Intendo segnalare un caso che, a detta di molti, è di palese ed incredibile ingiustizia, come si può facilmente comprendere dalla lettura di quanto segue. I cittadini italiani i quali si trovano all’estero sovente hanno gravi, od anche gravissime difficoltà a far valere i propri diritti, anche in paesi dal buon sistema giudiziario come gli USA.
L’antefatto
Carlo Parlanti, classe 1964, è un cittadino italiano che da anni lotta contro una delle accuse più infamanti e tuttavia sempre più facili a lanciarsi: stupro e violenza nei confronti di una donna.Manager informatico di successo, Parlanti ha lavorato per diverse società in diversi paesi del mondo. Dal 1996 al 2002 ha vissuto in California lavorando per Dole Food, la famosa multinazionale alimentare.
Egli in America aveva allacciato una relazione con una donna, tale Rebecca White.Parlanti si fida di lei a tal punto da accoglierla nella propria casa e concederle una delega notarile su tutti i suoi beni. Tuttavia, dopo alcuni mesi la loro relazione si incrina e, il 16 luglio 2002, giorno in cui il Parlanti si reca in Gulporth per lavoro, decide di troncare definitivamente i rapporti in quanto la donna sarebbe diventata troppo possessiva . Nelle prime settimane dell'agosto 2002, Parlanti conclude la sua avventura americana e prende un volo per l'Italia, dove avrebbe cercato migliori opportunità di lavoro.
L’arresto e le vicende anteriori al processo
Nei seguenti due anni si troverà ancora diverse volte a viaggiare per l'europa, finchè un giorno, in seguito ad un normale controllo, verrà arrestato presso un aeroporto tedesco. Rebecca White infatti aveva denunciato Parlanti per violenza carnale nel 2002.
Non sono note le ragioni per cui il mandato di arresto, spiccato dalle autorità statunitensi poco dopo la denuncia della White, non sia mai stato inviato o recepito in Italia. Di fatto, Parlanti continua a lavorare e a vivere in Italia per due anni finché, nel luglio 2004, viene arrestato durante uno scalo aereo dalla polizia tedesca, in seguito a un controllo casuale. Riconosciuto come ricercato internazionale, viene immediatamente trasferito nel carcere cittadino di Duesseldorf, dove passerà quasi un anno della sua vita. Questo è solo l'inizio del suo calvario.
In base ai trattati internazionali, la Germania dovrebbe spedire il prigioniero in America per essere giudicato, ma l'Italia può reclamare il diritto di processarlo in patria. Questo darebbe modo alla famiglia di seguire più agevolmente le fasi del processo, e di evitare un ambiente per molti versi ritenuto ostile al Parlanti, il quale rischierebbe di trovarsi vittima d’un duplice pregiudizio, quello contro gli Italiani, giudicati spesso propensi al crimine, e contro gli uomini.
Nonostante gli sforzi dei due avvocati assunti dalla famiglia Parlanti sia in Italia che in Germania, e l'intervento del ministro Castelli supplicato dalla madre di Parlanti, ogni tentativo di celebrare il processo in Italia fallisce per l'opposizione di alcuni magistrati. Alla fine, il 3 giugno 2005, la Germania dà seguito all'estradizione inviando il prigioniero a Ventura, California. Un'estradizione da molti definita come “formalmente controversa”.Una volta in America, tutti i timori espressi dagli avvocati sulla garanzia dei diritti di imputato di Parlanti si rivelano purtroppo fondati. Nelle apparizioni in tribunale non è mai presente alcun interprete. Durante la prima udienza, il procuratore distrettuale introduce il suo caso dichiarando falsamente che l'imputato ha già dei precedenti penali in Italia, tra cui addirittura per stupro e rapina a mano armata. L'avvocato che dovrebbe difenderlo da queste false accuse non si fa neppure vedere, in quanto la famiglia di Parlanti non è stata in grado di assicurargli un cospicuo anticipo. Gli viene così assegnato un avvocato d’ufficio.Durante la reclusione, la salute di Parlanti, già minata, peggiora di giorno in giorno. Soffre di una grave forma d'asma, sciatalgia e piorrea. Risulta inoltre positivo al test della TBC. Molte medicine, tra cui il Ventolin, sono vietate, mentre l'assistenza medica è sporadica e inadeguata al suo caso.
Le assurdità delle accuse
Le accuse di Rebecca White sono a dir poco inconsistenti e contraddette da una molteplicità di fatti e particolari. L’ex amante di Parlanti lo aveva denunciato affermando di essere stata picchiata, legata e stuprata nella notte del 6 luglio (più tardi correggerà la data al 29 giugno) dal suo ex-amante, e sequestrata per una settimana, benché solo di notte, in quanto di giorno Parlanti si recava al lavoro.
1) La polizia non nota né documenta alcuna cicatrice o ferita sul volto della donna e in nessun altra parte del corpo.
2) Dall'ispezione dell'appartamento dove si sarebbe consumato il crimine non emerge alcun segno di collutazione, né tracce di sangue, nonostante la donna dichiarerà più tardi che il suo sangue avesse inzuppato il materasso.
3) Inoltre, le strisce di plastica sequestrate dai poliziotti senza alcun mandato, con le quali il Parlanti l'avrebbe legata, sono nuove e non recano traccia del suo DNA.
4) I poliziotti interrogano i vicini, che non ricordano di avere udito litigi o urla nel corso di quella settimana, nonostante i muri, molto sottili, siano di cartongesso.
5) Su consiglio della polizia, il 22 luglio 2002 si sottopone a una visita medica, da un ‘doctor on duty’ a Monterey, città dove la presunta vittima torna a vivere dopo la denuncia, visita durante la quale non menziona nemmeno il fatto di essere stata stuprata.
6) Stando alle sue stesse dichiarazioni, la donna continua ad avere rapporti consensuali con Parlanti nei giorni successivi al presunto stupro.
7) Nei due anni successivi, fino all'arresto di Parlanti, Rebecca White scrive email in continuazione, nelle quali confessa agli amici il suo amore per Parlanti e la sua disperazione per essere stata lasciata, chiedendo consigli su come sedurlo di nuovo.
In breve, si può riassumere quanto sopra dicendo che non esiste nessuna prova, di nessun genere, a sostegno delle accuse di Rebecca White, e che anzi il suo comportamento posteriore alla presunta violenza consente d’escluderla.
Durante il processo, l’accusatrice cade in continue contraddizioni ed incoerenze, fra cui spiccano le seguenti:
1) La donna sostiene di essere stata costretta a denunciare Parlanti dal padre, che le avrebbe altrimenti negato il sostegno economico. Ma quest'ultimo, interpellato dal procuratore, ha sempre negato, costringendo così la White a correggersi dicendo di avere in realtà parlato con sua madre.
2) Afferma di avere conversato molte volte al telefono con la fidanzata italiana di Parlanti, che tuttavia non parla una parola di inglese.
3) Nega o non ricorda di avere scritto alcune email già agli atti del tribunale, finché non le vengono mostrate.
4) La White dà prova d’evidenti segni di comportamento disturbato nelle sessioni di tribunale. In verità, ella, che quando aveva conosciuto Parlati era uscita da un divorzio, aveva in passato già accusato il precedente marito di violenza domestica e tentato omicidio durante la causa di divorzio: il giudice però aveva ritenuto tali accuse infondate.
La condanna
Come si vede, non solo non esistono prove a sostegno delle gravissime accuse di Rebecca White, ma anzi si può dire provato che non è avvenuta violenza alcuna. Il comportamento dell’accusatrice stessa, che ha continuato per anni a proclamarsi innamorata di Parlanti, e la totale mancanza di tracce di sangue anche minime nell’appartamento, attestano l’opposto. L’incoerenza e l’instabilità psichica evidenti della White dovrebbero toglierle ogni credibilità,
Eppure, l’accusa riesce ad ottenere una condanna per Carlo Parlanti, facendo leva sull’emotività ed i pregiudizi della giuria popolare. La presunta vittima è teatralmente sostenuta da una psicologa fornita dal tribunale quando si celebra di fronte ai giurati, mentre all'italiano, incatenato sino al momento dell’ apparizione in corte, non permettono nemmeno di scambiare una parola con la madre venuta per l’occasione e con la fidanzata italiana.
L’arringa dell’accusa (leggibile sul sito www.carloparlanti.it ) rivolta alla giuria popolare, esordisce ammettendo che non saranno mostrate le prove che sarebbe lecito attendersi (!!!), ed costruita sullo stereotipo del “maschio latino violento”. L’accusa giunge a dichiarare alla giuria che l’imputato aveva precedenti per violenza in Italia, il che non è assolutamente vero: errore od infame calunnia?
La sentenza, che verrà emessa il 7 aprile 2006, prevede una pena variabile tra i 9 e i 12 anni e mezzo di carcere, nonostante le evidenti incongruenze.
OGGI
Attualmente Carlo Parlanti è detenuto nel carcere di Avenal, in California, in condizioni assai dure. I genitori del tecnico italiano e la sua fidanzata Katia Anedda continuano a lottare per avere giustizia, nonostante il dissesto economico e i forti debiti contratti per l'assistenza legale e le trasferte. Mentre la sua accusatrice ha diritto ad un assegno mensile quale presunta "vittima di un crimine", le difficoltà sembrano invece susseguirsi senza fine per la famiglia di Carlo e per i suoi cari.
Per la palese ingiustizia della sentenza, la storia di Carlo Parlanti ha sollevato e continua a sollevare l'interesse e la solidarietà di numerosi sostenitori, raccolti attorno alla figura e all'impegno di Katia Anedda, promotrice di un comitato di sostegno e di un sito dedicato al prigioniero, (www.carloparlanti.it ). Gli atti del processo sono reperibili sul sito www.thepeoplevscarloparlanti.it .Il deputato di AN Marco Zacchera è forse l’unico parlamentare italiano ad aver cercato d’ottenere una revisione d’un ingiusto processo, viziato da rozzi pregiudizi anti-maschili ed anti-italiani.
Del caso si sta occupando anche l'organizzazione non governativa Fair Trials Abroad, che ha dedicato alla vicenda Parlanti un approfondimento nel mese di marzo sul proprio sito internet: www.fairtrialsabroad.org
Da parte mia, posso solo ribadire che nel caso Parlanti non esistono prove della colpevolezza del nostro compatriota, unicamente la parola della sua ex fidanzata contro la sua: in siffatta maniera, chiunque potrebbe essere accusato e condannato per violenza carnale.E’ vergognoso che le autorità politiche italiane abbandonino i propri connazionali all’estero, tranne quando siano politicamente spendibili, come la terrorista Silvia Baraldini, rea confessa di gravissimi crimini, fra i quali il tentato omicidio d’un poliziotto durante una rapina.Considerando che gli Italiani detenuti in paesi stranieri sono circa 3000, sorge la domanda di quale sia la percentuale di coloro che risultano effettivamente colpevoli, dato che uno straniero, di solito, ha meno possibilità di far valere i propri diritti dinanzi ad un tribunale ovvero può non padroneggiare a sufficienza la lingua e la cultura locali, e, se italiano, deve scontare anche i pregiudizi di chi scorge nel Bel Paese solo la terra delle varie mafie. Se a questo s’aggiunge l’indifferenza da parte delle autorità diplomatiche e politiche in genere, il sospetto che un buon numero di sventurati italiani sia incarcerato ingiustamente.
mercoledì 8 ottobre 2008
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