritti umani e poliziotte assassinate dall’insorgenza fondamentalista. L’ultima, Sitara Achkza, consigliera provinciale di Kandahar, era nota per l’attività in favore dei diritti femminili. Aveva trascorso in Germania gli anni del potere talebano a Kabul, dove era tornata con la caduta del regime shariaco, proprio come Azra. Le donne che lavorano fuori di casa, specialmente nel sociale, sono etichettate dai militanti islamici come “immorali” e quindi punite con la morte. Come Bakht Zeba, un’amministratrice locale appena assassinata nella sua abitazione. Prima di diventare sindaco, Azra era un’insegnante perseguitata dai fondamentalisti islamici perché proviene dalla minoranza sciita hazara, bollata come “eretica” dai mullah sunniti. Azra, come gli altri sciiti afghani, durante il regime talebano aveva tre possibilità di scelta: convertirsi al culto sunnita, emigrare nel vicino Iran o morire. In quegli anni furono tantissimi gli eccidi di sciiti. Dopo il rientro in Afghanistan nel 2001, Azra ha accettato un lavoro come insegnante, nonostante una fatwa del mullah Omar avesse ordinato l’uccisione delle insegnanti donne. Come Safia Amajan, che sotto il regno di morte e distruzione dei guerriglieri islamici aveva gestito una scuola segreta per ragazze che osavano sfidare il potere distruttivo dei talebani. E’ stata uccisa sulla porta di casa. Azra è una di quelle donne che non si sono arrese all’oscurantismo di chi vorrebbe tornare a riempire gli stati di adultere da lapidare. Jafari è diventata sindaco vincendo la competizione di altri quattro candidati. Tutti uomini. “Oggi gli uomini mi obbediscono, all’inizio mi ignoravano”, dice Jafari al Foglio. “Dalla caduta dei talebani la mentalità delle donne è cambiata e si sentono parte della comunità internazionale. Però se subito dopo la cacciata dei talebani nel governo provvisorio c’erano tre o quattro ministri donna, oggi ce n’è una sola. Il presidente Karzai vorrebbe ottenere di più per la parità fra uomo e donna, rafforzando la cultura femminile come parte integrante della democrazia. Il nuovo governo ha cercato di coinvolgere le donne in campo politico, sociale, economico e culturale. Ma nelle regioni in cui i talebani sono più forti, le donne non hanno diritto al lavoro, alla scuola, all’università, a uscire di casa senza un uomo. Dove i talebani sono più deboli ci sono attentati suicidi, terrorismo contro le donne, roghi di scuole, ragazze date in matrimonio a una tribù per pacificare le comunità in lotta e così via. L’Afghanistan è un paese musulmano, ma l’islam dei talebani non è il vero islam, che invece incoraggia le donne all’istruzione anziché fucilare le insegnanti e le studentesse. I talebani usano i bambini come bombe umane e non se ne vergognano”. Azra è stata minacciata più volte dagli estremisti islamici da quando è diventata sindaco. “Soprattutto ho ricevuto minacce di morte per telefono, un membro del Parlamento mi ha detto di fare attenzione a quello che dico durante interviste come questa o me ne pentirò. Come donna e funzionaria del governo non posso attraversare un’area dove ci sono i talebani, non posso partecipare a seminari pubblici, mi ci vogliono trentasei ore per andare a Kabul passando per le province di Bambina e Vardar, devo cambiare automobile più volte per motivi di sicurezza. Vorrei che la comunità internazionale sostenesse quelle poche donne coraggiose che cercano di instillare l’orgoglio in milioni di loro simili. Oggi è ancora un crimine essere donna, ma sono ottimista per il mio paese. Dobbiamo lottare per i nostri diritti, perché nessuno lo farà per noi”.
Diulio Meotti

G8 2009 - L'Aquila (click)

Zona rossa già off limits: saldati anche i tombini e deviate le linee dei bus

di Emanuela Fontana
nostro inviato a L’Aquila

Arrivate le bandiere e pronto il caffè, allora si può iniziare. L'essenziale: l'anima di questo G8 preparato in due mesi, il vertice dei letti di legno e dei menu d'Abruzzo, chiuso nelle mura solide della scuola della Finanza più grande d'Italia, Coppito, L'Aquila. Una riunione che parte domani mattina dal dolore, dalla furia dell'ambiente, dall'impreparazione degli uomini e dove una sala sarà tutta dedicata ai video dei vigili del fuoco al lavoro sulle macerie, un «11 settembre» della natura per spiegare ai grandi della Terra cosa è stata la morte, e il coraggio, in questo luogo. A Coppito arriveranno oggi camerieri, restauratori, traduttori e nessuno ti dà retta: i ritmi sono intensissimi, si stanno verniciando le ultime sale, si stanno contando le sedie, predisponendo i microfoni.
Sono arrivate le bandiere dei Paesi ospitati, gli oleandri per la piazza d'Armi della caserma. Il caffè, firmato L'Aquila: Michele Morelli e Stefano Biasini pensavano di aver perso tutto nella notte del 6 aprile, lavoravano in piazza del Duomo, bar distrutto, e ora si troveranno a passare la tazzina a Barack Obama. Caffè e cappuccino. Così è la vita in questa città che trema ancora, dove il G8 e la vita in comunità sembrano aver sviluppato i talenti, affinato la sensibilità, l'arte, la poesia. Il bancone sul quale la coppia del caffè Morelli-Biasini servirà i leader mondiali diventerà una tavolozza di autografi. Ogni capo di Stato, da Obama, a Sarkozy, da Angela Merkel a Berlusconi, potrà scrivere la propria dedica sul banco della torrefazione. Dopo il G8 partirà l'asta e il ricavato confluirà nei fondi di solidarietà alle popolazioni terremotate d'Abruzzo. Anche i mobili delle suite dei leader saranno messi all'asta, mentre i 1500 alloggi saranno destinati in futuro ai terremotati. Oltre al vino, il Montepulciano, e alle carni, questa terra entrerà anche nella lista dei dolci per le cene: a Coppito è arrivato il Panducale, preparato secondo la ricetta tramandata da più di settecento anni.
In piazza d'Armi è stato montato un palco per le fotografie ai Grandi ma la foto di rito degli Otto non verrà scattata in quel punto, si sta valutando un'altra sala. Pronti gli alloggi, ma non bisogna immaginare souvenir e regalini che ricoprono le trapunte: pareti color crema, copriletto bianchi, come le tende, stanze di lavoro accanto alle camere da letto per i capi di Stato, televisioni satellitari e collegamenti Internet e un nome di città italiana per ogni palazzina (saranno otto) che ospiterà i presidenti con i 25 componenti delle loro delegazioni.
Adesso bisogna solo aspettare. Aspettare anche i movimenti della terra, perché anche ieri il terremoto è tornato: per sei volte, tra le 4 del mattino e le 15.40 del pomeriggio da 2.1 a 3 gradi di magnitudo. Tutto è pronto comunque e Coppito per il piano di evacuazione in caso di sisma superiore ai 4 gradi della scala Richter.
Ieri sono proseguite le operazioni di isolamento dell'area della caserma, zona rossa già da due giorni. Sono stati saldati tutti i tombini. In un raggio di più di sei chilometri i controlli sono diventati più stretti, ieri anche attorno ad alcuni palazzi sensibili, come l'Hotel Amiternum: qui dovrebbero alloggiare parte dei servizi di sicurezza degli Stati Uniti. Entrare è proibito senza un pass e tutte le fermate delle autolinee pubbliche sono state spostate. Nelle tendopoli ai visitatori possono intrattenersi solo dieci minuti. Ma sembra che gli aquilani siano i primi a non volere cortei troppo arrabbiati, violenti. Alla fiaccolata nel terzo mese dal terremoto organizzata nella notte tra domenica e lunedì, una sfilata notturna per le vie del centro aperta dai genitori dei ragazzi morti nella Casa dello studente, gli organizzatori del comitato 3.32 hanno precisato: «Noi vogliamo giustizia, vogliamo essere interpellati come comitati dalla Protezione civile. Prendiamo le distanze dai manifestanti». Alla partenza circolava però già un volantino preparatorio dei No-G8 dal titolo: «Yes, we camp», una presa in giro al «Yes we can» di Obama, per rivendicare come propria la condizione di accampati degli aquilani.
Misure di sicurezza anche a Onna, il paese più distrutto dal terremoto, dove si lavora intensamente per concludere le prime quattro casette di legno costruite dalla Provincia di Trento con fondi della Croce Rossa (in totale saranno 91) da mostrare domani a Angela Merkel. Una era pronta già ieri: è composta da una sala, due stanze, bagno e soprattutto una perfetta piastra antisismica. Onna è stata «adottata» per la ricostruzione dai tedeschi. Alle adozioni a distanza sarà dedicata un'intera sala della Scuola di Coppito, con le schede dei monumenti che le delegazioni possono prendere in cura. Ma molti aquilani, nelle tendopoli, propongono: «Questi Grandi ci adottino anche i quartieri... non solo i monumenti».





lunedì 6 luglio 2009

Quattro mesi fra cielo e deserto (click)


Gli equipaggi del 'Pavone' tornano dall'Afghanistan

Sono stati a Herat in supporto al Regional Command West della missione Isaf. Ora il 48° gruppo dell'aviazione dell'esercito 'Pavone' di Rimini ha fatto rientro alla base

Rimini, 6 luglio 2009 - Quattro mesi tra cielo e deserto. Sono quelli trascorsi dagli uomini del 48esimo gruppo dell'avizaione dell'esercito 'Pavone' di Rimini. I militari hanno portato a termine brillantemente la missione a loro assegnata e questa mattina all'aeroporto militare 'Vassura' di Miramare hano ricevuto i saluti d'onore dal comandante del 7° reggimento Vega, colonnello pilota Frabrizio Barone.


Il reparto di volo, guidato dal tenente colonnello pilota Andrea Salvatore, ha operato dalla base di Herat, impegnato nella missione internazionale ISAF (International Security Assistance Force). L’unità di volo che ha garantito il supporto al Regional Command West, a guida italiana, ha svolto con i propri elicotteri A129 Mangusta numerosissime missioni volando per oltre 760 ore di volo.

Particolarmente intensa ed impegnativa l’attività svolta negli ultimi mesi nella zona di Bala Morghab nell’area nord-occidentale dell’Afghanistan sotto il controllo italiano, a circa 200 chilometri a nord di Herat, condotta con i reparti paracadutisti della Brigata Folgore e dell’esercito afghano. Gli equipaggi italiani hanno ricevuto numerosi complimenti e attestati di stima dalle autorità civili afgane e dai vertici militari nazionali per l’importante e delicato compito portato a termine.


domenica 5 luglio 2009

C'era una volta

Salve a tutti, come si dice credevo di aver conosciuto l'inferno, qualcosa mi dice che ho conosciuto solo l'antinferno. Ciao mamma Ambra come va?

sabato 4 luglio 2009

DA BENEDETTO XVI per il G8

LETTERA DEL SANTO PADRE ALL’ON. SILVIO BERLUSCONI, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ITALIANO, IN OCCASIONE DEL G8 (L’AQUILA, 8-10 LUGLIO 2009) 04.07.2009

Pubblichiamo di seguito la Lettera che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato all’Onorevole Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio Italiano, in occasione del G8, che si riunisce a L’Aquila, dall’8 al 10 luglio 2009, sotto la Presidenza Italiana:

LETTERA DEL SANTO PADRE

Onorevole Signor Presidente,

in vista del prossimo G8 dei Capi di Stato e di Governo del Gruppo dei Paesi più Industrializzati, che si svolgerà a L’Aquila nei giorni 8-10 luglio p.v. sotto la Presidenza italiana, mi è gradito inviare un cordiale saluto a Lei e a tutti i partecipanti. Colgo poi volentieri l’occasione per offrire un contributo alla riflessione sulle tematiche dell’incontro, come in passato ho già avuto modo di fare. Sono stato informato dai miei collaboratori circa l’impegno con cui il Governo, che Ella ha l’onore di presiedere, si sta preparando a quest’importante appuntamento, e so quale attenzione abbia riservato alle riflessioni, che, sulle tematiche dell’imminente Vertice, hanno formulato la Santa Sede, la Chiesa Cattolica in Italia e il mondo cattolico in generale, nonché Rappresentanti di altre religioni.

La partecipazione di Capi di Stato o di Governo, non solo del G8 ma di molte altre Nazioni, farà sì che le decisioni da adottare, per trovare vie di soluzione condivise sui principali problemi che incidono su economia, pace e sicurezza internazionale, possano rispecchiare più fedelmente i punti di vista e le attese delle popolazioni di tutti i Continenti. Questa partecipazione allargata alle discussioni del prossimo Vertice appare pertanto quanto mai opportuna, tenendo conto delle molteplici problematiche dell’attuale mondo altamente interconnesso e interdipendente.

Mi riferisco, in particolare, alle sfide della crisi economico-finanziar ia in corso, così come ai dati preoccupanti del fenomeno dei cambiamenti climatici, che non possono non spingere a un saggio discernimento e a nuove progettualità per «"convertire" il modello di sviluppo globale» (cfr. Benedetto XVI, Angelus 12 novembre 2006), rendendolo capace di promuovere, in maniera efficace, uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori della solidarietà umana e della carità nella verità.

Alcune di queste tematiche vengono affrontate anche nella mia terza Enciclica Caritas in veritate, che proprio nei prossimi giorni verrà presentata alla stampa.

In preparazione al Grande Giubileo del 2000, su impulso di Giovanni Paolo II, la Santa Sede ebbe a prestare grande attenzione ai lavori del G8. Il mio venerato Predecessore era infatti persuaso che la liberazione dei Paesi più poveri dal fardello del debito e, più in generale, lo sradicamento delle cause della povertà estrema nel mondo dipendevano dalla piena assunzione delle responsabilità solidali nei confronti di tutta l’umanità, che hanno i Governi e gli Stati economicamente più avanzati. Responsabilità che non sono venute meno, anzi sono diventate oggi ancora più pressanti. Nel passato recente, in parte grazie alla spinta che il Grande Giubileo del 2000 ha dato alla ricerca di soluzioni adeguate alle problematiche relative al debito e alla vulnerabilità economica dell’Africa e di altri Paesi poveri, in parte grazie ai notevoli cambiamenti nello scenario economico e politico mondiale, la maggioranza dei Paesi meno sviluppati ha potuto godere di un periodo di straordinaria crescita, che ha consentito a molti di essi di sperare nel conseguimento dell’obiettivo fissato dalla Comunità internazionale alla soglia del terzo millennio, quello cioè di sconfiggere la povertà estrema entro il 2015. Purtroppo, la crisi finanziaria ed economica, che investe l’intero Pianeta dall’inizio del 2008, ha mutato il panorama, cosicché è reale il rischio non solo che si spengano le speranze di uscire dalla povertà estrema, ma che anzi cadano nella miseria pure popolazioni finora beneficiarie di un minimo benessere materiale.

Inoltre, l’attuale crisi economica mondiale comporta la minaccia della cancellazione o della drastica riduzione dei piani di aiuto internazionale, specialmente in favore dell’Africa e degli altri Paesi economicamente meno sviluppati. E pertanto, con la stessa forza con cui Giovanni Paolo II chiese il condono del debito estero, vorrei anch’io fare appello ai Paesi membri del G8, agli altri Stati rappresentati e ai Governi del mondo intero, affinché l’aiuto allo sviluppo, soprattutto quello rivolto a "valorizzare" la "risorsa umana", sia mantenuto e potenziato, non solo nonostante la crisi, ma proprio perché di essa è una delle principali vie di soluzione.

Non è infatti investendo sull’uomo – su tutti gli uomini e le donne della Terra – che si potrà riuscire ad allontanare in modo efficace le preoccupanti prospettive di recessione mondiale? Non è in verità questa la strada per ottenere, per quanto possibile, un andamento dell’economia mondiale a beneficio degli abitanti di ogni Paese, ricco e povero, grande e piccolo?

Il tema dell’accesso all’educazione è intimamente connesso all’efficacia della cooperazione internazionale. Se allora è vero che occorre "investire" sugli uomini, l’obiettivo dell’educazione basica per tutti, senza esclusioni, entro il 2015, non solo va mantenuto, bensì rafforzato generosamente.

L’educazione è condizione indispensabile per il funzionamento della democrazia, per la lotta contro la corruzione, per l’esercizio dei diritti politici, economici e sociali e per la ripresa effettiva di tutti gli Stati, poveri e ricchi. Ed applicando rettamente il principio della sussidiarietà , il sostegno allo sviluppo non può non tener conto della capillare azione educatrice che svolgono la Chiesa cattolica e altre Confessioni religiose nelle regioni più povere e abbandonate del Globo.

Agli illustri partecipanti all’incontro del G8, mi preme altresì ricordare che la misura dell’efficacia tecnica dei provvedimenti da adottare per uscire dalla crisi coincide con la misura della sua valenza etica. Occorre cioè tener presenti le concrete esigenze umane e familiari: mi riferisco, ad esempio, all’effettiva creazione di posti di lavoro per tutti, che consentano ai lavoratori e alle lavoratrici di provvedere in maniera degna ai bisogni della famiglia, e di assolvere alla primaria responsabilità che hanno nell’educare i figli e nell’essere protagonisti nelle comunità di cui sono parte.

«Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, - ebbe a scrivere Giovanni Paolo II - in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale» (Centesimus annus, 43; cfr. Id., Laborem excercens, 18). E proprio a tale scopo, si impone l’urgenza di un equo sistema commerciale internazionale, dando attuazione – e se necessario persino andando oltre – alle decisioni prese a Doha nel 2001, in favore dello sviluppo. Auspico che ogni energia creativa venga impiegata per assolvere agli impegni assunti al Vertice ONU del Millennio circa l’eliminazione della povertà estrema entro il 2015. E’ doveroso riformare l’architettura finanziaria internazionale per assicurare il coordinamento efficace delle politiche nazionali, evitando la speculazione creditizia e garantendo un’ampia disponibilità internazionale di credito pubblico e privato al servizio della produzione e del lavoro, specialmente nei Paesi e nelle regioni più disagiati.

La legittimazione etica degli impegni politici del G8 esigerà naturalmente che essi siano confrontati con il pensiero e le necessità di tutta la Comunità Internazionale. A tal fine, appare importante rafforzare il multilateralismo, non solo per le questioni economiche, ma per l’intero spettro delle tematiche riguardanti la pace, la sicurezza mondiale, il disarmo, la salute, la salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali per le generazioni presenti e future. L’allargamento del G8 ad altre regioni costituisce senz’altro un importante e significativo progresso; tuttavia nel momento dei negoziati e delle decisioni concrete ed operative, bisogna tenere in attenta considerazione tutte le istanze, non solo quelle dei Paesi più importanti o con un più marcato successo economico.

Solo questo può infatti rendere tali decisioni realmente applicabili e sostenibili nel tempo. Si ascolti pertanto la voce dell’Africa e dei Paesi meno sviluppati economicamente! Si ricerchino modi efficaci per collegare le decisioni dei vari raggruppamenti dei Paesi, compreso il G8, all’Assemblea delle Nazioni Unite, dove ogni Nazione, quale che sia il suo peso politico ed economico, può legittimamente esprimersi in una situazione di uguaglianza con le altre.

Vorrei infine aggiungere che è quanto mai significativa la scelta del Governo Italiano di ospitare il G8 nella città de L’Aquila, scelta approvata e condivisa dagli altri Stati membri ed invitati. Siamo stati tutti testimoni della generosa solidarietà del Popolo italiano e di altre Nazioni, di Organismi nazionali ed internazionali verso le popolazioni abruzzesi colpite dal sisma. Questa mobilitazione solidale potrebbe costituire un invito per i membri del G8 e per i Governi e i Popoli del mondo ad affrontare uniti le attuali sfide che pongono improrogabilmente l’umanità di fronte a scelte decisive per il destino stesso dell’uomo, intimamente connesso con quello del creato.

Onorevole Signor Presidente, mentre imploro l’assistenza di Dio su tutti i presenti al prossimo G8 de L’Aquila e sulle iniziative multilaterali intese a risolvere la crisi economico-finanziar ia e a garantire un futuro di pace e di prosperità per tutti gli uomini e le donne senza nessuna esclusione, colgo volentieri l’occasione per esprimerLe nuovamente la mia stima e, assicurando la mia preghiera, Le porgo un deferente e cordiale saluto.

Dal Vaticano, 1° luglio 2009

BENEDICTUS PP. XVI