venerdì 27 febbraio 2009
UN ESERCITO PER L'EUROPA ?
Per anni nella NATO è esistita la AMF (l) Allied Command Europe Mobile Force Land. Era il Comando di una Divisione formata da Reparti di tutti i Paesi della Nato
Forza Mobile Terrestre del Comando Alleato in Europa), fu costituita ad Heidelberg in Germania nel 1960 e per oltre 40 anni è stata il simbolo della solidarietà delle nazioni appartenenti alla Nato e della ferma intenzione di difenderne i confini reagendo con immediatezza a qualunque minaccia di aggressione.
I reparti Italiano che ne facevano parte erano:
- il 3° Reggimento Alpini di guarnigione a Pinerolo
- la 40^ batteria del 1° reggimento Artiglieria da Montagna con 6 obici da 105/14 - Fossano
- il Reparto di Sanità Aviotrasportabile della Brigata Alpina Taurinense di guarnigione a TORINO
- Un Aliquota Logistica del Battaglione Logistico della Brigata Alpina Taurinense di Guarnigione a Rivoli
"impiego rapido" in termini di grandi unità significava "non meno di un mese". AMF(L) invece era in grado di rischierare in 72 ore il Comando, il battaglione di supporto, una compagnia per ogni battaglione di fanteria e l'unità di rigognizione. Il rimanente della forza (in totale 12 battaglioni di fanteria, 8 batterie di artiglieria, una compagnia mortai e varie unità di supporto tattico e logistico) era rischierabile in 7 giorni. E' evidente quindi che AMF(L) era proprio l'unità che meglio si adeguava alla nuova dottrina. Tra l'altro, le continue esercitazioni svolte in comune tra i reparti delle 17 nazioni che la componevano (ne sanno qualcosa gli alpini del gruppo tattico Susa e del RSA che ne facevano parte) l'avevano fatta diventare effettivamente omogenea e coesa.Attualmente, secondo quanto previsto dalla dottrina, la Nato dispone del Corpo d'armata di reazione rapida (ARRC) . Il Comando di Solbiate Olona ,che è operante dalla fine dell'anno 2002 , promette di essere in grado di rispondere alle esigenze della nuova dottrina (impiego rapido e flessibile di forze multinazionali).
Quindi come vedi qualcosa di Internazionale esiste.
A seguire :
Tratto da un articolo uscito in occasione della Cerimonia di chiusura della AMF. Ho dovuto ricorre agli Amici perchè in Strategia Globale non sono preparato.
Di fronte alla esigenza impiegare la forza con immediatezza ed efficacia in ambito internazionale gli Stati Uniti rifiutano l'idea di affidarsi a forze multinazionali il cui impiego debba dipendere dalla decisione di troppi Governi e la cui efficacia militare debba essere condizionata dalla presenza di troppe nazionalità e troppe lingue nei comandi. Il Regno Unito è la sola nazione che abbia uomini "spendibili" e che parlano la stessa lingua (quasi) degli americani. Del resto, lo ha dimostrato la campagna in Afghanistan: i primi a intervenire al fianco degli americani sono stati i britannici. Inoltre, la politica estera del Presidente Bush è chiara: gli Stati Uniti sono la sola potenza mondiale e intervengono nelle crisi mondiali; per quanto riguarda le crisi regionali ci pensino le potenze regionali (Russia, Cina, Europa). Con l'URSS defunta, la Russia nella Nato e le altre nazioni europee che fanno la fila per entrarvi anche le aree di esercitazione di AMF(L) hanno perso significato strategico e, per quanto riguarda il Presidente degli Usa, se ci dovesse essere un'altra crisi in Europa se la vedano pure gli europei. Probabilmente, senza gli attentati dell'11 settembre, AMF(L) avrebbe continuato a vivere indisturbata per un po' di tempo ancora. La guerra contro il terrorismo e la politica estera di Bush (non la strategia della Nato) ne hanno decretato la morte
giovedì 26 febbraio 2009
Il treno della vergogna
Era una fredda domenica, quella dei 16 febbraio dei '47, quando da Pola s'imbarcò con i sacchi, le pentole, le ultime lenzuola e un piccolo tricolore il quarto convoglio marittimo di esuli. Qualcuno aveva voluto portare con sé le ossa dei morti. Tutti avevano gli occhi rivolti alla città che sempre più rimpiccioliva. "Era come voler trattenere dentro l'incomparabile visione della nostra cittadina. Nessuno poteva immaginare quello che ci attendeva in madrepatria".
A ricordarlo è uno di quei profughi, Lino Vivoda, allora quindicenne, che s'era imbarcato con i genitori sul piroscafo "Toscana". Una delle tante storie di addio a una terra amata e cancellata per sempre vissuta da chi, a guerra finita, scelse l'esilio per continuare a sentirsi italiano. "Ad Ancona l'impatto fu tremendo. C'era un cordone dell'esercito a proteggerci e tanta gente che scendeva dalla parte alta della città. Noi, dal ponte della nave, agitavamo le mani in segno di saluto, con le bandiere al collo, anche perché faceva freddo, nevicava. E loro rispondevano col pugno chiuso". Possibile che nessuno la pensasse diversamente. che non sentisse fratelli quei "veneti di la de mar"? Uno episodio, toccante ci fu. "Da quella folla vennero fuori in tre, due con la fisarmonica, e cominciarono a cantare vecchie canzoni istriane. Erano esuli pure loro, accettati per aver combattuto a fianco dei partigiani. Una scena commovente che un po' ci rincuorò. Anche chi ci insultava per un po' smise.
Da lì partimmo con un lungo treno di vagoni merci la sera di lunedì 17 febbraio, sdraiati sulla paglia, attraverso l'Italia semisepolta dalla neve. Dopo innumerevoli soste in stazioncine secondarie arrivammo a Bologna. Era martedì, poco dopo mezzogiorno. La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato un pasto caldo, atteso soprattutto dai bambini e dai più anziani". Ma dai microfoni "rossi" una voce gridò: "Se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione". Poco prima il convoglio, che i ferrovieri chiamavano il "treno dei fascisti", era stato preso a sassate da un gruppo di giovanissimi che sventolavano le bandiere con la falce e il martello. Ci fu perfino chi, per eccesso di zelo, versò sui binari il latte destinato ai bambini già in grave stato di disidratazione.
Il treno scomparve nella nebbia con il suo carico di delusione e di fame: la meta finale sarebbe stata una caserma di La Spezia. I pasti della Poa nel frattempo vennero trasportati a Parma con automezzi dell'esercito e distribuiti dalle crocerossine. "Vi giungemmo a tarda sera, la gente potè rifocillarsi dopo 24 ore di viaggio. C'erano tanti poveri tra noi, ma per i comunisti i poveri non avevano neanche il diritto di essere poveri". A inquadrare la drammatica vicenda del "treno della vergogna" in un contesto storico più ampio è Guido Rumici, goriziano, ricercatore di Storia ed economia regionale, autore di "Infoibati", "Fratelli d'Istria" e "Istria cinquant'anni dopo il grande esodo" per i tipi di Mursia. "Si trattò di un episodio nel quale la solidarietà nazionale venne meno per l'ignoranza dei veri motivi che avevano causato l'esodo di un intero popolo. Partirono tutte le classi sociali, dagli operai ai contadini, dai commercianti agli artigiani, dagli impiegati ai dirigenti. Un'intera popolazione lasciò le proprie case e i propri paesi, indipendentemente dal ceto e dalla colorazione politica dei singoli, per questo dico che è del tutto sbagliata e fuori luogo l'accusa indiscriminata fatta agli esuli di essere fuggiti dall'Istria e da Fiume perché troppo coinvolti con il fascismo. Pola era, comunque, una città operaia, la cui popolazione, compattamente italiana, vide la presenza di tremila partigiani impegnati contro i tedeschi. La maggioranza di loro prese parte all'esodo".
C'era chi istigava all'odio anche dalle colonne dei giornali. "Tommaso Giglio che allora scriveva per l'edizione milanese dell'Unità e che poi diresse l'Espresso, in quei giorni firmò tre articoli . In uno titolò "Chissà dove finirà il treno dei fascisti?"". Bruno Saggini, fiumano, residente a Bologna, unica città italiana in cui, fino a pochi anni fa, non esisteva una sola via dedicata all'Istria e alla tragedia dell'esodo, sottolinea la forte valenza ideologica di episodi come quello dei treno. "Gli attivisti di sinistra non capivano che gli italiani abbandonavano in massa le loro terre d'Istria, Fiume e Dalmazia per sfuggire alla snazionalizzante dittatura slavocomunista. Chi aveva fatto questa scelta doveva per forza essere etichettato come fascista".
articolo di Gian Aldo Traversi
tratto da "Dossier" suppl.del Quotidiano Nazionale
settembre 2004 "Il tricolore a Trieste"
martedì 24 febbraio 2009
I pagliacci della morte

Benissimo, incomincia il walzer.
No, non quello di Bashir che e' la a Hollywood senza aver vinto l'Oscar.
Parlo del walzer di Durban 2 , il walzer dell'odio, la bolgia infernale dell'antisemitismo, il girone dei fondamentalismi. Sotto l'egida dell'ONU, sotto la presidenza di due grandi "democrazie" Libia e Iran, non ridete suvvia, ormai la parola democrazia non ha piu' senso per l'occidente, ormai hanno senso soltanto i fondamentalismi islamici e le apprezzatissime dittature arabe.
Dunque, un momento, non perdiamo il filo, dicevo che e' stata consegnata a Ginevra la bozza della risoluzione che presentera' Israele alla futura conferenza contro il razzismo.
Altra risata? Conferenza contro il razzismo? Libia e Iran alla presidenza? Beh, si una risata e' dovuta se pensiamo alla faccia tosta degli organizzatori.
Secondo voi cosa succedera'?
Mi dicono che la realta' e' peggio della piu' pessimistica delle previsioni, mi dicono che e' incominciata una vera e propria guerra per imitare i crimini nazisti. Hitler e soci del XX secolo volevano un mondo senza ebrei, Hitler e soci del XXI secolo vogliono un mondo senza Israele.
La bozza recita che Israele e' un paese razzista che occupa terre arabe e viene definito "territorio occupato ai rifugiati palestinesi e ad altri abitanti arabi".
Israele non viene mai chiamato per nome ma sempre definito entita' occupante.
Israele non ha diritto ad esistere in quanto patria degli ebrei.
Motivo?
Semplice, se gli ebrei sono una razza allora Israele diventa patria di una razza, quindi razzista quindi da eliminare.
Validissima spiegazione, no?
Geniale!
Chissa' perche' lo stesso discorso non vale per tutte le altre nazioni del mondo. Israele e' un paese eterogeneo, vi convivono un centinaio di gruppi etnici, si incontra gente di tutti i colori che parla tutte le lingue del mondo ma alla societa' incivile non sta bene la formula "Israele, Paese ebraico".
Oltre alla negazione di Israele in quanto patria degli ebrei esiste la negazione della Shoa' rimessa in discussione da Siria e Iran.
Non sono morti tanti ebrei, bugia bugia, e' morto solo qualcuno e di malattia naturalmente.
Un'altra accusa e' quella di segregazione.
Israele tiene segregati gli arabi, cioe' una minoranza che studia, lavora, viaggia, frequenta l'universita', vota, sciopera, si diverte, protesta e che gode di ogni diritto della maggioranza
Tutto questo per Libia, Iran, Arabia Saudita, Egitto e tutti i democratici paesi arabi e islamici, e' segregazione.
Liberta' invece, sempre per questi pagliacci della morte, e' minacciare di decapitazione ogni persona beccata con in mano il Vangelo.
L'ambasciatore di Israele a Ginevra, Roni Leshno Yaar, durante un'intervista telefonica ha detto "Non si puo' sapere come finira', quello che e' sicuro e' che le cose peggiorano di giorno in giorno"
Gruppi palestinesi arrivano a Ginevra con nuovi comma di demonizzazioni da aggiungere: in Israele si mangiano i bambini arabi nei ristoranti, gli ebrei banchettano col sangue di noi poveri arabi, a Gaza sono stati uccisi milioni di poveri palestinesi disarmati, quasi tutti bambini al di sotto degli anni zero.
Naturalmente ai palestinesi tutti credono, gli arabi no ma gli occidentali credono ciecamente ad ogni palla di Palliwood, per gli europei i palestinesi sono santi, bravi, buoni, grandi lavoratori, pacifisti tutti ed e' per questo che si inginocchiano davanti a loro e li mantengono perche' capiscono che lavorare li stanca troppo e insieme a loro urlano pacificamente "A morte Israele, Palestina ai palestinesi, vogliamo un unico califfato per i nostri adoratissimi amici arabi".
E cosi' succede che i gruppi di palestinesi e filopalestinesi , centinaia di gruppi, arrivano a Ginevra , vanno dalla commissione e dicono:
aggiungete
e la commissione aggiunge allegramente.
Aggiunge le sofferenze palestinesi sotto la forza occupante (chi nomina Israele peste lo colga!)
Aggiunge del diritto dei palestinesi di ritornare nelle terre rubate dalla forza occupante.
Aggiunge che i poveri palestinesi devono sottostare alle leggi razziste della forza occupante.
La commissione aggiunge, che gli frega, aggiunge tutto quello che puo' procurare odio contro Israele perche' solo con tanto odio ci sara' la speranza che questo Paese, l'unico degli ebrei, dove gli ebrei speravano di poter vivere finalmente in pace, venga spazzato dalle carte geografiche di tutto il mondo.
Mi dicono che,al confronto, la festa razzista antisemita avvenuta nel 2001 a Durban sara' una sciocchezzina al confronto dell'orgia di odio che stanno preparando a Ginevra, nel cuore d'Europa.
Sara' l'evento antisemita dell'anno, peggiore di come ci saremmo aspettati e bisogna dire che l'Europa in questo senso ha una grande esperienza quindi mettiamo insieme odio europeo piu' odio islamico, esperienza persecutrice europea piu' esperienza persecutrice islamica, aggiungiamo un pizzico di Eurabia e di poveri palestinesi , agitiamo il tutto ed ecco la formula vincente di Durban 2 a Ginevra: Fuori Israele dal consesso mondiale! Ebrei a morte!
Sono curiosa di vedere quale dei paesi occidentali si rendera' complice di questa orgia di dementi razzisti.
Sono curiosa di vedere quale dei paesi europei non e' ancora sazio di sangue ebraico.
Deborah Fait
lunedì 23 febbraio 2009
Il lungo viaggio da Pola a La Spezia
domenica 22 febbraio 2009 (Il Giornale) | |
Pola al censimento austriaco del 1910 era al 75 per cento abitata da italiani, nel 1946 28mila polesani firmarono per abbandonare la città se assegnata alla Jugoslavia. Censiti per ribattere le accuse dei titini che fossero «ricchi pescicani borsari neri», meno di un migliaio risultarono industriali e professionisti, gli altri artigiani, operai, commercianti, impiegati e privati. Quando fu negato «il plebiscito» (e a San Francisco le Potenze Alleate avevano giustificato l'entrata in guerra con la difesa del principio di autodeterminazione dei popoli) non rimaneva che «il plebiscito dell'esodo». Si aprì ufficialmente il 23 dicembre '46 prima del Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio '47 (il Diktat): «italiani due volte per nascita e per libera scelta», come disse Giuseppe Saragat presidente della Repubblica. Sono schegge fiammeggianti dal nuovo libro di Lino Vivoda, esule da Pola a 17 anni con altri 2155 polesani sul IV convoglio del 16 febbraio '47 del «Toscana» (che compì altri dieci tragitti): Quel lungo viaggio verso l'esilio. Pola-Ancona-Bologna-La Spezia, (Edizioni istria europa. Imperia 2008). Alla partenza viene a salutare la famiglia Vivoda l'affezionata Antonietta che stirava a casa loro, una comunista sfegatata, chiedendo: «E quando il comunismo comanderà anche in Italia dove andrete?» «In Australia», rispondeva mamma. «E quando arriverà anche là?» «Magari sulla luna, mai sotto i comunisti». La memoria della pulizia etnica comunista titina ad una prima stima fu «di cinquemila morti infoibati che - fa osservare l'autore - salivano a ventimila con gli uccisi in vari modi, appesi ai ganci di macellerie, fucilati, annegati con pietre legate al collo, morti di stenti nei campi di rieducazione». Diventato studioso di storia patria oltre che funzionario del Ministero del Lavoro, Vivoda punta il dito sui falsi storici in atto. Il negazionismo è alimentato da pseudo-storici (la Kersevani, la Cernjal), da altri disinformati sulle foibe, Giacomo Scotti, Pedrag Matvejevic, al punto da sostenere che i fascisti per primi gettarono in foiba autocarri pieni di prigionieri. E non risparmia la «propaganda ufficiale» dei presidenti Mesic di Croazia e Drnovsek della Slovenia su «un'occupazione italiana dell'Istria solo dal 1918 al 45», ignorando la storia: dal 178 a.C. quando i Romani raggiungono le Alpi orientali alla costituzione dei liberi Comuni medievali che accomuna l'Istria all'Italia del Nord e che i popoli Il libro s'apre con il distacco dal suo mondo giovanile: la messa di mezzanotte del Natale 1946 con lui nel servizio d'ordine degli esploratori cattolici dell'ASCI di Pola, il 31 dicembre l'addio collettivo dei polesani con il canto dei Lombardi al Teatro Ciscutti, poi il commiato scout con la bandiera italiana ammainata, poi la visione della sua città vecia, della rivendita di pane e latte di nonna Maria, dell'osteria con il bigliardo di nonna Caterina... «O signor che dal tetto natio» è il canto struggente degli esuli quando la nave abbandona il molo». Questo libro è musicale per l'inseguirsi di canti profondamente connotativi: all'arrivo del "Toscana" ad Ancona da dietro le file dei soldati sul molo echeggia Bandiera rossa, cui il pubblico risponde con fischi e dalla nave con Fratelli d'Italia. Quando arrivano in treno a Bologna, il capitolo «Niente cibo al treno dei fascisti» riporta un episodio noto, ma qui insaporito delle frasi che uno degli esuli grida alla lettura del comunicato per altoparlante: «Tu mare putana gho fato due anni el partigian in bosco e ti me ciame fascista». «Gavemo lassado ste merde in Istria e se li trovemo anca qua». Il racconto si circoscrive in due momenti. Il primo, alla partenza per far capire la tensione del tempo. A bordo del «Toscana» vengono trovate due valige di esplosivo messe da un agente dell'OZNA (polizia segreta di Tito) per far saltare il piroscafo in mezzo all'Adriatico. Si sarebbe ripetuta la strage di Vergarolla, spiaggia di Pola, (18 agosto 1946) in cui tra le settanta vittime di una festa popolare della Pietas Julia, restò Sergio, il fratellino di otto anni dell'autore. La salma fu inviata (e anche altri polesani si portarono via i morti) al Cimitero Dei Boschetti di La Spezia, dove ora riposa il nucleo originario dei Vivoda. Il secondo momento: l'approdo. Dalla caserma spezzina Ugo Botti l'autore riuscì ad andar via dopo 8 anni ed entrato nell'associazione dei profughi, l'ANVGD, riuscì a far costruire per gli ultimi che la lasciarono 16 anni dopo (1963) 42 appartamenti a Rebocco nel terreno donato dal Comune di La Spezia. Alla partenza si era ripromesso di tornare senza passaporto nella sua terra ed ha potuto farlo: per il futuro spera in un'Istria europea. In cuore il canto dell'Adio a Pola (di Arturo Daici): «I disi che bisogna far valise che in primavera dovarò pompar con quattro fazoleti e do camise e con do brazi che sa lavorar/ Do robe vojo cior per ricordar/ In t'un scartosso un tochetin di Rena/ in'na fiascheta un fia del tuo bel mar.../Solo do lagrime/ una per ocio/ e po' in zenocio/ questa tera baserò». (Dicono che bisogna fare le valigie che in primavera dovrò partire con quattro fazzoletti e due camicie e con due braccia che sanno lavorare/ Due cose voglio prendere come ricordo/ In un cartoccio un pezzetto di Arena/ in una bottiglietta un po' del tuo bel mare/ Solo due lacrime/ una per occhio/ e poi in ginocchio/ questa terra bacerò.)
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domenica 22 febbraio 2009
FOIBE ED ESODO
Tratto dal Dossier Foibe ed Esodo, curato da Silvia Ferretto Clementi, Consigliere Regionale della Lombardia. (www.ferretto.it)
LA PULIZIA ETNICA E IL MANUALE CUBRILOVIC
La sola maniera ed il solo sistema di allontanarli (gli etnodiversi) è la forza brutale di un potere statale organizzato. Non rimane che una sola via, la loro deportazione in massa. Quando il potere dello Stato interviene nella lotta per la terra non può avere successo che agendo brutalmente.(1)
Questo brano è tratto da un testo intitolato Iscljavanje Arnauta (Piano di allontanamento degli albanesi), che rappresenta a tutti gli effetti un'opera teorico-pratica per sradicare una cultura ed un popolo. Fu presentata il 7 marzo 1937, come Enchiridion, al Circolo culturale serbo di Belgrado ed elaborata dal bosniaco Vasa Cubrilovic (2) (uno di coloro che congiurò per l'assassinio dell'erede al trono austriaco Francesco Ferdinando, avvenuto a Sarajevo) ed aveva come scopo l'eliminazione pianificata dell'etnia albanese, stanziata nel Kosovo.
Si tratta di un vero e proprio manuale, che riporta cinicamente le tecniche per attuare una "pulizia etnica", una "bonifica", dei territori da conquistare.
Nato dunque originariamente per essere utilizzato dai serbi contro gli albanesi, venne usato anche negli anni Quaranta contro la popolazione italiana in Istria ed in seguito rispolverato, negli anni Novanta, da Slobodan Milosevic, ancora una volta in Kosovo.
La così detta pulizia etnica non è infatti una tragica novità dei nostri giorni, bensì una costante sempre presente nei rapporti conflittuali fra le varie stirpi nel mosaico jugoslavo. (3)
Michel Roux in un suo intervento ricorda che (…) le radici ideologiche delle pulizie etniche che si sono avute nell'area balcanica, arrivano dalla Turchia la quale ha trasmesso il costume, derivato dalla Sharia, legge islamica, secondo il quale la vittoria militare e la conquista territoriale conferiscono il diritto di disporre della vita e dei beni dei vinti. Dai turchi i cristiani dei Balcani hanno imparato che con la spada si conquista, o si perde, non soltanto il potere e la sovranità, ma anche una casa o i beni.(4) (…)
Il futuro ministro di Tito elencava nel suo manuale di epurazione scientifica i metodi per ottenere le condizioni per ottenere un esodo di massa:
Nessuna azione richiede altrettanta perseveranza ed attenzione. Per realizzare un esodo di massa la prima condizione è la creazione di una psicologia appropriata che si può provocare in molteplici modi. Lo Stato deve sfruttare le Leggi a fondo, in maniera tale da rendere loro (agli "etnodiversi") insopportabile vivere presso di noi.
Gli strumenti consigliati da Cubrilovic e applicati fedelmente nei Balcani, nella Venezia Giulia e in Dalmazia per accelerare il processo d'esodo furono
Ammende, prigionia, applicazione rigorosa di tutte le disposizioni di polizia, (…), prestazioni d'opera obbligatorie e impiego di qualsiasi altro mezzo che può escogitare una polizia efficiente.
Sul piano economico: rifiuto di riconoscere i vecchi titoli di proprietà e un'operazione catastale che in questa regione deve accompagnarsi alla riscossione inesorabile delle imposte e al rimborso forzato di qualsiasi debito pubblico o privato, revoca di qualsiasi pascolo demaniale e comunale, soppressione delle concessioni accordate, ritiro delle licenze ai caffè, agli esercizi commerciali e alle botteghe artigiane, destituzione di funzionari, di impiegati privati e municipali. (…) (5)
Ma anche
- pratiche ed efficaci misure sul piano sanitario;
- applicazioni con la forza di tutte le disposizioni nelle dimore private;
- distruzione dei muri e delle grosse cinta delle case
Quest'ultima disposizione, ideata nel 1937, aveva l'obiettivo di colpire l'integralismo religioso islamico degli albanesi, i quali, da osservanti delle surah del Corano, erano infatti, particolarmente gelosi della loro privacy e sensibili a tutto ciò che riguardava la morale tradizionale.
L'abbattimento delle recinzioni attorno alle loro case e giardini esponeva le donne musulmane a sguardi indiscreti a scapito della riservatezza familiare, predicata dal Corano, che risultava menomata, e delle abitudini delle figlie, delle sorelle, delle mogli e delle madri che venivano turbate.
Questa pratica, nonostante non avesse alcun senso, venne applicata anche nei confronti degli italiani.
Molti furono anche i casi di persecuzioni e di violenze contro il clero cattolico, ma anche di distruzione di chiese e di cimiteri.
Essi (gli etno-diversi) sono molto sensibili in materia di religione. Bisogna pertanto toccarli su questo punto. Vi si giungerà perseguitando i preti, devastando i cimiteri.
I cimiteri sono evidente testimonianza della presenza delle componenti nazionali e, distruggendoli, conseguivano il duplice obiettivo di oltraggiare i morti e di impedire la testimonianza della presenza della componente etnica che volevano eliminare.
Anche la colonizzazione doveva avvenire senza lasciare nulla al caso.
Ai coloni bisognerà distribuire armi. Bisogna in particolare far irrompere un'ondata di gente dalle montagne, affinché provochino un conflitto massiccio.(7)
Nel suo manuale aveva individuato i montenegrini quali coloni più adatti allo scopo: in quanto arroganti, irriducibili e irragionevoli, con il loro comportamento obbligheranno gli albanesi a spostarsi. Questo conflitto deve essere preparato e attizzato attraverso il reclutamento di persone di fiducia. Infine si potrebbero anche fomentare problemi locali, che saranno repressi nel sangue e attraverso i mezzi più efficaci.
Rientrano in questo disegno anche l'imposizione delle jugolire (moneta priva di corso legale all'infuori della Zona B, che, da un giorno all'altro ridusse nella miseria più nera l'intera popolazione e provocò conflitti, scontri e repressione causando numerose vittime), la strage di Vergarolla, il terrore provocato dalle foibe e dai trasferimenti nei campi di lavoro forzato.
L'organizzazione dell'esodo e delle deportazioni doveva essere attenta ed ogni piccola défaillance evitata perché poteva comportare il fallimento di tutto il Piano
Non bisognava commettere l'errore di trasferire solamente i poveri. La classe media ed agiata, infatti, costituiva, secondo Cubrilovic, la colonna vertebrale di tutto il popolo. E' questa che bisognava dunque perseguire e trasferire. I poveri, sprovvisti del sostegno di compatrioti economicamente indipendenti, si sarebbero sottomessi più facilmente.
…si tratta di creare una "psicosi dell'evacuazione", di procedere a questa iniziando dalle campagne, (…), di espellere intere famiglie, interi villaggi mirando prioritariamente alle classi medie agiate, più influenti, senza le quali i poveri saranno incapaci di opporre resistenza.
In Istria, a Fiume e in Dalmazia, il manuale fu applicato minuziosamente contro intellettuali, commercianti, religiosi imprenditori, magistrati, pescatori, artigiani, studenti, operai senza distinzione di censo alcuna.
L'organizzazione operativa concepita da Cubrilovic era una vera e propria struttura militare messa in campo contro l'inerme "nemico etnico"
Il Piano Cubrilovic prevedeva infatti:
a) una struttura di vertice che dirigesse tutti "questi affari", affidata alla Stato Maggiore Generale dell'Esercito;
b) un Consiglio di Stato con mansioni operative alle dirette dipendenze del Capo di Stato Maggiore;
c) il coinvolgimento della Polizia, delle Istituzioni scientifiche per il supporto dottrinale, delle Associazioni Culturali, di quelle lavorative e sindacali, della stampa e della propaganda;
d) il ricorso all'iniziativa privata: bisognerà scegliere individui che provino attaccamento e passione per questa grande opera;
e) la nomina di un Commissario politico per ogni Distretto del territorio divenuto oggetto di bonifica e di colonizzazione
Tra il 1945 e il 1970 l'opera del legislatore jugoslavo fu particolarmente intensa.
La prima azione di attacco della struttura statale jugoslava sul popolo "sconfitto e diverso" fu sferrata avvalendosi dei "tribunali del popolo" e delle "foibe", le quali seminarono un terrore tale nella popolazione da creare rapidamente la "psicologia appropriata" voluta da Cubrilovic.
Lo Stato deve arrogarsi il diritto senza limiti di espropriare i beni mobili ed immobili degli espulsi e immediatamente dopo la loro partenza deve insediare al loro posto i propri coloni.
Nel XX secolo soltanto un paese abitato dal proprio popolo autoctono può garantire la propria sicurezza, è quindi nostro imperativo dovere comune non abbandonare posizioni strategiche di tale importanza in mano a un elemento ostile straniero. (…)
L'errore fondamentale dei nostri responsabili è stato dimenticare di trovarci nei turbolenti e insanguinati Balcani, e cercare di risolvere i grandi problemi etnici ricorrendo a metodi occidentali: mentre tutti i Paesi balcanici dal 1912 hanno risolto, stanno risolvendo, i problemi delle minoranze nazionali attraverso trasferimenti di popolazioni, noi siamo rimasti a lenti metodi di colonizzazione graduale.(8)
L'analogia di queste "strategie" con quelle che furono applicate nella Venezia Giulia e in Dalmazia dai capi comunisti jugoslavi nei confronti degli italiani, gli etnodiversi della situazione, è tanto evidente quanto impressionante.
E anche in questo caso l'obiettivo venne perfettamente raggiunto: furono infatti 350.000 coloro che, terrorizzati, lasciarono la propria terra.
Un esodo di proporzioni bibliche che testimonia l'efficacia e l'efficienza della pianificazione scientifica della pulizia etnica da un'area per 670 anni di tradizione romana e 580 veneziana, nella quale la cultura, l'architettura, la lingua, la storia e diversi censimenti, svolti prima dell'avvento del fascismo, testimoniano tutt'oggi ovunque l'italianità di quelle terre.
La lingua parlata stessa è un elemento vivo che testimonia le origini di questa regione, di cui i glottologi studiano le tante reliquie linguistiche, latine e post latine - di cui è rimasta traccia nel dialetto degli istriani e dei dalmati, esodati e rimasti - e la loro millenaria ed ininterrotta evoluzione.
Se infatti ripulirla dagli etnodiversi è stato "facile" e veloce, più difficile e complesso è risultato liberarsi della cultura maturata e sviluppatasi in secoli di storia in queste terre nonostante il tentativo di "pulizia culturale" che si sta ancora oggi tentando di portare a termine sia in Croazia che in Slovenia.
Nel suo testo, Cubrilovic, a dimostrazione della scientificità della sua azione, fece anche una sorta di studio di fattibilità della strategia, analizzando i costi dell'operazione, il ruolo delle diverse istituzioni, nonché le ipotesi di reazione internazionale.
La posta in gioco è tanto rilevante che non bisogna risparmiare denaro, e neppure vite.
Cubrilovic previde che nessuna potenza straniera sarebbe andata oltre una blanda manifestazione di indignazione per la sorte degli albanesi e così fu: tanto nel '37 così come negli anni '40 e '90.
Anche la guerra civile del 1990 nel Kosovo mostrò un'impressionante analogia di applicazione dei metodi e dei mezzi del manuale della "pulizia etnica", che, ancora una volta, ottenne "ottimi" risultati
D'altra parte Milosevic per mettere in pratica il suo piano,potè contare proprio su Vasa Cubrilovic in persona, il quale, in qualità di fidato consigliere del leader serbo, ricopriva anche in quest'occasione un ruolo di primaria importanza.
Dall'inizio della guerra nella ex Jugoslavia (1991), i massacri e le deportazioni compiute nel quadro delle varie "pulizie etniche" hanno provocato 200.000 morti. Alcuni calcolano in oltre quattro milioni e mezzo il numero complessivo dei profughi e degli sfollati dopo otto anni di guerra combattuta in Slovenia, Croazia, Bosnia e poi in Kosovo.
Nel 1995, anche a Srebrenica, alla fine della guerra in Bosnia, venne compiuto un eccidio da parte delle forze serbo-bosniache che sterminarono la comunità musulmana locale (più di 7.000 i morti). Nel 1998 prendendo a pretesto l'attività dell'Esercito di liberazione kosovaro (Uck), l'allora presidente jugoslavo Slobodan Milosevic aveva lanciato una sedicente campagna antiterrorismo che si era rivelata una vera e propria pulizia etnica. La popolazione della provincia era stimata in circa 2 milioni di abitanti, di cui 1.600.000 albanesi, 200.000 serbi e 200.000 di altre etnie (croati, bosniaci, rom, turchi). Il numero di profughi albanesi dalla provincia divenne altissimo, arrivando a superare le 700.000 persone, che dovettero abbandonare le loro case per sfuggire alle violenze, agli stupri e alle stragi.
L'atto di accusa presentato nel maggio 1999 dal Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia contro Milosevic e altri esponenti per le violenze subite dalla popolazione albanese nel Kosovo, avvenuti fra il primo gennaio ed il 20 maggio 1999, parlava tra l'altro dell'omicidio di centinaia di persone. Il numero totale dei kosovari fuggiti dal loro paese dall'inizio della pulizia etnica nel marzo 1998 fino alla fine del conflitto, sulla base dei dati dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr), era diventato con la guerra di oltre 1,5 milioni. I flussi dei profughi si erano rivolti verso i paesi vicini, particolarmente in Albania (circa 450.000 persone), in Macedonia (245.000) in Serbia (60.000) e in Europa (120.000). Gli sfollati all'interno del Kosovo erano oltre 500.000.
Nella cultura slava è sempre esistita una forte componente nazionalistica.
Dunque non si tratta tanto di differenze culturali, quanto piuttosto della forte componente nazionalistica della cultura serba, che ha voluto forzatamente omogeneizzare un territorio attraverso l'espulsione o il massacro di elementi ritenuti indesiderabili attraverso l'ormai tristemente famosa formula della "pulizia etnica".(10)
Nel famoso memorandum dell'Accademia delle Scienze e delle Arti di Belgrado del 1986, il celebre scrittore nazionalista serbo Dorica Cosic, divenuto nel 1992 presidente della "Nuova Jugoslavia" di Slobodan Milosevic, dichiarò
la pulizia etnica è funzionale alla creazione di una grande Serbia (…) il successo di un'operazione militare è dato dall'eliminazione dal territorio delle popolazioni aliene
Ettore Mo, ricostruendo la meticolosa applicazione del manuale Cubrilovic nelle varie pulizie etniche realizzate dagli slavi, affermò:
il mondo dovrà lavorare per far capire ai serbi che l'attuazione di tali piani (manuale Cubrilovic) non è patriottismo, ma il più grande crimine che esista.(11)
FINE.
1 V. Cubrilovic citato da A. Vascon, il Libro bianco, (Antonietta Vascon, animatrice del comitato "Triestine per la libertà" e profuga istriana).
2 Professore universitario, nato a Bosanska Gradisca nel 1897, aderì all'organizzazione nazionalista Giovane Bosnia nel 1937 e nel 1945 divenne ministro dell'agricoltura di Tito. Successivamente, divenne consigliere di Milosevic, carica che ricoprì fino alla sua morte, nel 1991
3 A. Petacco, L'esodo, Milano, A. Mondadori Editore, 1999, p. 35
4 M. Roux, in Europa e nuovi nazionalismi. I Balcani, L. Rastello (a cura di), Rivista Limes, Rivista Italiana di geopolitica 1-2/93, ivi, p. 2
5 Cubrilovic citato da M. Roux, Lo scenario bosniaco: pulizia etnica e spartizione territoriale, p. 34
6 Questa disposizione del manuale Cubrilovic è tuttora applicata in Kosovo, dove, secondo notizie Ansa e Agi, sull'onda degli scontri etnici religiosi più di 140 fra chiese e monasteri cristiani ortodossi, per lo più gioielli dell'architettura medioevale e migliaia di icone, oggetti liturgici e libri sacri, sono stati distrutti. Stessa sorte hanno seguito la Chiesa ortodossa di Obilic e tutti gli edifici religiosi serbi di Prizren (fra cui l'antico monastero di sant'Arcangelo). Contro il monastero di Vikosi decani (ovest) sono state lanciate addirittura bombe a mano
7 V. Cubrilovic citato da A. Vascon in Il libro bianco, cit.
8 Cubrilovic citato da M. Roux, Lo scenario bosniaco: pulizia etnica e spartizione territoriale, p. 39 Scheda Ansa, Pulizia etnica, tragico marchio guerra Balcani, 19/3/2004.
10 Gianfranco Lizza, Geopolitica itinerari del potere, ed. UTET.
11 E. Mo, Pulizia Etnica un piano studiato 60 anni fa, "Il Corriere della Sera", 4 maggio 1999.
Foibe censurate
Nonostante tutta la bella retorica che ci siamo sorbiti in questi anni sul superamento della censura tout-court dell'eccidio istriano dopo la salita al potere di Tito (al quale sono tuttoggi dedicate alcune vie nazionali...no comment), i «gendarmi della memoria» sono ancora in piena efficienza, pronti ad intervenire non appena qualche facinoroso decide di squarciare, magari con scorrettezza politica legittima e doverosa, il velo dell'oblio.
Questo il casus belli: il Campidoglio ha organizzato un viaggio dedicato alla civiltà istriano-dalmata e alla tragedia delle foibe. Ai ragazzi partecipanti è stato consegnato un opuscolo di 13 pagine (1945 nascita dello Stato comunista iugoslavo: la logica del terrore, di Paolo Albertini) che in quarta di copertina riproduceva la fotografia di un uomo legato ancora vivo col filo spinato ad una falce e martello. Una sorta di laica crocifissione marxista neanche troppo allegorica.
Apriti cielo: gli insegnanti hanno gridato allo scandalo, sostenendo che certamente non era sotto un'egida del genere che si poteva parlare di «dialogo» e «riconciliazione». Alemanno imbarazzatissimo si scusa e si affretta ad affermare che il libello sarà «ritirato, restituito e sostituito» con un altro, evidentemente più corretto e meno urticante. L'opuscolo è stato preso dal Centro Documentale per la foiba di Basovizza e Paolo Albertini è il presidente della Lega Nazionale di Trieste, una associazione di esuli, gente quindi che si suppone abbia avuto esperienza diretta o indiretta con i massacri perpetrati dai partigiani titini.
Non comprendiamo francamente lo scandalo dove stia. Se scandalo c'è stato e c'è, direi che riguarda la cultura della rimozione, che ha stralciato per motivi di opportunità politica le pagine della storia rossa «meno edificanti», per usare un eufemismo, cultura ancora presente nel nostro paese in molteplici e mutevoli forme. Oggi che determinate realtà storiche sono state faticosamente riesumate da pochi volenterosi l'intellighenzia non può più parlare di «calunnie propagandistiche» come per anni ha fatto riguardo al genocidio Cambogiano o alla Cina Maoista. Oggi è attraverso la melliflua e venefica argomentazione del «non recar turbativa ai discenti» che la censura ha ripreso ad operare: non potendo più negare l'evidenza storica di tante tragedie orribili, non resta che ricorrere alla cosmesi, imbellettare le tombe senza nome, effettuare mirate operazioni di chirurgia estetica per rendere politicamente più accettabile il volto della morte.
Siamo nuovamente di fronte alle «anime belle» che avrebbero voluto censurare «The Passion» di Gibson o «Il Mercante di Pietre» di Martinelli. Aveva veramente ragione Tolkien quando scriveva: «A chi guarda di sbieco il volto della verità compare come un ghigno malevolo...».
http://www.ragionpolitica.it/cms/index.php?option=com_content&task=view&id=933&
sabato 21 febbraio 2009
IL MITO DI ROMA
La tesi fondamentale è che il modello di civiltà rappresentato da Roma abbia segnato la cultura occidentale in misura persino maggiore di quelli offerti da Gerusalemme e da Atene, beninteso in determinati campi ed ambiti.
Praticamente tutti i popoli che hanno più segnato la storia europea dal momento della caduta di Roma hanno dovuto confrontarsi con la sua eredità ed hanno considerato la storia della Città Eterna quale un modello esemplare da seguire ed imitare. Le civiltà posteriori oltre a ricercare l’imitazione nei riguardi della repubblica e dell’impero romani, ebbero nei confronti della storia dell’Urbe come un complesso di inferiorità, riconoscendo implicitamente l’irripetibilità delle sue vicende e del suo operato: già questo fu l’atteggiamento di Carlo Magno, che pure fu il padre di una rinnovata istituzione imperiale in Occidente.
L’opera presenta quindi una successione impressionante di nazioni, capi di stato, condottieri ecc. che vollero, in un modo od in altro, proclamarsi eredi e continuatori di Roma antica, appunto da Carlo Magno a Mussolini, passando per Ottone III, Federico II di Svevia, Carlo V d’Asburgo, Luigi XIV, Napoleone, e molti, moltissimi altri. Fra le entità politiche, l’impero dei Franchi, la Francia monarchica, la Repubblica francese, tutti e tre i “Reich” tedeschi (il primo medievale, il secondo fondato da Bismarck e persino quello nazista), la Spagna imperiale ecc. trassero ispirazione da Roma.
Questi due studiosi, Giardina e Vauchez, hanno inoltre il merito di spiegare ai lettori in quale modo i personaggi e le civiltà suddette abbiano inoltre introdotto delle forzature e mistificazioni nell’interpretazione della storia romana, al fine di meglio proporsi quali suoi continuatori. In questa opera di de-mitizzazione storica largo spazio è riservato al fascismo ed al nazismo, la cui imitazione di Roma antica fu limitata soltanto ad alcuni aspetti, tralasciandone intenzionalmente altri con un’operazione deformante.
Il lavoro, preparato da una coppia di storici d’indubbio valore, è senz’altro di alto livello. Un’osservazione critica si può comunque rivolgere allo studio non tanto per negare quanto sostiene, quanto per ampliarne la prospettiva in un duplice modo.
Anzitutto, l’opera di Giardina e Vauchez si limita intenzionalmente alla sola Europa occidentale, trascurando la presenza del “mito di Roma” nell’area orientale, non solo con l’impero costantinopolitano o “romeo”, che rimase sino alla sua fine del 1453 la diretta ed ininterrotta prosecuzione dell’impero romano d’oriente, ma anche con i Rumeni, presso i quali l’idea di essere discendenti da Roma è fondamento dell’identità nazionale, presso la “terza Roma”, cioè la Santa Russia degli zar, e persino presso i Turchi, il cui impero rivendicò se stesso quale prosecuzione di quello romano. Anzi, bisognerebbe parlare del “mito di Roma” anche nel continente americano, da Simon Bolivar il Libertador, che concepì il suo progetto politico di liberazione dal colonialismo spagnolo durante la sua visita a Roma stessa ed in conseguenza della medesima, sino agli USA attuali, che nelle proprie èlites coltivano l’idea di una renovatio imperii, persino sul piano strettamente simbolico (il Campidoglio, l’aquila americana ecc.).
Inoltre, Roma non si è limitata a trasmettere la sua eredità sul piano politico, avendo segnato la storia posteriore anche, e forse soprattutto, negli ambiti del diritto, dell’arte militare, della letteratura, del cristianesimo. D’altronde, gli studi al riguardo abbondano e Giardina e Vauchez avrebbero rischiato di dover ripetere quanto già detto da altri.
In conclusione, lo studio “Il mito di Roma” è sicuramente pregevole, anche se, causa le dimensioni smisurate dell’argomento, finisce con l’amputare e restringere in maniera eccessiva.
martedì 17 febbraio 2009
SILENZIO COLPOSO (clik)
domenica 15 febbraio 2009
Memento Pola 1944
Riporto quanto postai nel giorno della memoria di 2 anni fa sul mio blog.
Memento Pola 1944
Il cavaliere e l’orsetto.
All’università ho studiato il calcolo delle probabilità ma, chissà come mai, se lo applico a me stesso, non funziona. Tutte le volte, che cerco qualche cosa in un mucchio, è sempre l’ultima, nell’ultimo baule e nel baule proprio sul fondo. Misteri della matematica o nuvoletta alla Fantozzi?
Così, cercando un libro in un vecchio baule, ho ritrovato, ben riposto, da mia madre, quello che era stato il mio unico giocattolo da piccolo: un orsetto. Un pò malconcio, senza un occhio, con la stoffa sdrucita da cui fuoriesce la paglia.
Raccogliendolo, quasi fosse un videoclip, cominciano a scorrere nella mia mente immagini di un lontano passato. Immagini confuse, che si accavallano, che si sfumano, che si ripresentano ma, lentamente, i contorni si vanno definendo.
Soldati, armi, spari, sirene d’allarme, il fragore delle bombe, il rifugio. Già, il rifugio letto di quasi ogni notte. Accovacciato su un giaciglio di paglia, avvolto in una vecchia coperta, abbracciavo il mio bobi, l’orsetto, unica certezza in tanto marasma. Ero troppo piccolo per capire e troppo grande per non ricordare.
Nell’ombra, sfumata da una fioca luce, c’era uno strano soldato che accarezzava la testa del suo cavallo, per non farlo nitrire. Che ci faceva, un cavaliere dall’aspetto orientale, a Pola nel 1944 ? Mandato a combattere una guerra che, forse, non gli apparteneva e a morire per quale causa ? Mi ero affezionato a quella presenza, chissà cosa avrei fatto per montare in groppa a quel cavallo.
Una sera non venne e non è più venuto, ma non credo che fosse, perché era tornato a casa.
Forse, certi vecchi bauli è meglio lasciarli chiusi.
Nota per il lettore politicamente corretto che non sa, o ipocritamente non vuole sapere.
Pola, città rifondata dai romani su antiche vestigia, era italiana e fu abbandonata al suo tragico destino, come tutta la popolazione istriana, dai governi “democratici” postbellici.
Quei fortunati che riuscirono a salvarsi furono trattati in modo vergognoso, dai suddetti governi, in quanto memoria vivente del loro tradimento.
Sarebbe stato meglio, per loro ,che fossimo tutti democraticamente morti per mano dei democraticissimi partigiani comunisti italiani e titini.
Marcello
sabato 14 febbraio 2009
VIGILI DEL FUOCO (click)

13.02.2009
L'ultima bandiera italiana di Pola donata al museo storico ‘Roma città del fuoco’: nel 1947 il Vigile del fuoco Umberto Gherardi la sottrasse all’arrivo dei partigiani di Tito
Dopo oltre sessant’anni, grazie alle attività di ricerca del Gruppo Storico dei Vigili del Fuoco di Roma, è stata ritrovata l’ultima bandiera italiana della città di Pola.
La famiglia Gherardi l’ha donata al Museo Storico ‘Roma città del fuoco’ dove ora è conservata ed esposta al pubblico.
La storia della bandiera risale al 1947 quando, con gli accordi di pace, la città di Pola venne assegnata alla Jugoslavia e migliaia di persone furono costrette a lasciarla mentre le loro case venivano confiscate e occupate.
Anche i Vigili del fuoco dovettero rifugiarsi nelle Scuole centrali antincendi di Roma per riprendere servizio, solo in seguito, nei vari comandi d’Italia.
Uno di loro, il vigile Umberto Gherardi del 41° Corpo dei vigili del fuoco di Pola, prima di abbandonare la città per l’arrivo dei partigiani di Tito, prese la bandiera italiana dalla cima della cupola di un palazzo pubblico e la portò con sé a Roma evitando che venisse profanata o distrutta.
Alla cerimonia di donazione, che si è svolta il 7 febbraio, hanno partecipato il Comandante dei Vigili del fuoco di Roma Guido Parisi e le rappresentanze dell'Associazione nazionale degli esuli della Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd).
venerdì 13 febbraio 2009
battistad ci lascia
Mi ha detto di dare un bacio a mamma Ambra e un abbraccio a Luchy (che non sa quanto è fortunato per l'abbraccio virtuale)...
giovedì 12 febbraio 2009
NESSUN MALATO SOFFRA FAME E SETE (click)
martedì 10 febbraio 2009
lunedì 9 febbraio 2009
PAGINE DI DIFESA (click)

Herat, i militari italiani aprono la base Tobruk nell’area di Bala Baluk
La task force Tobruk, su base 1^ compagnia guastatori del 2^ reggimento genio-guastatori alpini di Trento della brigata Julia, ha aperto la nuova base remota italiana Tobruk nell’area di Bala Baluk sita nella provincia di Farah.
Durante i lavori di completamento della base, i genieri hanno distrutto il materiale esplosivo che hanno rinvenuto nell’area: 1.264 cartucce di vario calibro, 36 bombe da mortaio, 2 razzi da 107 mm, 5 proiettili da 76 mm, 15 motori volo di Rpg-7, 130 granate di vario calibro e pericolosi materiali di sub munizione.
La base rappresenta un’efficiente sistemazione logistica per gli alpini e i bersaglieri del battle group di RC-W, comandati dal tenente colonnello Salvatore Paolo Radizza, che opereranno a supporto delle forze di sicurezza nazionali afghane (Ansf) al fine di mantenere sicura l’area di Bala Baluk e quindi di favorirne le migliori condizioni per uno sviluppo economico e sociale.
Fonte: Italfor Herat
giovedì 5 febbraio 2009
ELUANA ENGLARO
mercoledì 4 febbraio 2009
PAGINE DI DIFESA

Il 3 febbraio, presso la base italiana di Herat, all’interno dell’hangar del task group Pantera, ha avuto luogo la cerimonia di consegna della medaglia Nato al personale elicotterista della Marina Militare che ha terminato il proprio periodo in teatro dopo aver operato per oltre due mesi nella Regione Ovest dell’Afghanistan.
Alla breve cerimonia ha presenziato il comandante di RC-W, generale di brigata Paolo Serra e il comandante della JATF (Joint Air Task Force), il colonnello dell’Aeronautica Militare Francesco Vestito.
Il comandante di RC-W al termine della cerimonia ha evidenziato l’importanza delle operazioni aeree che la JATF svolge in supporto alle forze di terra di RC-W evidenziando l’ottima qualità dell’operato espresso dagli equipaggi di volo degli AB 212 della Marina Militare del task group Pantera, comandato dal capitano di fregata Gianni Altomonte.
Gli ufficiali e i sottufficiali che hanno terminato il proprio mandato provengono dalle basi aeronavali del 4° gruppo elicotteri di Grottaglie, 5° gruppo elicotteri di Luni, 3° e 2° gruppo elicotteri di Catania. Il task group Pantera dallo scorso dicembre ha totalizzato 170 ore di volo effettuando oltre 150 missioni svolte per il trasporto del personale, la ricognizione e il controllo del territorio.
Fonte: Italfor Herat
martedì 3 febbraio 2009
COMUNICAZIONE URGENTE
Ricevuti segnali attendibili.... GANDALF e' vivo non operativo..., richiedesi immediata azionene di recupero.... porco cane FRODO muovere il culo....