lunedì 30 giugno 2008

Di Pietro invoca la soluzione finale, ma Berlusconi riuscirà a governare di Gaetano Quagliarello


La lettura domenicale su fronti opposti di Galli della Loggia e di Eugenio Scalfari impone a chi ha responsabilità politiche di dire come la pensa su quello che sta succedendo intorno al conflitto tra politica e magistratura politicizzata.
Non è una storia nuova. E’ chiaro che dal 1994 in poi vi è chi ritiene che Berlusconi non sia un soggetto democraticamente legittimato e che per questo non abbia il diritto di governare.
Su questa premessa si è giunti a ritenere che la moralità sostanziale della cosa pubblica debba avere il primato anche sull’espressione della sovranità popolare.
In tal senso la sentenza di un tribunale non è un fine ma un mezzo per raggiungere questo obbiettivo.
Anche qui poco di nuovo sotto il sole. In altri momenti della storia europea i nemici della democrazia, giacobini di destra e di sinistra, si sono annusati e si sono ritrovati sotto le stesse bandiere, così come accade oggi quando troviamo nello stesso partito uomini come Di Pietro, prototipo della destra reazionaria, e uomini come Pancho Pardi, che rappresentano invece la sinistra movimentista e giacobina.
Quel che è cambiato è la strategia e il posizionamento di queste forze.
Nel ’94, quando furono sorprese da ciò che ritenevano impossibile, provarono immediatamente l’azione di sfondamento che prese le sembianze dell’avviso di garanzia recapitato in eurovisione. Con l’aiuto e l’incoraggiamento di un vertice istituzionale sembrava fatta e la partita chiusa per sempre, soprattutto dopo che il centrodestra perse le elezioni successive.
Ci fu invece la traversata nel deserto e una nuova prova; e qui la strategia divenne in qualche modo più duttile. Non si provò, come la prima volta, ad affondare il colpo, quanto piuttosto a svolgere un’opera di interdizione e logoramento ritenendo che in tal modo si potesse contribuire all’inverarsi della predizione montanelliana: lasciatelo governare, così il Paese si vaccinerà.
A questa strategia le contraddizioni interne alla maggioranza diedero un indiretto, involontario, ma importante contributo.
E’ successo, invece, che il Paese non si sia vaccinato. E’ accaduto inoltre che l’alternativa a Berlusconi abbia dato una prova così nefasta da portare una grande parte di italiani a riconsiderare la sua esperienza di governo e a ridargli fiducia. E’ accaduto, infine, che di fronte alla Caporetto del governo Prodi la stessa sinistra post-comunista abbia dovuto rinnegare la strategia della union sacrée contro il mostro e accennare a considerare il nemico avversario.
In questa evoluzione sono contenute le ragioni che aiutano a spiegare quanto stia accadendo oggi. La possibilità di condizionare il governo è venuta meno, in parte perché esso è più compatto, in parte perché manca la prospettiva di una alternativa a portata di mano. E poi questa volta, se andasse bene, si radicherebbe definitivamente una forza di centrodestra moderna che ha superato anche la prova del passaggio generazionale.
Ecco perché chi ritiene che Berlusconi sia un nemico della democrazia, lo sia antropologicamente e indipendentemente dai consensi che riceve, non ha altra scelta che radicalizzare lo scontro ed arrivare alla soluzione finale.
Ecco che ritorna la tentazione della sentenza fatale, ecco che si mette a repentaglio ogni elemento di intimità, ecco che il linguaggio e persino le ambientazioni sceniche tornano a somigliare incredibilmente a quelle del fascismo, la cui matrice fu per molti versi simile.
E’ chiaro che questa sfida è portata al governo e alla sua maggioranza, ma è portata anche alla maggiore forza d’opposizione, messa in mora per la sua moderazione, il suo riformismo, il suo tatticismo.
Ci si era illusi che questa sfida potesse stavolta degradare a scaramuccia, come si confà alle democrazie moderne, per l’esistenza di un accordo più solido tra le due grandi forze consacrate dal voto popolare, Pdl e Pd.
Si è scoperto invece che Veltroni è ancora più debole di quel che si poteva credere. Rimane in mezzo al guado, inconsapevole e ignaro che è proprio questo l’errore sul quale altri riformismi, nei momenti decisivi della storia, sono stati battuti.
Per questo oggi si è forse più deboli ma con una responsabilità più forte. Si devono trovare i modi per porre questa volta al centro della nostra azione non già la necessità di difenderci, ma quella di governare il Paese. Lo dobbiamo fare per noi, e anche per i nostri avversari del Pd.

30 giugno 2008

La preghiera dell'aviatore


Dio di potenza e di gloria,

che doni l’arcobaleno ai nostri cieli,

noi saliamo nella Tua luce per cantare, con il rombo dei nostri motori, la nostra passione .

Noi siamo uomini,ma saliamo verso di Te dimentichi del peso della nostra carne.

Tu, Dio, dacci le ali delle aquile,lo sguardo delle aquile,l’artiglio delle aquile,

per portare, ovunque Tu doni la luce, la bandiera, la vittoria e la gloria d’Italia e di Roma .

Fa nella pace dei nostri voli il volo più ardito,

fa nella guerra della nostra forza la Tua forza, o Signore,

perchè nessuna ombra sfiori la nostra terra.

E sii con noi, come noi siamo con Te,per sempre.

domenica 29 giugno 2008

IL PIU' BEL RITRATTO DEGLI ITALIANI BENPENSANTI

L'INNAMORATO DI BERLUSCONI

Un gentile lettore ha affermato che io sono "politicamente
innamorato del Berlusca". La cosa mi ha stupito. Innanzi tutto per
il termine: "innamorato". Io, innamorato? Ecco qualcosa che non mi
sarebbe mai venuta in mente. Ma mi sono lo stesso chiesto che cosa
ci fosse di vero.

Come molti altri ho conosciuto Berlusconi nell'estate del 1993. Ho
seguito i suoi sforzi per spingere i democristiani a resistere sul
serio alla "gioiosa macchina da guerra" di Occhetto, l'ho visto
fallire in questo tentativo, l'ho visto con perplessità "scendere in
campo" e poi, dal momento che rappresentava l'unica forza che si
opponeva alla sinistra, senza molte speranze l'ho votato. Pensavo di
avere fatto una scelta insolita e mi sono ritrovato con più di mezzo
elettorato italiano: la "gioiosa macchina da guerra" era stata
ignominiosamente battuta.

Berlusconi si è dimostrato un genio della politica. Non conosco
altri casi di un uomo che è un privato cittadino nel giugno di un
anno e Primo Ministro nel giugno dell'anno successivo. È
stupefacente che gli italiani non si siano resi conto di essere
contemporanei di un politico straordinario, come forse non ne erano
mai nati, in Italia.

Il secondo, colossale merito di Berlusconi è stato quello di capire
ciò che la Democrazia Cristiana del 1993 non comprese affatto: e
cioè che l'Italia anticomunista esisteva ancora e che, malgrado il
ciclone di Mani Pulite, bastava fare appello ad essa. Questo
conferma il detto di De Gaulle secondo cui il potere non lo si
conquista, lo si raccatta. Berlusconi ha raccattato la leadership
dell'Italia. Forse non è il grand'uomo che i suoi estimatori
pensano, ma i suoi oppositori valevano e valgono molto meno di lui.
Ma per quale motivo oggi bisognerebbe sostenerne l'azione, o
viceversa andare contro di lui?

Per andare contro di lui basta dire che è un disonesto; che è
tutt'altro che un uomo di Stato; che è entrato in politica per fare
i propri interessi e solo questo ha fatto. Basta infine soffrire
d'invidia e dire che lo si trova antipatico e infatti qui il tema è
un altro: giustificare perché, pur senza esserne innamorati, si può
votare per Berlusconi.

Un uomo di buon senso non crede mai che tutto il bene stia da una
parte e tutto il male dall'altra. In particolare, per quanto
riguarda gli uomini politici, sa che essi non sono mai dei santi:
tanto che è opportuno astenersi da fruste valutazioni morali. È
meglio orientarsi in base a questo semplice principio: qual è il
peggiore leader, il peggiore partito, il peggiore raggruppamento? E
votare per l'altro.

Nel caso italiano abbiamo da un lato un raggruppamento che si vuole
moralista ed egalitario, che ha in odio la ricchezza e la prevalenza
del merito, che è soprattutto statalista. Che crede di potere
risolvere i problemi del Paese allargando l'ambito dell'intervento
pubblico; dilatando la burocrazia; incrementando il numero degli
enti statali, e conseguentemente aumentando la pressione fiscale.
Dall'altro lato abbiamo un raggruppamento che ha, o dovrebbe avere,
un'ispirazione liberale. Che dovrebbe dunque essere a favore di uno
Stato minimo, pronto a premiare il merito e sanzionare
l'inefficienza. Uno Stato che segue il principio di sussidiarietà e
dovrebbe dunque diminuire la pressione fiscale.

Se uno è tendenzialmente a favore del secondo raggruppamento deve votare per
esso quand'anche fosse capeggiato da Satana in persona.
Berlusconi ha principi in linea con quelli qui descritti e,
quand'anche li avesse per interesse, la cosa non mi darebbe
fastidio. Perché sono anche i miei interessi. Vorrei uno Stato che
non pretendesse di essere il mio direttore spirituale, che si
occupasse una buona volta di far funzionare la giustizia, che
realizzasse veramente l'ordine pubblico, che mettesse rimedio agli
sprechi, che tagliasse le unghie ai sindacati quando esagerano o
proteggono i disonesti, che pigiasse sull'acceleratore dell'economia
liberista, che facesse per l'Italia quello che il governo irlandese
negli scorsi anni ha fatto per l'Irlanda. Uno Stato che mi lasciasse
in pace. Non ci riuscirà? Non potrei lo stesso lamentarmi, perché so
che la controparte avrebbe fatto anche di peggio. Si è visto col
governo Prodi.

Innamorato, dunque? Assolutamente no. Il Pdl potrebbe essere
altrettanto bene essere guidato da Antonio Martino, Giulio Tremonti,
Gianni Letta, Renato Brunetta e forse qualche altro. Berlusconi è
stato essenziale per vincere le elezioni, ma ora, e fino alla fine
della legislatura, Palazzo Chigi potrebbe anche avere un altro
inquilino.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
29 giugno 2008

Come ho già scritto, sarò assente per un paio di settimane, dunque
vi prego di spedire gli insulti al mio indirizzo e-mail. Li leggerò
al mio ritorno.

sabato 28 giugno 2008

Preghiera del Marinaio

Un ricordo.

GIUSTIZIA MALAVITOSA UNA LOBBY INDISTRUTTIBILE


Ci troviamo in una situazione nella quale la magistratura ormai ha superato ogni limite di decenza .
Bisogna gridarlo forte perché siamo sconvolti dall’arroganza di una lobby di potere che mostra soltanto la sua inettitudine e la pretesa di sostituirsi ai poteri di chi ha ricevuto il mandato dal popolo, per esercitarli.
Cliccando sul titolo l’articolo di Lisistrata

venerdì 27 giugno 2008

DURO & IMPURO by Luca Bagatin

"IL FUORI ED ANGELO PEZZANA

Quando avevo 17 anni conobbi per la prima volta la sigla F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), il che, per un ragazzo eterosessuale nato sul finire degli anni '70, non è poco.
Non è poco anche perché oggi quel movimento è quasi del tutto (se non del tutto) dimenticato dagli stessi omosessuali politicamente impegnati.
A 17 anni conobbi infatti un radicale storico che in Friuli fu fra i primi a manifestare negli anni '60 e '70 per i diritti degli omosessuali, sull'onda di quel piccolo-grande movimento fondato da Angelo Pezzana (il FUORI, appunto) di cui nel '97 lessi l'autobiografia "Dentro & Fuori - Una autobiografia omosessuale" edita da Sperling & Kupfer, che è poi anche la storia del FUORI stesso (movimento federato al Partito Radicale), delle sue lotte, dei suoi militanti.
L'autobiografia di un intellettuale "omo" che fece "outing" e che per mezzo di questo suo "uscire allo scoperto", pose all'attenzione dell'opinione pubblica una questione politica in anni in cui la stessa parola "omosessuale" era bollata con il marchio della depravazione.
Un ribelle intelligente, il Pezzana, che iniziò manifestando in solitaria, financo nella Mosca sovietica in cui l'omosessualità era reato ed infatti fu arrestato e rimpatriato.
Oggi Angelo Pezzana, proprietario e fondatore della più prestigiosa libreria di Torino, la Libreria Luxemburg, prosegue la sua battaglia anche a favore dello Stato di Israele ed è stato per diversi anni collaboratore del quotidiano "Libero" di Vittorio Feltri. Ha inoltre ha aperto il suo sito web: www.angelopezzana.it .
Altri tempi quelli del FUORI. Tempi di cui mi racconta anche l'amico attore Peter Boom ed ex militante del FUORI, nonché neo-ideatore della Teoria della Pansessualità.
Altri anni, in cui era difficile dichiarare il proprio pensiero e modo di essere in pubblico se non si voleva essere sbeffeggiati, umiliati e financo arrestati.
Oggi è facile per i neo-militanti gay sculettare ai vari Gay Pride. Loro non hanno vissuto né vivranno mai quegli anni.
Oggi la cultura è cambiata, vi sono minori tabù e maggiori libertà proprio anche grazie a quei "vecchi" militanti. Che certo non erano "macchiette".
Di strada ve ne è sicuramente ancora molta davanti per il riconoscimento pieno dei diritti di gay e lesbiche. La mia opinione, in merito, è arcinota a chi mi conosce: unioni civili subito ! Del resto anche i partiti conservatori europei si stanno muovendo in tal senso ! Ad ogni modo la persona che ha colto in pieno ciò che veramente ci vuole è l'amico Aldo Chiarle, partigiano socialista e massone doc: si cambi l'art. 29 della Costituzione che dice al primo comma: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia naturale fondata sul matrimonio", nel modo seguente: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia naturale fondata sul matrimonio, qualsiasi sia il sesso dei due contraenti".
Per quanto la stessa parola "sesso" spesso generi ancora "panico" e certe "pruderie" tipiche di telune mentalità morbose, prima ancora che bigotte.

Luca Bagatin
www.lucabagatin.ilcannocchiale.it

*SENTO IL BISOGNO DI DICHIARE CHE DISSENTO DALL'OPINIONE DELL'AUTORE

RICEVO DA AMBRO, PUBBLICO PER MARCO

Ecco perché la "Repubblica Italiana" LEGALMENTE NON ESISTE

Al momento del referendum monarchia / repubblica del 1946 erano legalmente territorio dello Stato Italiano anche le terre di Istria con Capodistria e Pola ecc, la Dalmazia con Spalato e Zara, e le Isole Adriatiche.

Queste terre erano "italiane" in base al Trattato di Rapallo del 1920
http://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Rapallo_(1920)

Dunque, seppure occupate dai Titini, erano terre che avevano il diritto di poter votare al referendum monarchia / repubblica del 1946 , un diritto che avevano i cittadini "italiani" lì residenti : essi avevano il diritto di voto, che però non hanno potuto esercitare in maniera ingiustificata. NON FURONO COSTITUITI I COLLEGI PREVISTI DAL DECRETO.
Purtroppo, non solo gli aventi diritto lì presenti non poterono votare, ma nemmeno quelle centinaia di migliaia di essi che fuggirono al genocidio Titino e vennero in italia.

E' vero, il caos era tanto, c'era una guerra civile, ed infatti perfino Corfù e il Dodecaneso erano terre Italiane in virtù di una pretesa e eredità del Regno d'Italia dalla Repubblica Veneta, cosa per altro mai dimostrata , ma lasciamo perdere anche questo che rafforzerebbe il mio ragionamento.
Torniamo ai territori d'Istria, Dalmazia e isole: essi furono ceduti dalla neonata "repubblica italiana" solo nel 1947 con il trattato di Parigi.
http://it.wikisource.org/wiki/Trattato_di_pace_fra_l%27Italia_e_le_Potenze_Alleate_ed_Associate_-_Parigi%2C_10_febbraio_1947

Questo dimostra che al momento del voto del 1946 essi erano territori "italiani".
Quindi, come può aver ceduto quei territori quella "repubblica" che da essi non era mai stata votata ?
E sopra tutto, è legale un referendum dove solo una parte del territorio vota ? Chi rappresenta la Repubblica Italiana ?
Purtroppo bisogna ricordare che oltre a quei territori del levante veneto che ho detto, anche Trieste, Bolzano e TUTTO IL FRIULI non poterono votare al referendum. Insomma MILIONI DI AVENTI DIRITTO AL VOTO non poterono votare al Referendum del 1946, pur essendo italiani con diritto di voto, e questo perché chi organizzò il referendum stava realizzando un colpo di stato.
Infatti è noto che tali italiani erano per lo più di orientamento monarchico e, se avessero votato, avrebbe certamente vinto la Monarchia. Per altro, il referendum è macchiato di diverse irregolarità, perfino non si è mai spiegato l'improvvisa comparsa, nella notte dello scrutinio, di milioni di voti pro republica, appunto lo scarto che fece vincere la repubblica per 12.717.923 voti contro 10.719.284 voti per la monarchia .
Ma considerando che milioni di aventi diritto non poterono votare, questa differenza non è sufficiente per dare certezza del risultato del referendum e dunque legittimità alla repubblica.
Ripeto, i milioni di Istriani, Dalmati e delle isole dell'Adriatico che non votarono, oltre a Bolzano, il Friuli ecc, fanno sì che il risultato del Referendum del 1946 non esprima la volontà popolare.
Io non sono monarchico, ma RISPETTO LA VOLONTA' POPOLARE e pretendo che uno Stato rispetti la legge.
Per tanto devo affermare che il Referendum del 1946 E' NULLO perché non è stato valevole per esprimere la volontà popolare del popoło italiano.

Il RISULTATO REFERENDUM del 1946 non vale perché:
- non è l'espressione della maggioranza degli aventi diritto al voto
- probabilmente avrebbe vinto la monarchia
- le modalità del passaggio di poteri sono oscure e macchiate da minacce alla casa regnante da parte degli esponenti cattolici e comunisti

Di conseguenza, LEGALMENTE LA REPUBBLICA ITALIANA NON ESISTE
A chi parla del "troppo tardi" si deve dire : può essere democratica e legale una repubblica che nasce dalla NEGAZIONE DEL DIRITTO DI VOTO ?

La Repubblica Italiana è un FALSO, è illegittima, è giuridicamente INESISTENTE , e i diritti umani pretendono verità e la revisione delle Istituzioni attraverso dei referendum territorio per territorio autogestiti dalla cittadinanza, anche quella di Istria e Dalmazia.

Per gli stessi motivi, le cessioni di territorio sottoscritte dai Repubblicani saliti al potere, ossia i trattati internazionali NON SONO VALIDI per difetto di rappresentanza.

Loris Palmerini
Presidente del Tribunale del Popolo Veneto

Loris Palmerini 2006 (C) - copyright 2006 Loris Palmerini - all rights reserved

giovedì 26 giugno 2008

Sonata al chiaro di luna

Ciao Dag, il tuo e il loro ricordo non ci abbandona mai.
Il silenzio parla più delle parole.

ANCHE QUESTA E' ITALIA


DUECENTO ANNI IN DUE
SPOSI IERI A BORDIGHERA

Novantotto anni lei, 101 lui. Si sposano. La favola di Silvie Baisan e Giuseppe Rebaudo è diventata realtà: dopo 50 anni di convivenza, ieri mattina il sindaco di Bordighera Giovanni Bosio li ha dichiarati marito e moglie. In tailleur nero con sfondo a pois rosa Silvie, in abito scuro Giuseppe, hanno coronato il loro sogno d'amore nato nel 1952, quando si erano conosciuti alla Battaglia dei Fiori di Ventimiglia. Lei, francese, ex impiegata del quotidiano «Nice Matin», di Roquebrune, piccolo centro vicino al Principato di Monaco, lui di Bordighera, medico ginecologo, hanno deciso di convolare a nozze con una cerimonia semplice, davanti a due testimoni, il nipote della sposa ed il notaio Gianni Donetti di Sanremo, amico di famiglia dei Rebaudi. «Sono solo cinquant'anni che stiamo insieme. Il matrimonio è un passo che occorre fare con attenzione», ha detto ironicamente prima di sposarsi la sposa. Rebaudi ha invece risposto: «Non ho mai pensato al matrimonio, ma Silvie mi ha convinto anche se un pò tardi. Nella vita ho fatto di tutto, ho studiato molto, ho lavorato altrettanto, la vita è fuggita via velocemente. E ora mi sposo». Per la luna di miele i due non hanno ancora deciso dove andranno. «Abbiamo ancora tanto tempo per pensare - dicono -. Ci siamo appena sposati»

mercoledì 25 giugno 2008

Nuova pagina 1 (click)


Nuova pagina 1
Qui troverete il sito per vedere le foto della commemorazione del Caduti del Battaglione Alpini Tirano. Navigate liberamente, potrete vedere il nostro amico Gioacchino alle foto 0067 e 0068, alla 160 il Gruppo alla sfilata.

La guerra civile della bambina Alfa



Nelle linee essenziali, la vicenda raccontata da Domizia Carafòli nel suo ultimo bel libro (La bambina e il partigiano, editore Mursia) è semplice e straziante.
A Crevacuore, paese della bassa Valsèssera distante una quindicina di chilometri da Biella, due uomini armati bussano il 15 luglio 1944 - dunque in piena «guerra civile» - alla casa di Margherita Ricciotti coniugata Giubelli. Vogliono che la donna li accompagni «al comando». I due sono partigiani della formazione di Aurelio Bussi (nome di battaglia «Palmo»), un comunista duro e all’occorrenza spietato. Margherita appartiene a un clan familiare noto per i suoi sentimenti fascisti. Il marito è andato in guerra, lei non sa nemmeno dove si trovi. Ha accanto a sé la figlia Alfa di dieci anni: una ragazzina dai grandi occhi scuri e profondi, fortemente e quasi morbosamente attaccata alla mamma.
Margherita è impaurita dall’atteggiamento di quei due, certo Ardissone e certo Balosetti, che le fanno fretta. In realtà non avevano nessuna voglia di assolvere quell’incarico truce, ma «Palmo» li aveva spronati.
«È una spia. Tutti i Ricciotti sono spie. Le spie fasciste devono essere eliminate. Tutte. È l’ordine arrivato dal comando di Gemisto (Francesco Moranino ndr). L’hanno portato Jimmy e William, gli inglesi». Ma c’era un intoppo, Margherita voleva prendere con sé la bambina «Se mi dovete solo interrogare... E poi non so a chi lasciarla». Si avviarono non verso il «comando» ma verso il cimitero, dove con altri partigiani era in attesa «Palmo» in persona.
Nessun interrogatorio, solo una sentenza di morte, una «raffichetta» di mitra, mentre Alfa si divincolava terrorizzata.
Poi una voce che chiede: «E adesso che ne facciamo di questa?». Un altro commenta «beh, è una testimone», ma viene rimbeccato. «T’ses fol, sei matto?». La bambina si salva. Il 15 giugno 1953 il procuratore della Repubblica di Vercelli, Lombardi, stabilisce che Aurelio Bussi non ha commesso un reato perché s’è trattato di un’azione di guerra. In conformità il giudice istruttore Rosco archivia il fascicolo.
Ma Alfa no, non l’aveva archiviato. Era andata sposa, a 15 anni, a un bravissimo uomo, Rino Basadonna, suo cugino di secondo grado ed ex marò della Decima mas, che non l’abbandonerà mai più. Era malinconica, strana. Martedì 7 marzo del 1956 Alfa prese da un cassetto la pistola del marito e salì sulla corriera per Crevacuore: dove il Bussi, fregiato d’una medaglia d’oro per gli atti di valore compiuti nella Resistenza, era sindaco comunista. Personalmente onesto, fermo nella convinzione che il sistema sovietico dovesse rappresentare per i popoli la meta suprema. Riuscì a rintracciarlo mentre era a tavola nella casa di Rina Petrolini, la sua compagna da una decina d’anni. Solo poche parole «sono Alfa Giubelli, la figlia di Margherita Ricciotti». E il grilletto premuto convulsamente. Un breve tragitto alla caserma dei carabinieri, per consegnarsi, il carcere, il processo, la condanna a cinque anni e tre mesi di reclusione, con il riconoscimento del vizio parziale di mente.
Una tragedia terribile, ma a lieto fine se una tragedia può esserlo. Perché Alfa Giubelli fu guarita, nello spirito e nel corpo, dal suo gesto sanguinario. Ebbe due bambine. Domizia Carafòli è riuscita a rintracciarla. «Mi sentivo profondamente imbarazzata... Poi finalmente mi decisi e la chiamai. Di là suonarono pochi squilli, prima che qualcuno alzasse la cornetta. Rispose una voce femminile, chiara, forte. “Sì sono io. Sono Alfa Giubelli”».
Il merito della Carafòli sta nell’avere rievocato quella vendetta d’una bambina diventata donna con commozione partecipe ma senza scadere nel patetico. E d’avere inoltre tratteggiato con sapienza narrativa, attorno al caso Giubelli, quello che con termine in gran voga viene adesso definito il contesto. Ossia lo scatenarsi di pulsioni feroci che una guerra civile sempre determina, e che porta in superficie tipi umani cui quell’atmosfera di morte si addice particolarmente. Sono, dall’una e dall’altra parte, i fanatici, gli esecutori delle più turpi incombenze. Gli ammazzamenti reciproci sono il loro habitat.

Fermo restando che tra questi personaggi vi sono volgari carnefici e idealisti purissimi, coloro che vanno cercando libertà e coloro che vanno cercando sfogo all’odio.
Essendo dalla parte dei vincitori, non da quella dei vinti, Aurelio Bussi aveva avuto una medaglia d’oro anche se l’avere abbattuto Margherita Ricciotti, presente Alfa, non era stato un granché come atto di valore. Del resto il gran capo dei partigiani della zona, Francesco Moranino, fu difeso a spada tratta dal Pci anche quando s’era accertato, ad di là d’ogni dubbio, che aveva fatto sterminare alcuni appartenenti a formazioni partigiane indipendenti, e per di più le mogli di due di loro. «Atti di guerra».
Il processo di Vercelli aveva scatenato l’inevitabile polemica tra i duri e puri dell’antifascismo che tributavano al defunto «Palmo» incondizionate attestazioni di fede democratica, e i «revisionisti», inclini a collocarlo tra gli esemplari umani che la guerra civile produce, ma che in tempi di normalità è meglio tenere in disparte.
Il periodico dell’Anpi Baita volle dare dei Ricciotti un quadro fosco: «Non ci è stato detto che (Margherita, la madre di Alfa, ndr) era una spia fascista, che fece imprigionare, perseguitare, ammazzare tanti antifascisti, tanti partigiani; non ci è stato detto che la nonna manganellò e distribuì olio di ricino a decine di lavoratori durante il fascismo; non ci è stato detto che anche il fratello era un brigatista nero; non ci è stato detto che lei si incontrava spesso con elementi neofascisti di Borgomanero».
E qui il dramma scade nel grottesco oppure si colora di surrealismo. La nonna manganellatrice: quelli della Baita avevano davvero un tocco alla Jonesco.

martedì 24 giugno 2008

AMBRO CI OFFRE PER UN'ATTENTA LETTURA...


UN COLLAGE INTERESSANTE

"Alle origini del Risorgimento, solo ed esclusivamente per come sono andate le cose, senza colpe particolari, c'è dunque una sorgente di acqua inquinata che ha infettato il corso del fiume della storia italiana impedendo al nostro Paese di diventare una democrazia come tutte le altre. Che gli storici, pur schierandosi pro o contro il Risorgimento, tornino su quegli anni e si comportino come chimici che cercano di individuare la natura di ciò che ha corrotto quelle acque, sotto questo profilo, è in ogni caso proficuo. E forse ci può essere d'aiuto per sciogliere alcuni nodi del presente."

Paolo Mieli, storico (Risorgimento, fossa della democrazia - La Stampa 20/09/1998)


[...] quando io ho pubblicato questo libro, un collega, credo calabrese, che era venuto alla mia presentazione tre o quattro anni fa, mi ha detto cosí: "sai perché questo libro l’hai scritto tu e non io? Perché tu sei piemontese ed io sono calabrese". Questa è la dichiarazione di un complesso di inferiorità che talvolta il meridionale ha nel rivendicare i propri diritti. Questa cosa non la dice solo questo mio collega, la dice anche Leonardo Sciascia, il quale in una sua novella, nel mettere a confronto i racconti filopiemontesi di Bronte, "giustificazionisti" diciamo cosí, e i due o tre racconti, che invece denunciavano una violenza di base della ideologia del risorgimento nei riguardi di coloro che furono massacrati e ai quali si era fatto credere che si doveva fare davvero una rivoluzione culturale, lui commenta dicendo che i "giustificazionismi" sono fatti proprio da quelli che avrebbero tutto l’interesse a fare dichiarazioni diverse.

Lorenzo Del Boca (Intervista, Due Sicilie N° 3 maggio 2001)


Il Sud borbonico era un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento di industrie, le quali, diversamente dalle favole sabaudiste raccontate dagli accademici circonfusi di alloro, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e incapaci a proiettarsi sul mercato internazionale, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni).
Niente di piú, la storia effettiva, non è impresa facile in un ambiente in cui il falso è glorificato come patriottismo. Farla conoscere è ancora più arduo, perché la verità si scontra con una falsificazione istillata nella mente dei fanciulli insieme al catechismo.

Nicola Zitara, storico (La storia proibita, Edizioni Controcorrente)


“Che il Regno delle Due Sicilie fosse lo Stato piu’ progredito della penisola al momento della sua annessione al Piemonte e’ una tesi ampiamente documentata ma che non e’ stata mai condivisa dalla storiografia ufficiale del nostro paese; accettarla significava mettersi controcorrente; per non irritare il potere, gli storici italiani hanno ignorato quanto avveniva a Napoli nella prima meta’ dell’ Ottocento “

Tommaso Pedìo, storico


Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi. Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi. Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di cognome Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.

Il Sud cancellato dalla Storia - http://www.cellamare.org


«[ ... ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell'Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d'America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant'anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l'Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant'anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant'anni i cosiddetti democratici». Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo 1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81.

Riportato in Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini Lucchese, Salvatore - Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2004, pag. 117


“L’unita’ d’Italia e’ stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo nel 1860 in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole, l’unita’ ci ha perduti. Lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali “

Giustino Fortunato (da una lettera a Pasquale Villari del 1899)


"Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l' Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti. "

Antonio Gramsci (da “Ordine Nuovo” del 1920)


"Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto del male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio .”

Giuseppe Garibaldi (da una lettera ad Adelaide Cairoli del 1868)




“Al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e al di la’ sono necessari. Bisogna sapere dai Napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o no “

Massimo d’ Azeglio, ministro piemontese


Sino all’anno passato, ricchi di pace, di memorie, di costumi, dl prosperità, di commercio e di arti, noi eravamo la invidia delle genti: drammatica nostra, musica nostra, arti ed industrie napolitane, opere d’ingegno e di coltura, maravigliosi musei, strade ferrate, gas, opificii, opere di carità, esercito, marina, bacini, arsenali, tutte cose ne facevan forti e rispettati.

Giacinto de’ Sivo (La Tragicommedia, Napoli 1861

lunedì 23 giugno 2008

LEGGETE E MEDITATE (click)

"Panem et circenses: l'Italia nel pallone, in senso proprio e figurato"di Marco De Turris

domenica 22 giugno 2008

«Minacce sul sito qaedista italiano «Berlusconi e Allam morti viventi»

WASHINGTON — Internet a volte è come una cassetta della posta. Puoi infilarci quello che vuoi. Difficile stabilire l'autenticità del messaggio e soprattutto chi c'è dietro.
Ed è dunque con la più grande cautela che vanno accolte le nuove minacce, via Internet, nei confronti del premier Silvio Berlusconi e del vicedirettore del Corriere Magdi Allam.
«Sono due morti che camminano...proprio come si definiva Falcone... messaggio in codice?! Forse».
E' questo il testo apparso sulla sezione italiana di El Ekhlas, sito di propaganda qaedista.
Il messaggio - individuato da Hamza Boccolini di Aki International è firmato con uno pseudonimo: «Muhajir Allah Wada'a Ahlahu» (emigrante di Allah che ha dato l'addio alla sua gente).
La prima reazione degli uffici dell'antiterrorismo è stata misurata: «Non c'è motivo di allarme ma nulla può essere trascurato».
L'autore del messaggio potrebbe essere un immigrato di seconda generazione che conosce l'italiano e che segue con attenzione quello che avviene nel nostro paese.
Qualche giorno fa Muhajir si è occupato della partecipazione di una organizzazione islamica, la Iadl, al Gay Pride di Roma ed ha colto l'occasione per un altro intervento: «Sono questi cosiddetti musulmani moderati che piacciono al buon vecchio Berlusconi».
La versione italiana di El Ekhlas è gestita da un simpatizzante che si presenta come «lo sgozzatore degli apostati » ed è probabile che risieda all'estero.
Nel sito sono frequenti gli attacchi nei confronti di Berlusconi e di Allam, ancora di più oggetto di strali dopo la conversione al Cristianesimo. Nelle sue pagine El Ekhlas ospita gli interventi di Osama, tradotti ovviamente in italiano, e sono frequenti i riferimenti al sedicente imam di Carmagnola, Abdul Qadir Mamour, che dopo l'espulsione dall'Italia vive in Senegal.
Fino all'inizio dell'anno era proprio Mamour ad animare una pagina web frequentata da estremisti e spesso tribuna per moniti nei confronti dell'Italia.
Il sito è stato poi chiuso dalla magistratura il 22 febbraio, ma gli internauti che strizzano l'occhio al binladismo si sono trasferiti su El Ekhlas.
Oggi sono molti i siti che fanno da megafono a qualsiasi gesto della nebulosa integralista. Per le autorità è tuttavia difficile stabilire la reale pericolosità dei personaggi coinvolti.
Alcuni si accontentano di spedire comunicati incendiari. Altri hanno dei contatti con terroristi veri. Come il caso del marocchino «Irhabi 007», arrestato a Londra e complice di una cellula pronta a colpire.
Meno netto il profilo della belga-marocchina Malika El Aroud: il primo marito è morto compiendo un attentato suicida ma lei — almeno in apparenza — ha limitato il suo impegno jihadista alle invettive. O se c'è dell'altro è riuscita comunque a nasconderlo bene.
Come Falcone «Sono due morti che camminano... proprio come si definiva Falcone»
Precedenti
Frequenti sul sito gli attacchi a Berlusconi e ad Allam dopo la conversione Silvio Berlusconi Il presidente del Consiglio italiano Magdi Allam Vicedirettore del Corriere della Sera

DEI SERVIZI SEGRETI - NICCOLO' POLLARI

L’ex capo del Sismi: ho difeso lo Stato, meriterei la medaglia non i processi

Di ricordi Nicolò Pollari, ex capo del Sismi, passato dall’altare per le liberazioni degli ostaggi in Iraq alla polvere delle inchieste giudiziarie, ne ha tanti. L’immagine dell’amministratore delegato di Al Jazeera che consegna il video della morte di Fabrizio Quattrocchi a Gianni Letta. La lettera scritta a Prodi in cui fa presente di comprendere i motivi che spingono il governo a mantenere il segreto di Stato su alcune vicende di questi anni avvertendolo che in questo modo però «l’immagine del Sismi ne verrà scalfita», alla risposta dell’allora premier dell’Unione: «Lei è un galantuomo». La domanda che gli pone a bruciapelo il senatore di Rifondazione Malabarba: «Ma perché Gianni De Gennaro ce l’ha con lei?». E la sua risposta: «Francamente non lo so». Tanti frammenti che gli tornano alla memoria in un momento in cui deve affrontare da solo un processo a Roma per peculato e uno a Milano per il rapimento di Abu Omar.

Che effetto le fa passare dagli encomi dei premier alle requisitorie dei pm?

«Come il soldato che va in guerra. Gli sparano addosso. Perde un braccio. E il comandante invece di dargli una medaglia, gli risponde: “Cavoli tuoi”. Abbandonandolo a se stesso».

L’ultima accusa è quella di aver dato assistenza ad alcuni incontri a Roma organizzati da Michael Ledeen, l’americano che ha tentato di destabilizzare il regime di Teheran.

«La solita visione deformata dei fatti. In breve: il governo mi chiese di mettere in sicurezza l’incontro tra questo personaggio che si autoaccreditava come espressione del governo di un Paese alleato, con altri personaggi. E di riferire».

Chi glielo chiese, l’allora ministro della Difesa Martino?

«Sì. Per cui noi garantimmo la sicurezza dell’incontro. Poi un nostro esperto, che vi partecipò, ci avvertì che gli argomenti trattati non avevano nulla a che vedere con il terrorismo».

In quelle riunioni si parlava di affari?

«Appunto. Per cui mi venne il dubbio che il governo alleato fosse all’oscuro di tutto. Riportai i miei dubbi a Palazzo Chigi fornendo prove documentali. Fu deciso di fare una verifica».

Con chi parlò dell’argomento?

«Anche con Berlusconi. Aspettammo invano da Ledeen la prova che la sua iniziativa avesse l’input di Washington. In assenza di segnali informai io stesso il governo alleato dell’intera vicenda. Loro non ne sapevano niente e cessò ogni rapporto con Ledeen».

Di riffa o di raffa c’è sempre il suo Sismi di mezzo...

«Questa storia fa il paio con la storia del Niger. Un’altra bufala. Ci sono inchieste nostre e dell’Fbi che lo dimostrano».

Mi può spiegare perché una gestione del Sismi che ha avuto elogi bipartisan in passato adesso è sul banco degli imputati?

«Non capisco il coinvolgimento del Sismi: l’estraneità del governo, del Sismi e mia è testimoniata da 84 documenti in ogni loro conformazione».

Che significa?

«I documenti sono pezzi di carta e altro. Dimostrano che mi sono sempre opposto a questo tipo di iniziative. Che quando ci sono state proposte operazioni simili io, anche con l’accordo del governo, ho detto no. Siamo intervenuti anche per impedire che queste cose avvenissero in altri ambiti nazionali. Fatti che sono a conoscenza di Berlusconi e coperti dal segreto di Stato».

Lei è sempre coperto dal segreto di Stato...

«Semmai ne sono vittima. Ho sempre chiesto di esserne affrancato, ma so di essere un funzionario. Ecco perché mi chiedo se debbo difendermi da solo o se, invece, non ci sia un dovere istituzionale da parte di altri? Ad esempio su questa storia dell’Iran devo dire io che le cose stanno in questi termini? O dovrebbe intervenire chi ha il diritto di esplicitarle?».

Così pressato lei potrebbe anche impazzire e parlare?

«Spero che la scelta di chi detiene queste responsabilità tenga conto anche dei requisiti soggettivi. Penso di non impazzire, però è pesante sopportare una cosa di questo genere in presenza di silenzi inspiegabili. Qui non si tratta di difendere la posizione di una persona, ma lo Stato».

E Berlusconi cosa le dice?

«E’ sensibile, però debbo difendermi. L’autorità giudiziaria mi ha chiesto di rivelare il segreto di Stato. Posso farlo senza che chi ne è titolare mi autorizzi? Perché i magistrati non chiedono a chi ne è titolare se quello che dico è vero o no?».

A Roma, però, lei ha anche l’accusa di peculato.

«Il dottor Pompa era un analista di fonti aperte. Grazie alle conoscenze nei media ha avuto un ruolo indiretto sui sequestri di persona o su altre circostanze che riguardavano la sicurezza del nostro Paese interagendo con grandi network medio-orientali. C’è chi ha stigmatizzato che siano state erogate delle somme al dottor Farina. E’ vero. Ma non sono state date a lui. Farina, sciente e cosciente il governo e ambiti investigativi importanti di altri settori dello Stato, si è prestato a favorire degli approcci in momenti drammatici. L’autorità giudiziaria ne è sempre stata informata. Ad esempio il filmato dell’omicidio di Quattrocchi si è ottenuto attraverso una procedura di cui i vertici del governo erano coscienti. Oneri compresi. E poi le due Simone... l’esigenza di ottenere la prova dell’esistenza in vita della Sgrena. Qualcuno ha detto che Farina lavorava per i servizi. Neanche per sogno. Il dottor Farina si è prestato per il governo ad avere rapporti con determinate controparti con cui noi non ci potevamo accreditare direttamente. Se questa accusa stesse in piedi dovremmo dedurre che per ottenere la prova in vita della Sgrena o il video di Quattrocchi abbiamo commesso peculato».

E i dossier su politici, magistrati...

«Ne ero all’oscuro. Un suo archivio personale. Lecitissimo. Non si viola nessun segreto assumendo del materiale da Internet».

Il risultato: lei è stato emarginato nel suo ruolo, mentre altri con cui ha avuto polemiche in passato sulla politica della sicurezza come De Gennaro hanno incarichi importanti.

«Io non sono un cacciatore di poltrone. Ritengo che la mia posizione sia ben nota al governo. Non la seguo però in questi ragionamenti. Io ho fatto il mio dovere. Lo sa chi ha interagito con me in alcuni momenti. Lo chieda ai giornalisti del Manifesto. Presumo che alla fine tutto questo sarà tenuto presente».

Anche dagli attuali inquilini di Palazzo Chigi con cui ha collaborato in passato. Il suo nome non era in ballo come consigliere per la sicurezza nazionale?

«Io ho lavorato con Berlusconi come con Prodi. Quando sono uscito dall’incarico era stato previsto qualcosa del genere. Suppongo che sia ancora un’ipotesi. Ho sempre svolto il mio lavoro in modo neutro dal punto di vista politico, ho pagato dei prezzi e non capisco il perché. Vede, anche un pubblico funzionario deve assumersi dei rischi. Però non è possibile che se va bene il merito è di tutti, ma se va male deve difendersi da solo».

http://www.lastampa.it/search/articolo.asp?IDarticolo=1814820&sezione=Interni

sabato 21 giugno 2008

DURO & IMPURO by Luca Bagatin

"AVANTI CON LA "CACCIA AL MASSONE""

La stampa titola: "Patto fra mafia e Massoneria".
Con la nominata "Operazione Hiram" (Hiram è una figura leggendaria dell'universo massonico che ricorda l'architetto preposto a supervisionare i lavori di costruzione del Tempio di Re Salomone) che ha portato all'arresto a Palermo di 8 persone per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti di ufficio, peculato ed accesso abusivo a servizi informatici giudiziari e che ha visto coinvolti anche alcuni affiliati a logge massoniche, ancora una volta siamo alla "caccia al massone" (così come durante l'Inquisizione si dava la "caccia alle streghe" e durante il nazismo la "caccia all'ebreo").
E' l'ennesima vergogna dei mass-media nostrani che ancora una volta accostano la mafia alla Massoneria con tanto di corollario di empi libelli volti a dimostrare il (palesemente falso) connubio fra le due organizzazioni.
Ora, nella suddetta "Operazione Hiram", oltre ai suddetti affiliati, sono stati coinvolti imprenditori, una poliziotta, medici e persino un gesuita.
A questo punto, ragionando come ha fatto la grande stampa nostrana si dovrebbe dedurre che c'è un patto non solo fra mafia e Massoneria, ma anche fra mafia e tutti gli imprenditori italiani, fra mafia e Polizia di Stato, fra mafia e Ordine dei Medici, fra mafia e l'ordine dei Gesuiti.
Dette semplificazioni, sono pericolosissime. E stupisce che non ci si renda conto di ciò.
O forse qualcuno se ne rende conto anche troppo ed è tenuto ad infangare i massoni additandoli come mafiosi ?
O forse qualcuno è così ignorante da non sapere nemmeno che cosa sia la Massoneria, ovvero una grande organizzazione umanitaria e democratica che nel corso della Storia ha contribuito a rafforzare gli Stati liberali (si pensi all'istituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, grande ideale massonico, ma anche alla battaglia per la scuola pubblica laica ed alle numerose battaglie di diritto civile) e della quale hanno fatto parte quasi tutti i Presidenti degli Stati Uniti d'America che è la più grande democrazia d'Occidente, oltre che numerosi letterati (Carducci, D'Annunzio...), artisti (Totò, Louis Amstrong....), intellettuali (Voltaire, Mark Twain...) ?
Fatto sta che bene ha fatto il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi a costituirsi parte civile nel processo: definendo i "massoni" coinvolti degli "affiliati a sedicenti logge massoniche" e che nulla hanno a che vedere con il GOI.
Per entrare in Massoneria è d'obbligo presentare il certificato penale che deve essere necessariamente intonso. Questo sarebbe bene ricordarlo ai disinformati.
Altra cosa da dire è che le "mele marce" sono dappertutto. Lo abbiamo visto anche nella Chiesa Cattolica con l'"affaire" dei preti pedofili.
Ma le generalizzazioni, le semplificazioni mediatiche tanto per "far notizia" imbrogliando gli spettatori/lettori e ponendo sulla gogna persone oneste, è uno spettacolo già visto troppe volte in questo Paese ancora evidentemente assai poco democratico e civile.
Un Paese nel quale a volte ci si vergogna, pur tristemente, di essere nati e di vivere.

Luca Bagatin
www.lucabagatin.ilcannocchiale.it

mercoledì 18 giugno 2008

DA GIOACCHINO PER MARIO RIGONI STERN (click)

MARIO RIGONI STERN (click)


Un ricordo e una preghiera

martedì 17 giugno 2008

PROCIDA, QUELLA VERA.(click)



Va meglio così, Ambro ?

lunedì 16 giugno 2008

Ammazzato di botte a 7 anni perché non impara il Corano di Fausto Biloslavo

Ammazzato di botte, a 7 anni, perché non era bravo ad imparare a memoria le frasi del Corano, il libro sacro dell’Islam. L’infame destino è toccato a Mohammed Atif, uno sfortunato bambino che frequentava una madrassa pachistana.
Le madrasse sono le scuole coraniche, dove prima viene il Corano e poi le altre materie. Il piccolo Atif frequentava la madrassa di Vihari, nella provincia del Punjab, il cuore del paese. Per le famiglie più povere la madrassa è l’unica possibilità di far imparare ai propri figli almeno a leggere e a scrivere.
Atif deve avercela messa tutta per ricordarsi le shure, i versetti del libro sacro dei musulmani. Chi sa ripeterne di più è il primo della classe. Talvolta riceve un pasto migliore e viene portato in palmo di mano dai pretoni islamici che insegnano nelle madrasse.
A 7 anni non è facile ripetere delle frasi che neppure si comprendono e Atif sarà inciampato più volte sul filo della memoria. Il suo insegnante-aguzzino si chiama Qari Ziauddin e si fregia del titolo di maulawi. Un grado più in basso di prete islamico a tutti gli effetti.
Di fronte alla scarsa memoria di Atif lo avrà già punito con i metodi usuali. Solitamente bacchettate sulle mani, le piante dei piedi e castighi vari. I bambini pachistani ci sono abituati e fanno buon viso a cattivo gioco.
Mercoledì scorso, però, il povero Atif deve aver proprio fatto una figuraccia. La cantilena della ripetizione a memoria dei versetti del Corano si sarà interrotta più volte davanti al sempre più irato maulawi Ziauddin. A mali estremi, estremi rimedi avrà pensato il cultore dell’Islam.
Nel suo ufficio ha una grande pala per rendere più sopportabile l’infernale estate pachistana. Ziauddin ha legato il bambino di 7 anni, reo di non sapere il Corano a memoria, alla pala, ma per i piedi, a testa in giù.
Non contento lo ha anche riempito di botte per fargli tornare la memoria in rispetto di Allah. Poi l’ha lasciato a penzolare.
Atif viveva nella scuola coranica con una ventina di ragazzi, compreso suo cugino. Quando si sono resi conto che Atif non tornava «né mercoledì notte, né la mattina dopo il cugino ha informato la famiglia».
Lo ha spiegato alla Bbc Mohammad Afzal, ufficiale di polizia del luogo. «La famiglia ha trovato il corpo di Atif nella stanza di maulawi Ziauddin» ha confermato il poliziotto.
L’aguzzino aveva lasciato la madrassa, forse per passare tranquillamente il fine settimana islamico, che cade di venerdì. Lo hanno beccato in un villaggio vicino e arrestato.
Le accuse vanno dalla tortura all’omicidio. Il primo ministro pachistano, Yousuf Raza Gilani, ha ordinato l’apertura di un’inchiesta sulla madrassa.
Il problema è che in Pakistan ci sono 13mila madrasse, molte delle quali sfuggono al controllo del governo. Nelle zone tribali al confine con l’Afghanistan sono state il serbatoio dei talebani e dei kamikaze.
Per non parlare delle denunce delle organizzazioni per i diritti umani e dell’infanzia. I bambini pachistani sono sempre più vittime di violenze, abusi sessuali, lavori forzati e sequestri. I casi più drammatici sono passati da 617 del 2006 a 1595 lo scorso anno.
Una punta dell’iceberg, perché l’80% delle violenze non viene denunciata. Ogni anno 35mila bambini pachistani abbandonano le scuole a causa delle dure punizioni corporali. www.faustobiloslavo.com

domenica 15 giugno 2008

PROCIDA UN GIOIELLO DELLA NOSTRA ITALIA (click)


Per Ambro, un cittadino di Procida

venerdì 13 giugno 2008

DURO & IMPURO by Luca Bagatin


"SUI FRATELLI ROSSELLI"
Sono passati 71 anni dalla morte per mano fascista dei fratelli Nello e Carlo Rosselli, teorici del socialismo liberale e militanti del Partito d'Azione e delle Brigate partigiane Giustizia e Libertà, avvenuta in Francia il 9 giugno 1937.
I fratelli Rosselli furono fieri oppositori del Fascismo sin dagli esordi, così come lo fu il deputato socialista Giacomo Matteotti, trucidato dalle camice nere il 10 giugno 1924.
Come Matteotti, i Rosselli, furono anticomunisti riformisti ed oggi e sempre andrebbero ricordati ed emulati, pur in quest'Italia post/neo fascista, post/neo comunista, clericale che ne vorrebbe oscurare la memoria (nei libri di testo scolastico sono ricordati solo marginalmente, a differenza dei vari Togliatti e fascisti rossi che tanto hanno fatto danno al nostro Paese, così come i loro eredi "democratici").
Il messaggio di questi martiri dell'antifascismo liberalsocialista ci giunge come pura ed autentica voce di speranza e di verità incontestabile, alternativa alla violenza, alle violenze di ogni totalitarismo.
"Uccidete me: ma l'idea che è in me non la ucciderete mai", ricorda Giacomo Matteotti ai dittatori d'ogni colore politico, ai catto-clerico-talebani d'oggi e ieri. Uccidete. Fate strage di verità, attraverso le vostre menzogne, ipocrisie e calunnie. Ma le idee permangono e così tutti coloro i quali continuano a portarle avanti.
Di Nello Rosselli, appassionato storico repubblicano, vorrei anche ricordare l'ottimo volume "Mazzini e Bakunin" (in libreria è disponible l'edizione dell'Einaudi), che è un saggio utilissimo per chi vuole approfondire le radici storiche del Liberalsocialismo e del Repubblicanesimo. Si tratta di un testo storico-politico che ripercorre l'origine del movimento operaio italiano che, contrariamente a quanto ha voluto farci credere una certa storiografia marxista (troppo spesso mistificatrice), ha origini mazziniane e garibaldine: repubblicane quindi (come il colore rosso, mutuato poi da socialisti e comunisti, fu per la prima vlta utilizzato dai seguaci del Mazzini e di Garibaldi).
La storia del movimento operaio delle origini, a partire dalle Società Operaie e di Mutuo Soccorso, si interseca e si fonde con le lotte Risorgimentali per la libertà e l'emancipazione dall'Impero Asburgico, dalla Chiesa e dalla Monarchia Sabauda.
In "Mazzini e Bakunin", l'ottimo Rosselli ripercorre quegli avvenimenti storici a partire dall'analisi dei due protagonisti dell'Italia risorgimentale: il repubblicano e Apostolo dell'Unità d'Italia Giuseppe Mazzini, con la sua vocazione alla democrazia ed il materialista anarchico russo Michail Bakunin che fu all'origine del movimento libertario italiano ed europeo. Figure emblematiche e per certi versi contrapposte, ma a loro volta fortemente (e financo ferocemente) contrapposte all'antiumanitarismo totalitario propugnato da Karl Marx con il suo Manifesto del Partito Comunista che si concretizzerà nel '900 con l'avvento di una delle più sanguinarie dittature del mondo: l'Urss ed i suoi "satelliti".
"Mazzini e Bakunin" è certamente un testo illuminante e tutto sommato di semplice lettura per tutti coloro i quali vogliano conoscere un pezzo di storia patria troppo spesso negato e misconosciuto.

Luca Bagatin
www.lucabagatin.ilcannocchiale.it

giovedì 12 giugno 2008

FRANCO MEZZENA - Viotti - concerto 3 La maggiore (rondeau)

Per Marco

DURO & IMPURO by Luca Bagatin

FORSE, PIU' CHE L'ORDINE, ANDREBBERO ABOLITI I GIORNALISTI

L'avvocato, così come il giornalista, sono figure professionali che mi hanno sempre lasciato perplesso e con l'amaro in bocca.
Il primo è disposto a difendere i peggiori turlupinatori e cialtroni aggrappandosi all'infinitesimale e più insignificante cavillo legislativo che gli consente di "salvarsi e salvare la pelle al suo assistito" (specie in questo nostro Paese ove la certezza della pena è in realtà una vera e propria incertezza e la giustizia non è giammai uguale per tutti), il secondo....beh, lo scopo di questo articolo è proprio quello di approfondire questa arzigogolata quanto paradossale categoria professionale.
Il giornalista è quel particolare soggetto che, per mestiere, scrive sui cosiddetti "organi di stampa" ovvero "testate giornalistiche". Egli è dotato inoltre di una particolare tesserina che ne dimostra l'appartenenza alla relativa corporazione definita "Ordine dei Giornalisti" sancito dalla legislazione fascista negli anni '20 utile all'allora Regime per controllare l'attività di codesti "individui letterari" definiti, appunto, giornalisti.
Beh..."individui letterari". Diciamo che i giornalisti non sono quasi mai "letterari" o "letterati" nel senso più stretto del termine.
Essi si apprestano a riportare sulla carta i fatti del giorno....spessissimo modificandone ed alternandone la realtà a loro uso e consumo e per i più vari scopi. Anche commerciali.
E così non è raro trovare dotte riviste di cucina ove in bella mostra vi è l'intervista all'Assessore o al politico tale, che magari è direttamente o indirettamente finanziatore della stessa testata o è proprietario o cooproprietario del ristorante tale, sponsorizzato ovviamente dalla rivista di cucina di cui sopra.
Nulla di peccaminoso, per carità. E' solo che il giornalista a quel punto diventa un "servo", uno "strumento dell'inconscio collettivo a fini specifici".
Il Maestro spirituale George Ivanovitch Gurdjieff aveva precise opinioni sulla figura del giornalista:

"Il pubblico non sa mai chi è che scrive. Conosce soltanto il giornale, il quale appartiene a un gruppo di esperti commercianti.
Che cosa sanno esattamente coloro che scrivono su quei giornali, e che cosa succede dietro le quinte della redazione? Il lettore lo ignora completamente. I rappresentanti della civiltà contemporanea, trovandosi a un grado di sviluppo morale e psichico molto inferiore, sono come dei bambini che giocano col fuoco, incapaci di misurare la forza con la quale si esercita l'influenza della letteratura sulla massa."

Ed ancora:

"Non posso passare sotto silenzio questa nuova forma letteraria, perché, a parte il fatto che non porta assolutamente nulla di buono per lo sviluppo dell'intelligenza, essa è diventata, a mio avviso, il male de nostri tempi, nel senso che esercita un'influenza funesta sui rapporti umani. Questo genere di letteratura si è molto diffuso i questi ultimi tempi perché - ne sono fermamente convinto - esso corrisponde meglio di ogni altro alle debolezze e alle esigenze determinate negli uomini dalla loro crescente mancanza di volontà".

Il giornalismo professionale, è, insomma, mediaticità. Ovvero l'opposto delle realtà. E' semplificazione e quindi banalizzazione, mediocrità.
Partiamo ad esempio dalla cronaca nera che riempie i mass media di tutto il mondo e fa impennare gli ascolti e le vendite.
Stragi, stupri, violenze di ogni genere che giocano proprio sull'eccitabilità della mente umana. Eventi che da una parte banalizzano la morte in modo disumano e dall'altra la esaltano ed inculcano i più beceri sentimenti nell'animo umano stesso (vendetta, paura, insicurezza).
E' da tempo che io stesso mi rifiuto di guardare per intero un telegiornale e di rimanere quindi intriso da questo genere di pseudo informazione, di estremizzazione e mancanza di rispetto nei confronti degli eventi e del pubblico stesso.
Con ciò non affermo affatto che determinate notizie andrebbero cassate in toto.
Dico solo che dovrebbero essere propedeutiche a più approfondite riflessioni e spunti. Meglio se creativi. Spunti che vadano a toccare l'animo umano, ovviamente, ma che non lo sconvolgano.
Che facciano piuttosto riflettere su chi siamo e su ciò che ci circonda. Con la consapevolezza che "siamo tutti sulla stessa barca" ed assieme ad individui come noi. Non necessariamente migliori o peggiori.
E tutto ciò non è minimamente rilevato dai mass media che sbarrano per la maggior parte la strada alla comprensione ed all'approfondimento. Spesso infarcendo le notizie di giudizi sommari e sanza appello (la famosa gogna mediatica).
Il giornalista andrebbe sostituito dallo scrittore e dall'artista. Dal creativo della parole e dell'immagine, capace di traghettare e condurre il lettore/spettatore in un'universo interiore fatto di molteplicità di visioni e di punti di vista. Di spunti che gli consentano sue proprie riflessioni.
Non meri fatti, bensì immagini, parole il più possibile colte ed elevate (in modo da stimolare l'innata curiosità di chi legge o vede o ascolta).
Colui che scrive dovrebbe avere innanzitutto la capacità e la voglia di farlo.
Colui che è dedito a scrivere/realizzare il cosiddetto "pezzo" dovrebbe avere la consapevolezza del suo ruolo creativo. E non ci sono scuole o università che possono insegnare ciò, ma solamente il "fuoco interiore" e l'esperienza personale e diretta.
La capacità e la volontà di vedere oltre e di andare oltre il fatto in sé.
Colui che scrive lo dovrebbe fare con lo stesso animo con cui fa l'amore con il suo partner.
L'ardore descrittivo, l'ardore dell'argomentazione.
Poco importa l'imparzialità del testo. Anzi !
Sono convinto che lo scrittore/"giornalista" dovrebbe essere assolutamente parziale e dichiarare la sua totale parzialità.
Il suo punto di vista, la sua riflessione ed argomentazione sono, a parer mio, del tutto propedeutiche e utili alla riflessione del lettore/fruitore/uditore.
E' questo ciò che conta: fornire al soggetto-fruitore una chiave per diventare a sua volta "attore" e "partecipe" del processo di riflessione (riflessione, ovvero il contrario di informazione).
Ecco che lo scrittore (non più il giornalista) potrebbe smontare così una notizia, un fatto, e restituircelo al suo stato più puro e più aderente alla realtà e quindi rendercelo utile alla nostra stessa intima comprensione.
Un fatto, una notizia, non hanno alcun senso se non sono di utilità pratica al lettore.
Il pettegolezzo è "robaccia" per coloro i quali hanno tempo e vita da sprecare. Per coloro i quali non hanno più passione e si rassegnano ad essere e divenire, giorno per giorno, soggetti passivi. E quindi a divenire "oggetti", mere "prede" di tutto ciò che li circonda: dal dogma, alla menzogna, alla pubblicità, al "sentito dire".
Ecco dove nasce l'ignoranza e la stupidità.
Concludendo: per quanto concerne gli avvocati, massimo rispetto per coloro i quali con onestà difendono gli innocenti. Massimo garantismo, ma allo stesso tempo massima attenzione individuale e quindi collettiva.
Loro è la responsabilità di quanto accaduto nel passato, di quanto accade nel presente e di quanto accadrà nel futuro.
Massimo rispetto anche per "coloro i quali scrivono" i quali hanno forse una responsabilità ancora maggiore.
L'educazione e la cultura nascono sempre dalla libera circolazione delle idee. Idee che non possono formarsi da meri "pettegolezzi", dal "sentito dire", bensì unicamente dal profondo della creatività individuale.

Luca Bagatin
www.lucabagatin.ilcannocchiale.it

mercoledì 11 giugno 2008

UTO UGHI


Un omaggio ad un uomo che illustra la mia Patria con la sua Arte.

martedì 10 giugno 2008

DICHIARAZIONE DEL MINISTRO DELLA FUNZIONE PUBBLICA RENATO BRUNETTA (click)


«SENZA RISULTATI MI DIMETTO» - Il ministro fa anche una promessa: «Entro un anno, se il governo sarà ancora in carica, darò conto di quello che avrò fatto per migliorare e modificare la pubblica amministrazione e se non sarò riuscito a fare nulla darò le dimissioni. È la soluzione del mercato».

TENIAMO A MENTE QUESTE PAROLE.

FESTA DELLA MARINA MILITARE ITALIANA


Un pensiero riverente a tutti i Marinai d'Italia, ma soprattutto un grazie ai nostri Ragazzi che si trovano in missione UNIFIL in Libano.

domenica 8 giugno 2008

QUESTE LE PAROLE DELL'ATTUALE MINISTRO DEI BENI CULTURALI SANDRO BONDI


03 Giugno 2008

La cultura del ministro
Niente guerre per il potere intellettuale e niente spoils system del pensiero. Parla Sandro Bondi
di Luigi Amicone
È un ritornello che si sente ripetere spesso, quello secondo cui il centrodestra, e comunque quell’ampia maggioranza di popolo non afferente alla sinistra, non politicamente corretto, non sia attrezzato sul piano culturale. Sfatare questo luogo comune è sicuramente uno degli obiettivi che si è posto il neo ministro per i Beni e le Attività culturali del quarto governo Berlusconi, Sandro Bondi. Che dice a Tempi di non avere alcuna intenzione di scatenare una guerra alla cosidetta egemonia culturale della sinistra. «I più grandi scrittori, poeti, filosofi, storici del Novecento non hanno militato a sinistra. Qualche anno fa, era stato costretto ad ammetterlo anche un critico di vaglia e non certo di destra come Giovanni Raboni. Il problema semmai è che gli intellettuali liberali sono individualisti per natura e non amano il gioco di squadra, tanto meno mettersi al servizio della politica, mentre a sinistra è tipica la figura dell’intellettuale organico, engagé, spesso sottomesso all’ideologia. Oggi, finite le ideologie, mi sembra residuale anche questa forma di asservimento. Vero però che la classe dirigente del centrodestra, in passato, è stata poco attenta alla politica culturale, ma anche questa mancanza mi sembra ormai colmata.
Lei ha già ha speso parole generose per Nanni Moretti e Umberto Eco, per esempio. Oltre all’ecumenismo proverà a promuovere voci, personalità, espressioni culturali radicalmente diverse rispetto all’egemonia di matrice gramsciana che imperversano in questo paese praticamente dall’immediato secondo dopoguerra?
Nonostante le apparenze, non ho mai fatto sfoggio di ecumenismo fine a se stesso. Piuttosto credo sia giusto riconoscere le grandi intellettualità, come nel caso di Eco, ma vorrei anche che nessuno si scandalizzasse quando vengono chiamati ai livelli più alti intellettuali di centrodestra. Diversa è la questione politica: nel Dopoguerra siamo stati sottoposti ai rigori e alle falsità di un’egemonia culturale che ha provocato numerosi danni, a partire da una lettura distorta della recente storia patria a sua volta foriera di lacerazioni e conflitti. Detto questo, sarebbe assurdo pensare di proporre una nuova egemonia di segno diverso ma sempre finalizzata al potere. Meglio sarebbe aumentare il grado complessivo di libertà di un sistema abituato da sempre a foraggiarsi alle greppie dello Stato. E per far ciò, come lei suggerisce, è necessario promuovere nuove espressioni e puntare su un ricambio generazionale, nonché permettere ai privati di cofinanziare il mondo della cultura. In ogni caso, vorrei che il motto “suave in modo, fortiter in re” ispirasse il mio mandato, cioè dolce nel modo, più forte nella sostanza.
Arrivando al ministero dei Beni culturali immagino che avrà ereditato una serie di dossier. Cosa ritiene utile conservare come lascito dal ministro precedente e cosa invece intende cambiare?
Per ora è difficile dare una risposta. Una cosa è certa, la linea tracciata da Giuliano Urbani con il Codice dei beni culturali e del paesaggio è stata seguita da Rocco Buttiglione e poi da Francesco Rutelli, e non è mia intenzione distaccarmi. Il codice è un ottimo strumento per promuovere la conservazione del nostro immenso patrimonio artistico che è anche una delle priorità del nostro programma.
Alla vigilia delle elezioni Marcello Dell’Utri sollevò la questione della storia e della storia della cultura insegnata attraverso i libri di testo. Mi pare che auspicò un’ampia iniziativa di ammodernamento e revisione, per esempio dei testi storici scolastici. La ritiene auspicabile? E che ruolo può avere un ministro in questo ambito?
Credo che la questione sia di competenza del ministro dell’Istruzione. Ciò nonostante, posso dire che la provocazione avanzata dal senatore Marcello Dell’Utri – che giustamente il professor Massimo Cacciari considera «la vera testa pensante del centrodestra italiano» – non presuppone nessun tipo di revanscismo politico. Al contrario contiene l’idea che la storia sia “semper reformanda”. Ovvio che il revisionismo debba mirare alla verità e non a una semplice riscrittura ideologica. Prendiamo per esempio Giampaolo Pansa: sbagliano quelli che a sinistra lo hanno criticato come traditore della causa, oppure lo hanno bollato come revisionista, cercando di applicare con lui lo stesso meccanismo con il quale si tentò di svilire il lavoro storiografico di Renzo De Felice. Pansa va elogiato perché ha messo in luce la verità dei fatti. E non importa se questa verità squaderna la mitologia resistenziale sulla quale i comunisti cercarono di fondare la Prima Repubblica. Meglio una verità difficile da metabolizzare che una menzogna accettata per comodità.
Per quanto riguarda turismo e sport, su quali linee eserciterà il suo mandato? Ha un’agenda di priorità?
Le deleghe del turismo sono di competenza del sottosegretario Michela Vittoria Brambilla. Ma è chiaro che dovremo lavorare in sinergia. Il nostro paese attrae turisti soprattutto in ragione del suo vasto patrimonio culturale e ambientale. Diventa dunque strategico preservare i beni architettonici e il paesaggio che è frutto di una secolare stratificazione culturale, ma anche rendere fruttuosa in termini di immagine e di attrattività questa immensa ricchezza, migliorando la gestione dei musei, inventando nuove manifestazioni con valenza internazionale, esaltando anche le numerose piccole realtà, paesi, borghi che i turisti stranieri e spesso anche gli italiani non conoscono. Più in generale, i settori in cui l’Italia eccelle (moda, design, creatività…) sono strettamente legati alla bellezza del nostro territorio, bellezza che fornisce il modello o i modelli a cui ispirarsi. Non dimentichiamo che dal Rinascimento gli stranieri concedono all’Italia il primato del bien vivre, ed è quindi logico che dobbiamo in tutti i modi fortificare questo pregiudizio positivo. In questi ultimi anni il comparto del turismo ha retto la concorrenza sempre più agguerrita dei nostri competitori, sebbene sia cresciuto meno di quanto avrebbe potuto. È giunto il momento di invertire il segno, riconquistando la posizione di leader del turismo di qualità e d’arte.
Cinema. Si è molto parlato (anche il nostro giornale ne ha fatto oggetto di inchiesta) dello scandalo dei contributi pubblici al cosiddetto cinema di interesse culturale, che però in molti casi si è rivelato uno strumento puramente assistenzialistico, per non dire una distrazione di fondi dalle casse dello Stato. Non sarebbe ora di chiudere il rubinetto dei finanziamenti pubblici a questo cinema che di italiano ha solo i vizi e ben poche virtù culturali?
Se non ci fosse un sostegno pubblico, non esisterebbe più da tempo cinema di qualità italiano. E in considerazione del nostro glorioso passato, quando i maestri italiani insegnavano il cinema al mondo, mi sembra giusto continuare a sovvenzionare il settore, seguendo anche le prescrizioni dell’Europa che ammette gli aiuti di Stato al cinema come una deroga giusta e necessaria. Certo, sovvenzionare non significa sprecare soldi per pellicole che nessuno mai vedrà. Credo che lo Stato debba sempre intervenire in via sussidiaria, finanziando i privati, ma mai sostituendosi ad essi. Per questo motivo, sono convinto che basterebbero pochi cambiamenti: per esempio indurre le case di produzione a lavorare più intensamente nella fase progettuale e di scrittura, creando già dall’inizio tutte quelle sinergie che poi renderanno possibile ed efficace la distribuzione in sala. Aumentare i fondi a disposizione in questa fase di pre-produzione costerebbe meno allo Stato e sarebbe più utile per i privati che hanno investito. Alla fine della procedura i film che meritano il sostegno avranno maggiori possibilità di ottenere anche un successo di pubblico. Inoltre sono già al vaglio della Commissione europea strumenti di tax credit e tax shelter, cioè di detassazione degli investimenti, con i quali cercheremo di incoraggiare l’ingresso di aziende e di capitali privati anche non direttamente coinvolti nel mondo del cinema.
La mostra del cinema di Venezia è finanziata con fondi pubblici. Tutti ricordano che il sindaco Massimo Cacciari polemizzò duramente con la Festa del cinema di Walter Veltroni e chiese che nemmeno un euro venisse trasferito da Venezia a Roma. Come si orienterà lei in questa disfida?
La Festa del cinema di Roma ha avuto un indubbio successo ed è stata il frutto di una giusta intuizione. Credo che tutte le cose debbano essere riprese e non abbandonate. L’ultima decisione, comunque, spetta al sindaco Gianni Alemanno. Mi sembra però che, affrontando il problema della data di svolgimento del Festival e risolvendo la questione di quale debba essere la caratteristica principale della manifestazione (se concorso o semplice rassegna o festa, e Roma come mercato cinematografico), i due festival possono coesistere. Venezia ha una tradizione che non può essere messa in discussione e un fascino ineguagliabile, ed è giusto che mantenga il suo primato, ma Roma per l’appunto può acquistare uno spazio importante per il cinema italiano.
A quanto pare i festival dell’Unità andranno in pensione. Le mancheranno?
Assolutamente no, ma non posso dimenticare che l’impegno di quei militanti che sacrificavano anche le ferie per l’attaccamento agli ideali in cui credevano resta un valore che anche oggi i partiti, se vogliono essere radicati e ancorati al popolo, devono sapere suscitare.

Aiutiamo Emanuele Lo Bue

Per chi passa di qui : una mano.
http://www.troviamoibambini.it/index.php/emanuele-lo-bue-la-vergogna-della-regione-lombardia/

sabato 7 giugno 2008

PER IL TEN. DEI CARABINIERI MARCO PITTONI


Una preghiera.

venerdì 6 giugno 2008

giovedì 5 giugno 2008

COSI' LA PENSA CARLO PANELLA (click)


Ecco qui il Bianco e il Nero

mercoledì 4 giugno 2008

COSI' LA PENSA E LA VEDE UN ITALIANO

Mi trovavo, anni fa, ad una megafesta di un mio cliente americano, a Sarasota/Tampa in Florida.
Da buon americano tutto il quella festa era "grande"...
Persino le 'body guards' di Reagan, anch'egli invitato, due marines immensi con dei capelli rasati dietro, ben al di sopra delle loro orecchie...
E naturalmente la lucida visiera nera del berretto, ben calata da rendere gli occhi invisibili che ti faceva chiedere come questi potessero vederci.
Anche le braccia.
All'altezza del muscolo avevano la stessa circonferenza della mia... coscia!

Ma ciò che mi colpì maggiormente furono i pianisti.

Nell'enorme sala, apparecchiata per mille persone, c'erano due pedane girevoli, ognuna con due pianoforti, uno contro l'altro...
Sul pianoforte bianco suonava un nero,mentre sul pianoforte nero suonava un bianco.

Bizzarro, ma tipicamente americano.
Il contrasto.
Nella culla della democrazia, il contrasto la fa da protagonista.
Sempre.

Oggi l'ennesima e più seria conferma.
Obama ha vinto le primarie democratiche per la candidatura alla presidenza Usa.

Niente male per un Paese che di coraggio ne ha dimostrato tanto.
Se pensiamo che fino al 1865, meno di 150 fa,i neri erano schiavi, ma che anche dopo non hanno avuto vita facile, ci riesce più semplice capire il salto che ha permesso al giovanissimo Barack Obama di guadagnare la pole per la scrivania più potente del mondo!

E non proviene nemmeno da una stirpe miliardaria, come i finanzieri Kennedy oppure i come i petrolieri Bush...
Una stirpe invece che ha fra i propri martiri M.Luther King e molti altri più sconosciuti che "avevano un sogno"...
Una stirpe di Soul.

Dunque un grande Paese, L'America, che offre opportunità a tutti i livelli.

E per poco non riusciva anche ad un'altra recordwoman...
La Clinton.
Antipaticissima,datatissima ed un pò culona,con quello sgorbio di figlia chiamata "Cessa" dai cabarettisti del Bagaglino, già inquilina in duplice mandato dalla Casa Bianca, grazie a quel marito un po "cochon"...

La casa Bianca.
Un nero alla Casa Bianca.
Come col pianoforte...

Sarà tutto avvenuto per caso?
Good Morning America,
God Bless You!


S.M.(Texwiller)

lunedì 2 giugno 2008

domenica 1 giugno 2008

ANCORA SU BRUNO CONTRADA

'Sentenze basate solo sulle calunnie' Gli ex della Mobile difendono
Contrada
Repubblica - 31 maggio 2008 pagina 10 sezione: PALERMO

Si ricorda Giorgio Boris Giuliano nell' aula magna del rettorato,
allo Steri. L' occasione è il libro del giornalista Daniele
Billitteri ("Boris Giuliano, la squadra dei giusti" - Aliberti
editore): è presente la famiglia del capo della squadra mobile
assassinato nel 1979, c' è il questore di Palermo Giuseppe Caruso, ci
sono soprattutto i poliziotti che componevano quella squadra mobile
che segnò un metodo di lavoro nella lotta alla mafia.
Il dibattito è un susseguirsi di emozioni e ricordi, del poliziotto e
dell'uomo Giorgio Boris Giuliano. Ma è l'ultimo intervento che
accende la polemica. «La squadra non è al completo - dice Francesco
La Licata, inviato del quotidiano "la Stampa", cronista nella Palermo
di Giuliano e degli altri martiri - Mancano delle persone che
avrebbero tutto il diritto di stare qui adesso. Quella squadra mobile
era fatta anche da Bruno Contrada e Ignazio D'Antone, che attualmente
si trovano in carcere». Dice La Licata: «Le sentenze vanno
rispettate, ma posso testimoniare che quella squadra fu davvero
straordinaria e creò la lotta alla mafia». Il dibattito si anima
immediatamente. Tonino De Luca, in pensione da una settimana,
arringa: «In quegli anni eravamo soli. I grandi assenti erano
piuttosto certi magistrati.
Abbiamo dovuto attendere Falcone e Chinnici perché la situazione
cambiasse».
De Luca torna ad essere severo nei confronti dei magistrati quando
accenna alle indagini sui colleghi: «Perché noi della squadra di
Giuliano non siamo stati sentiti durante le indagini ma solo nel
dibattimento? Avremmo scoperto qualcosa di più». Il tono di De Luca
si fa severo: «Si uccide anche con la calunnia. E Bruno Contrada è
stato ucciso». Interviene Enzo Speranza, questore di Bari, che
ricorda il titolo di un libro: «Noi, costretti a difenderci».
Rincara: «Ha vinto la cultura del sospetto generalizzato». Cita l'
avvocato Piero Milio, presente fra il pubblico: «Se non fosse stata
la verità, non avrebbe difeso Contrada». Un altro funzionario di
allora, Piero Moscarelli, oggi prefetto, dice: «Quella di Contrada è
una sentenza emessa non in nome nostro. Mi vergogno un po' di questa
barbarie giuridica. Boris sarebbe contento che noi mostrassimo un po'
di coraggio». Nel saluto finale,anche Billitteri «assolve» Contrada e
D' Antone. Applausi. Non arriva alcuna voce di dissenso. s. p.


(il Moscarelli indicato nell'articolo non è prefetto ma questore, si
chiama Paolo e non Piero) Da Megaride.

E sì, "forse questa volta si può", dopo la vittoria del PdiL.

«La Sapienza è ostaggio dei balordi che agitano spauracchi del passato»

di Luca Telese
Quando lo raggiunge la notizia che secondo la Demoskopea I tre inverni della paura, il suo «Via col vento sulla guerra civile» è secondo in classifica, Giampaolo Pansa è a Cremona per il festival del racconto, con la sua inseparabile compagna (nonché coautrice) Adele Grisendi. Chiacchiera con Giorgio Faletti e lo motteggia («Ohè, quando hai finito di firmare autografi....»), sospira ironico per qualche ardita minigonna padana («Solo da queste parti, si toccano certi standard...»). E quasi si stupisce per il suo ennesimo successo editoriale: «Posso essere sincero? Non me lo aspettavo».

Subito dopo, quando inizia a ragionare seriamente, collega con un’unica analisi le vicende lontane che narra nel suo libro, la memoria persistente della guerra civile e le campagne giornalistiche di questi giorni. Parafrasando il titolo di uno dei sui ultimi saggi sintentizza: «I gendarmi della cronaca che costruiscono le favole che riempiono i giornali di questi tempi, sono il braccio operativo dei gendarmi della memoria che pretendono di mantenere il tasso di conformismo del nostro dibattito storiografico e culturale». Si parte da lontano.
Cominciamo da I tre inverni?

«Che dire? Quando scrivo un libro non mi metto certo a tavolino, per decidere un tema. Lo faccio perché mi va, punto. Fosse anche la riscrittura di Cappuccetto rosso. Volevo tornare per l’ultima volta, con una saga padana, alle storie di cui mi sono occupato per ben sette libri. Però...».
Cosa?
«Ora mi rendo conto che senza programmare nulla, il libro si è rivelato più attuale di quello che pensassi».
Perché lo è l’idea stessa della guerra civile?
«Perché lo spirito di divisione e di faziosità che si è strutturato in quegli anni, ha attraversato tutta la storia repubblicana fino a oggi. Pensi di scrivere del passato, e invece stai raccontando anche un pezzo di presente».
Se tutti i giornali hanno parlato del libro, questo senso di attualità deve essere arrivato al pubblico.
«Ho contato 32 diverse testate, quasi un record».

E quante stroncature?
«Nessuna. O meglio, una nota di ostilità in un articolo di Bruno Gravagnuolo su L’Unità, molto contrario sia al libro sia all’autore. Cosa comunque è legittima...».
E poi?
«Un articolo molto critico del professor Miguel Gotor, su La Stampa, da cui deduco che l’autore ha capito poco della guerra civile italiana. Se è lo stesso Gotor che ha curato le lettere di Moro...».
È lui. Un brillante studioso.
«Allora mi permetto una battutaccia: se ha studiato con lo stesso acume la storia dei 55 giorni, avrà scritto che Moro è il capo delle Br».

Addirittura.
«Faccio un esempio. Io parlo dei delitti contro i preti. E lui spiega che sono naturali e spiegabili perché apprendevano i segreti nel confessionale, e poi li andavano a raccontare ai nazisti... Francamente è un fumetto. Ma torno a quel discorso sull’attualità».
Prego.
«Primo. Se a quattro giorni dall’uscita questo libro è secondo, è anche perché ormai c’è un’opinione pubblica sempre più vasta, che non si accontenta più della minestra servita in un convento popolato di monaci e vescovi rossi».
Secondo?
«In mezzo secolo, si perpetua una costante: il complesso di superiorità dei migliori che pretendono di egemonizzare la cultura e la politica».
Anche questo è un filo lungo che parte dalla guerra civile dei tre inverni?
«È in quel tempo che queste certezze si sono fatte granitiche, così come il senso della faziosità per cui il mio nemico ha sempre torto perché non la pensa come me, ed è di conseguenza un mostro».
Nel romanzo hai trovato maggiore libertà di racconto rispetto al saggio?
«Sì. Credo che il mio libro sia da questo punto di vista un libro controcorrente, pacifista e revisionista».
I tuoi personaggi non sono intruppati....
«No. Sono donne che avvertono il montare dell’onda di odio collettivo e la temono. Mi accorgo che queste storie parlano al presente con grande forza evocativa».

Anche l’Italia di questi giorni è un Paese in cui si fatica ad accettare l’altro?
«Accipicchia! Con la sinistra che io chiamo regressista fuori dal Parlamento, e quella riformista suonata e ancora sotto choc per la sconfitta, la tentazione di chi ha perso di rifugiarsi nel complesso di superiorità raccontato da Ricolfi cresce ancora di più».
Non ti convincono le campagne sul ritorno della violenza squadrista?
«Ho visto una valanga di titoli surreali! La marea nera, le aggressioni fasciste, i raid... Credo che lo spauracchio dell’uomo nero sia un segno di debolezza incredibile».

Esempio?
«Ho appena presentato un libro postumo di Guareschi: il trinariciutismo è un’altro grande classico italiano. Penso al professor Canfora che ci vuole spiegare che il guevarista del Pigneto è comunque fascista perché picchia».
I fatti della Sapienza?
«Hanno provato a collegarli all’elezione di Alemanno. Ma come si fa? Solo balordi e trinariciuti possono credere che Alemanno rifaccia il terzo Reich. Eppure la leggenda di lupomanno nasce così».

Come giudichi il nuovo sindaco?
«Non lo giudico, perché un mese non è nulla per dare un giudizio. Lo difendo da queste favole, ma gli do un consiglio: lasci stare la toponomastica. In un clima così, intitolare strade a nomi che dividono non è opportuno. La memoria che divide non è fatta per arredare le strade».
Cosa accade nelle redazioni, invece?
«Io credo che con i giornali che perdono tutti copie, la tentazione di vendere piatti intossicati dai sapori forti ai lettori sia grande. Magari per nascondere la pochezza degli altri ingredienti».

La sinistra cosa dovrebbe fare?
«Ragionare sui perché di una sconfitta anziché cedere alla tentazione di delegittimare l’avversario».
Forse sono paure vere?
«Non so. Ma queste elezioni hanno definitivamente provato che il feticcio dell’antifascismo, contrariamente a quello che credono i suoi dirigenti non porta né voti né consensi».
Due anni fa, dopo diversi episodi di intolleranza, rinunciasti a presentare La grande bugia per non mettere a rischio i librai...
«E non solo. Lo spiegai in un capitolo de I gendarmi della memoria. Non era possibile che un libro diventasse un fatto di ordine pubblico, con tanto di scorte e assaltatori».

E per I tre inverni?
«Mi mettono molta fiducia questi lettori che incontro. C’è di nuovo molta voglia di sapere, di discutere, di capire.
Ci sto ancora pensando, ma forse ora si può».