Luchy, non essere "incazzato, lo so che vuoi aiutare come puoi gente della "nostra risma", ma più di tanto non possiamo dire.
Ambra: " il cucciolo" è qui a casa mia. Nuovi e importanti ordini. Entrambi siamo stati destinati al " Commando Solo" Partiamo subito dopo mezzanotte. Un bacio a Maria e un abbraccio a DuePassi. Un augurio di felice 2009, sicuramente ci leggeremo: non so quando....
mercoledì 31 dicembre 2008
sabato 27 dicembre 2008
Presenti
Sia io che Pasquino siamo in Italia. Pasquino, anzi il Tenente Pasquino fa la spola tra il Libano e l'Italia. Io, invece, m'imbarco a metà Gennaio su una nave diretta in Somalia. Combattere la pirateria, diventa molto importante. Al Qaeda si sta finanziando in quel modo. Mio compito, come sempre, è operare dietro le linee. Però, ora, voglio godermi un periodo di serenità. Insomma sto ricaricando le pile.
venerdì 26 dicembre 2008
Grazie Ambra. In Memoria di Dago
Calma, severa, tacita, compatta,
ferma in arcione, gravemente incede
la prima squadra, e dietro al Re s'accampa
in chiuse file. Pendono alle selle,
lungo le staffe nitide, le canne
delle temute carabine. Al lume
delle stelle lampeggian le sguainate
sciabole. Brillan di sanguigne tinte
i purpurei pennacchi, erti ed immoti
come bosco di pioppo irrigidito.
Del Re custodi e della legge, schiavi
sol del dover, usi obbedir tacendo
e tacendo morir, terror de' rei,
modesti ignoti eroi, vittime oscure
e grandi, anime salde in salde membra,
mostran nei volti austeri, nei securi
occhi, nei larghi lacerati petti,
fiera, indomata la virtù latina.
Risonate, tamburi; salutate,
aste e vessilli. Onore, onore ai prodi
Carabinieri!
ferma in arcione, gravemente incede
la prima squadra, e dietro al Re s'accampa
in chiuse file. Pendono alle selle,
lungo le staffe nitide, le canne
delle temute carabine. Al lume
delle stelle lampeggian le sguainate
sciabole. Brillan di sanguigne tinte
i purpurei pennacchi, erti ed immoti
come bosco di pioppo irrigidito.
Del Re custodi e della legge, schiavi
sol del dover, usi obbedir tacendo
e tacendo morir, terror de' rei,
modesti ignoti eroi, vittime oscure
e grandi, anime salde in salde membra,
mostran nei volti austeri, nei securi
occhi, nei larghi lacerati petti,
fiera, indomata la virtù latina.
Risonate, tamburi; salutate,
aste e vessilli. Onore, onore ai prodi
Carabinieri!
giovedì 25 dicembre 2008
Sonata al chiaro di luna
In ricordo di Dagoberto, la musica da lui suonata per augurare a tutti i nostri Soldati, suoi commilitoni,un buon Natale e un migliore Anno Nuovo. Ambra
mercoledì 24 dicembre 2008
DIFENDIAMOCI DALL'ISLAM (click)
Sul FOGLIO di oggi, 24/12/2008, a pag.III dell'inserto, Giulio Meotti recensisce il libro di memorie di Tawfiq Hamid, il terrorista pentito che fu allievo di Zawahiri. Un documento istruttivo, una lettura allarmante.
Sono nato al Cairo da una famiglia atea, mio padre faceva il medico ortopedico, mia madre era un’insegnante di francese molto laica”. Tawfik Hamid, come il suo mentore Ayman al Zawahiri, braccio destro e ideologo di Osama bin Laden, proviene dalla borghesia colta e assimilata del Cairo. Finirà per militare nell’organizzazione responsabile di uno dei più sanguinosi attentati della storia egiziana. Cinquantotto turisti – svizzeri, giapponesi, inglesi e tedeschi – trucidati nel 1997 al tempio di Hatshepsut. Assassinati a pugnalate, falciati dai mitra nelle sale dei templi tebani, inseguiti tra le colonne di geroglifici e le tombe dei faraoni. Queste immagini scorrono mentre si è in ascolto della voce metallica di Tawfik Hamid. E’ ciò che avrebbe potuto diventare se non si fosse fermato. Per questo la sua confessione, che ha consegnato al libro “Inside Jihad” è salutata dal Wall Street Journal come uno dei principali contraccolpi mediatici all’islamismo. “La mia non era una famiglia religiosa”, racconta Hamid in questa intervista al Foglio da Washington, dove oggi vive. “All’età di quindici anni mi sono avvicinato all’islam. Nessuno mi aveva parlato di Dio prima di allora. La Jamaa Islamiya, un gruppo musulmano attivo nella mia scuola medica, si avvicinò sfruttando il mio desiderio di servire Dio. Ci mettevano in guardia sulle punizioni dopo la morte se non avessimo seguito letteralmente l’islam”. Un giorno un uomo con gli occhiali spessi venne a tenere un discorso. “La retorica di Zawahiri ispirava la guerra contro gli ‘infedeli’, i nemici di Allah. Lo chiamavamo con il titolo e il primo nome, Dottor Ayman. Mi metteva la mano sulla spalla: ‘Voi giovani siete la speranza del ritorno del califfato’. Provai un senso di gratitudine e di onore. Iniziai a farmi crescere la barba, smisi di ridere e scherzare. Adottai una postura seria, il mio odio per i non musulmani crebbe rapidamente e la dottrina jihadi divenne la mia seconda natura. Arrivai alpunto di pianificare crimini, volevo partire per l’Afghanistan. Ero pronto a uccidere e a morire per Allah. A far saltare in aria chiese e moschee al Cairo. Sapevo di un piano di rapimento di un ufficiale della polizia per dargli fuoco da vivo. La brutalità non mi scalfiva. Divenni a mio agio con l’idea della morte, credevo che avrei sconfitto gli infedeli sulla terra e conquistato il paradiso”. In questi anni abbiamo visto una massa informe di arabi che hanno lasciato affari, famiglia e affetti per farsi saltare in Iraq. Dalle biografie degli shahid trovati in un villaggio iracheno a Sinjar, si vede come la maggior parte dei kamikaze erano ex militari, poliziotti, insegnanti, commercianti, vigili del fuoco, impiegati e medici. “Conosco molto bene ciò che spinge un tunisino, un egiziano o un algerino a entrare in Iraq per farsi esplodere. Sono persone ingannate da insegnamenti violenti, se fossero nati in una cultura che parla di tolleranza e di amore sarebbero diventati pacifici. E’ in corso una guerra ideologica. E’ l’insegnamento islamista che infiltra la mente del musulmano. Un membro della Jamaa mi spiegò il concetto nell’islam di ‘al fikr kufr’. L’idea stessa del pensiero, fikr, ti renderebbe un infedele, kufr. I terroristi non fanno che personalizzare l’insegnamento mainstream dell’islam. Che dice: nella giurisprudenza islamica c’è scritto di uccidere e muovere guerra ai non musulmani, se non si convertono, devono pagare una umiliante tassa per le minoranze. Da un concetto violento si passa alla barbarie. Quando insegni a qualcuno a percuotere la moglie, a uccidere gli apostati e che le nazioni islamiche devono fare la guerra ai non musulmani, non puoi sorprenderti per quanto sta accadendo. Nel mondo islamico le donne sono lapidate a morte e sottoposte a clitoridectomia. Gli omosessuali penzolano dalle forche sotto gli occhi compiacenti dei promotori della shariah. Le madri palestinesi inculcano nei loro figli di tre anni l’ideale del martirio. Io avvertii l’immoralità dell’uccisione di innocenti e che una ideologia religiosa che fomenta la guerra agli infedeli va sconfitta. Ci troviamo di fronte alla mancanza di un’interpretazione dell’islam teologicamente rigorosa, tale da sfidare gli abusi interpretativi della shariah”. Hamid si rivolge all’occidente: “Svegliatevi, prima che sia troppo tardi. L’islamismo è come un cancro, cresce lentamente e la gente non lo vede prima che sia troppo tardi. Io temo una guerra civile nel futuro dell’Europa. Non sono sorpreso dall’attentato a Mumbai, continuerà fintanto che il mondo libero non prenderà coscienza. Se fosse la povertà a causare Bin Laden o Zawahiri, perché gli attentatori dell’11 settembre provenivano dall’Arabia Saudita, la nazione islamica più ricca al mondo? Se fosse una mancanza di educazione, perché gli attentatori dell’11 settembre erano così colti? I musulmani che hanno colpito l’Inghilterra sono cresciuti in democrazia. Se tutto fosse legato a Israele, perché i musulmani si sarebbero dovuti sbranare in Algeria? Hanno ucciso 150 mila algerini. E migliaia di iracheni. Hanno mutilato i corpi dei musulmani e dato loro fuoco”. Ciò che manca all’occidente è l’expertise culturale per vincere la guerra ideologica. “E’ una nuova interpretazione dell’islam che può salvare il mondo dalla catastrofe. Dobbiamo parlare di ideologia, formazione, istruzione, di come il Corano possa essere interpretato in modo diverso, di come l’istruzione possa giocare un ruolo fondamentale nell’educazione dei ragazzini. Bisogna insegnare l’amore e contrastare le tattiche di lavaggio del cervello”. Poi un bilancio sull’amministrazione Bush. “La strategia dopo l’11 settembre era giusta, l’idea di liberare e riformare il medio oriente. Ma era imperfetta e in un certo senso non strategica. Si deve sconfiggere l’islam radicale collaborando con i governi arabi, educando la popolazione giovanile agli ideali di libertà, modernità e diritti umani. Poi si deve implementare la democrazia. Se si inizia con l’urna, è facilissimo fallire. Come è successo con Hamas e l’Algeria. Se devi scegliere fra la casa reale saudita e i talebani, è con la prima che si deve stare. Se devi scegliere fra Mubarak e i Fratelli musulmani, è con il primo che si deve stare”. Poi i suggerimenti al nuovo presidente. “Obama non ha scelta. Non basta l’attacco militare, pur necessario. Serve un approccio totale, militare, d’intelligence, psicologico, educativo, ideologico. E’ così che l’islam radicale va sconfitto. Se il mondo libero prende coscienza, c’è da essere ottimisti. L’islamismo è indebolito, ma il sentimento violento nella umma è aumentato. Se il cancro diventa piccolo, non significa che non è più pericoloso. Il mondo civilizzato deve essere unito e coraggioso se vuole proteggere i giovani musulmani e il resto dell’umanità dalle conseguenze di questa ideologia”. Hamid è stato invitato a parlare in Israele assieme allo storico Bernard Lewis. “Molti musulmani parlano degli ebrei come ‘scimmie e maiali’. Li considerano traditori del Profeta. In alcuni insegnamenti della letteratura islamica dei primi giorni, più che nel Corano, sta scritto di uccidere gli ebrei fino alla fine dei giorni. E’ un dovere religioso. Usano però Israele per distogliere l’attenzione dalle atrocità commesse nel mondo islamico. E se domani il conflitto israelo-palestinese venisse risolto, questa gente troverebbe altre ragioni per uccidere. Zawahiri lo ha detto chiaramente: convertitevi all’islam o morirete”.
Sono nato al Cairo da una famiglia atea, mio padre faceva il medico ortopedico, mia madre era un’insegnante di francese molto laica”. Tawfik Hamid, come il suo mentore Ayman al Zawahiri, braccio destro e ideologo di Osama bin Laden, proviene dalla borghesia colta e assimilata del Cairo. Finirà per militare nell’organizzazione responsabile di uno dei più sanguinosi attentati della storia egiziana. Cinquantotto turisti – svizzeri, giapponesi, inglesi e tedeschi – trucidati nel 1997 al tempio di Hatshepsut. Assassinati a pugnalate, falciati dai mitra nelle sale dei templi tebani, inseguiti tra le colonne di geroglifici e le tombe dei faraoni. Queste immagini scorrono mentre si è in ascolto della voce metallica di Tawfik Hamid. E’ ciò che avrebbe potuto diventare se non si fosse fermato. Per questo la sua confessione, che ha consegnato al libro “Inside Jihad” è salutata dal Wall Street Journal come uno dei principali contraccolpi mediatici all’islamismo. “La mia non era una famiglia religiosa”, racconta Hamid in questa intervista al Foglio da Washington, dove oggi vive. “All’età di quindici anni mi sono avvicinato all’islam. Nessuno mi aveva parlato di Dio prima di allora. La Jamaa Islamiya, un gruppo musulmano attivo nella mia scuola medica, si avvicinò sfruttando il mio desiderio di servire Dio. Ci mettevano in guardia sulle punizioni dopo la morte se non avessimo seguito letteralmente l’islam”. Un giorno un uomo con gli occhiali spessi venne a tenere un discorso. “La retorica di Zawahiri ispirava la guerra contro gli ‘infedeli’, i nemici di Allah. Lo chiamavamo con il titolo e il primo nome, Dottor Ayman. Mi metteva la mano sulla spalla: ‘Voi giovani siete la speranza del ritorno del califfato’. Provai un senso di gratitudine e di onore. Iniziai a farmi crescere la barba, smisi di ridere e scherzare. Adottai una postura seria, il mio odio per i non musulmani crebbe rapidamente e la dottrina jihadi divenne la mia seconda natura. Arrivai alpunto di pianificare crimini, volevo partire per l’Afghanistan. Ero pronto a uccidere e a morire per Allah. A far saltare in aria chiese e moschee al Cairo. Sapevo di un piano di rapimento di un ufficiale della polizia per dargli fuoco da vivo. La brutalità non mi scalfiva. Divenni a mio agio con l’idea della morte, credevo che avrei sconfitto gli infedeli sulla terra e conquistato il paradiso”. In questi anni abbiamo visto una massa informe di arabi che hanno lasciato affari, famiglia e affetti per farsi saltare in Iraq. Dalle biografie degli shahid trovati in un villaggio iracheno a Sinjar, si vede come la maggior parte dei kamikaze erano ex militari, poliziotti, insegnanti, commercianti, vigili del fuoco, impiegati e medici. “Conosco molto bene ciò che spinge un tunisino, un egiziano o un algerino a entrare in Iraq per farsi esplodere. Sono persone ingannate da insegnamenti violenti, se fossero nati in una cultura che parla di tolleranza e di amore sarebbero diventati pacifici. E’ in corso una guerra ideologica. E’ l’insegnamento islamista che infiltra la mente del musulmano. Un membro della Jamaa mi spiegò il concetto nell’islam di ‘al fikr kufr’. L’idea stessa del pensiero, fikr, ti renderebbe un infedele, kufr. I terroristi non fanno che personalizzare l’insegnamento mainstream dell’islam. Che dice: nella giurisprudenza islamica c’è scritto di uccidere e muovere guerra ai non musulmani, se non si convertono, devono pagare una umiliante tassa per le minoranze. Da un concetto violento si passa alla barbarie. Quando insegni a qualcuno a percuotere la moglie, a uccidere gli apostati e che le nazioni islamiche devono fare la guerra ai non musulmani, non puoi sorprenderti per quanto sta accadendo. Nel mondo islamico le donne sono lapidate a morte e sottoposte a clitoridectomia. Gli omosessuali penzolano dalle forche sotto gli occhi compiacenti dei promotori della shariah. Le madri palestinesi inculcano nei loro figli di tre anni l’ideale del martirio. Io avvertii l’immoralità dell’uccisione di innocenti e che una ideologia religiosa che fomenta la guerra agli infedeli va sconfitta. Ci troviamo di fronte alla mancanza di un’interpretazione dell’islam teologicamente rigorosa, tale da sfidare gli abusi interpretativi della shariah”. Hamid si rivolge all’occidente: “Svegliatevi, prima che sia troppo tardi. L’islamismo è come un cancro, cresce lentamente e la gente non lo vede prima che sia troppo tardi. Io temo una guerra civile nel futuro dell’Europa. Non sono sorpreso dall’attentato a Mumbai, continuerà fintanto che il mondo libero non prenderà coscienza. Se fosse la povertà a causare Bin Laden o Zawahiri, perché gli attentatori dell’11 settembre provenivano dall’Arabia Saudita, la nazione islamica più ricca al mondo? Se fosse una mancanza di educazione, perché gli attentatori dell’11 settembre erano così colti? I musulmani che hanno colpito l’Inghilterra sono cresciuti in democrazia. Se tutto fosse legato a Israele, perché i musulmani si sarebbero dovuti sbranare in Algeria? Hanno ucciso 150 mila algerini. E migliaia di iracheni. Hanno mutilato i corpi dei musulmani e dato loro fuoco”. Ciò che manca all’occidente è l’expertise culturale per vincere la guerra ideologica. “E’ una nuova interpretazione dell’islam che può salvare il mondo dalla catastrofe. Dobbiamo parlare di ideologia, formazione, istruzione, di come il Corano possa essere interpretato in modo diverso, di come l’istruzione possa giocare un ruolo fondamentale nell’educazione dei ragazzini. Bisogna insegnare l’amore e contrastare le tattiche di lavaggio del cervello”. Poi un bilancio sull’amministrazione Bush. “La strategia dopo l’11 settembre era giusta, l’idea di liberare e riformare il medio oriente. Ma era imperfetta e in un certo senso non strategica. Si deve sconfiggere l’islam radicale collaborando con i governi arabi, educando la popolazione giovanile agli ideali di libertà, modernità e diritti umani. Poi si deve implementare la democrazia. Se si inizia con l’urna, è facilissimo fallire. Come è successo con Hamas e l’Algeria. Se devi scegliere fra la casa reale saudita e i talebani, è con la prima che si deve stare. Se devi scegliere fra Mubarak e i Fratelli musulmani, è con il primo che si deve stare”. Poi i suggerimenti al nuovo presidente. “Obama non ha scelta. Non basta l’attacco militare, pur necessario. Serve un approccio totale, militare, d’intelligence, psicologico, educativo, ideologico. E’ così che l’islam radicale va sconfitto. Se il mondo libero prende coscienza, c’è da essere ottimisti. L’islamismo è indebolito, ma il sentimento violento nella umma è aumentato. Se il cancro diventa piccolo, non significa che non è più pericoloso. Il mondo civilizzato deve essere unito e coraggioso se vuole proteggere i giovani musulmani e il resto dell’umanità dalle conseguenze di questa ideologia”. Hamid è stato invitato a parlare in Israele assieme allo storico Bernard Lewis. “Molti musulmani parlano degli ebrei come ‘scimmie e maiali’. Li considerano traditori del Profeta. In alcuni insegnamenti della letteratura islamica dei primi giorni, più che nel Corano, sta scritto di uccidere gli ebrei fino alla fine dei giorni. E’ un dovere religioso. Usano però Israele per distogliere l’attenzione dalle atrocità commesse nel mondo islamico. E se domani il conflitto israelo-palestinese venisse risolto, questa gente troverebbe altre ragioni per uccidere. Zawahiri lo ha detto chiaramente: convertitevi all’islam o morirete”.
martedì 23 dicembre 2008
IL SIGNIFICATO TEOLOGICO DEL NATALE
Mi prendo la libertà di fornire un brevissimo e del tutto inadeguato commento sul significato teologico del Natale nella teologia cristiana della Patristica, in pratica il cristianesimo antico, e sulle sue eredità posteriori. Quanto segue è appena l'enunciazione di un tema amplissimo.
La categoria di “pensiero misterico” è stata formulata dal teologo e studioso della liturgia Odo Casel, monaco benedettino morto poco dopo il secondo conflitto mondiale ed attivo soprattutto nella prima metà del Novecento. Il Casel ha mostrato come la teologia cristiana antica fosse costruita sulla base di principi diversi da quelli del pensiero scolastico, affermatosi nella teologia cattolica a partire dal secolo XIII ed ancora egemone agli inizi del Novecento, definendo tale modello teologico antico quale “pensiero misterico”, per il suo essere costruito attorno al culto cioè al mysterion o mysterium. All’interno di tale forma di riflessione teologica si rintraccia anche una specifica nozione del tempo, caratterizzata da tre elementi distintivi: questa dimensione temporale era ritenuta intervenire per il fedele durante la celebrazione del culto e tramite il medesimo; essa consisteva in una compartecipazione dell’interezza della storia di salvezza, dalle origini sino alla fine; inoltre, consentiva al cristiano una seppur imperfetta comunione con l’eternità divina.
Innumerevoli autori cristiani antichi e medievali hanno impiegato categorie misteriche nelle loro riflessioni teologiche e nei loro scritti spirituali, sostenendo che il cristiano, durante la liturgia ed attraverso la stessa, è direttamente compartecipe alle vicende commemorate ritualmente.
Ciò significa che il cristiano, mentre assiste alla partecipazione eucaristica, si trova presente agli atti ed alle parole salvifiche compiute da Cristo, le quali non sono affatto passate. E’ per questo che un termine molto comune presso teologi e “mistici” della Patristica per indicare tale dimensione spirituale e temporale è “oggi” (con il latino “hodie” ed il greco “semeron”).
In riferimento specifico al Natale, tale realtà spirituale trova espressione frequente nel concetto teologico della teogenesi interiore od adventus Christi, il quale è stato oggetto d’un classico studio ad opera di Hugo Rahner, col suo dettagliato articolo Die Gottesgeburt. Die Lehre der Kirchenväter von der Geburt Christi im Herzen des Gläubigen. Secondo quanto scrive questo studioso, il “concetto fondamentale di questa dottrina ascetica della grazia è dunque la discesa del Logos nel corpo della Vergine e la continuata ripetizione della nascita nel suo Corpo mistico.” Infatti, questo adventus consiste nella “santificazione dell’uomo ad opera della grazia che porta il cuore fino a Cristo: la speciale inabitazione di Cristo, compiuta attraverso la grazia, nel cuore dei credenti, che dal battesimo sono stati uniti nella Chiesa come in un solo corpo, è una misteriosa riproduzione e continuazione della nascita eterna del Logos dal Padre e della nascita temporale della Vergine.” Tutto ciò equivale a dire che Cristo “viene” nell’anima del fedele così come era venuto in passato con l’Incarnazione. E’ in questo senso che i monaci medievali scrivevano: “Hodie puer natus est nobis”
La categoria di “pensiero misterico” è stata formulata dal teologo e studioso della liturgia Odo Casel, monaco benedettino morto poco dopo il secondo conflitto mondiale ed attivo soprattutto nella prima metà del Novecento. Il Casel ha mostrato come la teologia cristiana antica fosse costruita sulla base di principi diversi da quelli del pensiero scolastico, affermatosi nella teologia cattolica a partire dal secolo XIII ed ancora egemone agli inizi del Novecento, definendo tale modello teologico antico quale “pensiero misterico”, per il suo essere costruito attorno al culto cioè al mysterion o mysterium. All’interno di tale forma di riflessione teologica si rintraccia anche una specifica nozione del tempo, caratterizzata da tre elementi distintivi: questa dimensione temporale era ritenuta intervenire per il fedele durante la celebrazione del culto e tramite il medesimo; essa consisteva in una compartecipazione dell’interezza della storia di salvezza, dalle origini sino alla fine; inoltre, consentiva al cristiano una seppur imperfetta comunione con l’eternità divina.
Innumerevoli autori cristiani antichi e medievali hanno impiegato categorie misteriche nelle loro riflessioni teologiche e nei loro scritti spirituali, sostenendo che il cristiano, durante la liturgia ed attraverso la stessa, è direttamente compartecipe alle vicende commemorate ritualmente.
Ciò significa che il cristiano, mentre assiste alla partecipazione eucaristica, si trova presente agli atti ed alle parole salvifiche compiute da Cristo, le quali non sono affatto passate. E’ per questo che un termine molto comune presso teologi e “mistici” della Patristica per indicare tale dimensione spirituale e temporale è “oggi” (con il latino “hodie” ed il greco “semeron”).
In riferimento specifico al Natale, tale realtà spirituale trova espressione frequente nel concetto teologico della teogenesi interiore od adventus Christi, il quale è stato oggetto d’un classico studio ad opera di Hugo Rahner, col suo dettagliato articolo Die Gottesgeburt. Die Lehre der Kirchenväter von der Geburt Christi im Herzen des Gläubigen. Secondo quanto scrive questo studioso, il “concetto fondamentale di questa dottrina ascetica della grazia è dunque la discesa del Logos nel corpo della Vergine e la continuata ripetizione della nascita nel suo Corpo mistico.” Infatti, questo adventus consiste nella “santificazione dell’uomo ad opera della grazia che porta il cuore fino a Cristo: la speciale inabitazione di Cristo, compiuta attraverso la grazia, nel cuore dei credenti, che dal battesimo sono stati uniti nella Chiesa come in un solo corpo, è una misteriosa riproduzione e continuazione della nascita eterna del Logos dal Padre e della nascita temporale della Vergine.” Tutto ciò equivale a dire che Cristo “viene” nell’anima del fedele così come era venuto in passato con l’Incarnazione. E’ in questo senso che i monaci medievali scrivevano: “Hodie puer natus est nobis”
sabato 20 dicembre 2008
AUGURI
giovedì 18 dicembre 2008
HANNAH ARENDT SULL'EUTANASIA

La “morte pietosa” di Eluana
Martedì 02 Dicembre 2008 12:21
Prima di Auschwitz Hitler pensò all’eutanasia e al “modo umanitario” con cui porre fine alla vita delle “persone incurabili”.
Una pagina profetica della grande filosofa e scrittrice Hannah Arendt.
L’idea di sterminare tutti gli ebrei, e non soltanto quelli russi o polacchi, aveva radici molti lontane. Era nata non nell’Rsha o in qualcuno degli altri uffici di Heydrich o di Himmler, ma nella Cancelleria del Führer, cioè nell’ufficio personale di Hitler. Non aveva nulla a che vedere con la guerra e non fu mai giustificata con le necessità militari. Uno dei grandi meriti del libro The final solution di Gerald Reitlinger è quello di aver dimostrato, in base a documenti che non lasciano dubbi, che il programma di sterminare col gas gli ebrei dell’Europa orientale fu uno “sviluppo” del programma dell’eutanasia di Hitler. (…)
Le prime camere a gas furono costruite nel 1939, in ottemperanza al decreto di Hitler, del 1° settembre di quell’anno, secondo cui alle «persone incurabili» doveva essere «concessa una morte pietosa». (Fu probabilmente questa origine a infondere nel dott. Servatius la sorprendente convinzione che lo sterminio coi gas dovesse essere considerato una «questione medica»). L’idea in sé, come abbiamo detto, risaliva a molto tempo prima. Già nel 1935 Hitler aveva spiegato al suo “Capo medico del Reich” Gerhard Wagner che, se fosse venuta la guerra, avrebbe «ripreso e condotto in porto questa faccenda dell’eutanasia, poiché in tempo di guerra è molto più facile». Il decreto entrò immediatamente in vigore per ciò che riguarda i malati di mente, e così tra il dicembre del 1939 e l’agosto del 1941 circa cinquantamila tedeschi furono uccisi con monossido di carbonio in istituti dove le camere della morte erano camuffate in stanze per la doccia – esattamente come lo sarebbero state più tardi ad Auschwitz.
Il programma suscitò enorme scalpore. Era impossibile tener segreta l’uccisione di tanta gente; la popolazione tedesca delle zone in cui sorgevano quegli istituti se ne accorse e ci fu un’ondata di proteste, da parte di persone di ogni ceto che ancora non si erano fatte un’idea “oggettiva” della natura della scienza medica e dei compiti del medico. Nell’Europa orientale lo sterminio coi gas – o, per usare il linguaggio dei nazisti, il «modo umanitario» di «concedere una morte pietosa» – iniziò quasi il giorno stesso in cui in Germania fu sospesa l’uccisione dei malati di mente. Gli uomini che avevano lavorato per il programma di eutanasia furono ora inviati a oriente, a costruire gli impianti per distruggere popoli interi – e questi uomini erano scelti o dalla Cancelleria del Führer o dal ministero della sanità del Reich, e solamente ora furono messi, amministrativamente, sotto il controllo di Himmler.
Gli istituti di carità del Führer
Nessuna delle varie Sprachregelungen (regolamenti della lingua, ndr) studiate in seguito per ingannare e camuffare ebbe sulle menti degli esecutori l’effetto potente di quel decreto hitleriano, contemporaneo allo scoppio della guerra, dove la parola «assassinio» era sostituita dalla perifrasi «concedere una morte pietosa». Eichmann, quando il giudice istruttore gli chiese se l’istruzione di evitare «inutili brutalità» non fosse un po’ ridicola visto che gli interessati erano comunque destinati a morte certa, non capì la domanda, tanto radicata nella sua mente era l’idea che peccato mortale non fosse uccidere, ma causare inutili sofferenze. E durante il processo ebbe scatti di sdegno sincero per le crudeltà e le atrocità commesse dalle Ss e raccontate dai testimoni, anche se la Corte e il pubblico quasi non se ne accorsero perché, fuorviati dal suo sforzo costante di non perdere l’autocontrollo, si erano convinti che egli fosse un uomo incapace di commozione e indifferente.
A scuoterlo veramente non fu l’accusa di aver mandato a morire milioni di persone, ma soltanto l’accusa – mossagli da un testimone e non accolta dalla Corte – di avere un giorno picchiato a morte un ragazzo ebreo. Certo, egli aveva mandato gente anche nell’area dove operavano gli Einsatzgruppen (i reparti speciali tedeschi, ndr), i quali non concedevano “una morte pietosa” ma fucilavano, tuttavia doveva poi aver provato un senso di sollievo quando ciò non fu più necessario data la sempre crescente “capacità di assorbimento” delle camere a gas. Doveva anche aver pensato che il nuovo metodo rappresentava un decisivo miglioramento nell’atteggiamento del governo nazista verso gli ebrei poiché il beneficio dell’eutanasia, a regola, era riservato soltanto ai veri tedeschi. Col passare del tempo, mentre la guerra infuriava e dappertutto era morte e violenza (sul fronte russo, nei deserti africani, in Italia, sulle coste francesi, tra le rovine delle città tedesche), i centri di sterminio di Auschwitz e di Chelmno, di Majdanek e di Belzek, di Treblinka e di Sobibor, dovevano davvero essergli apparsi altrettanti «istituti di carità», come li chiamavano gli esperti di eutanasia.
ANCORA INTORNO AL CASO ENGLARO (click)

Torino, ragazza si sveglia da stato vegetativo Eluana, la Cassazione contro l'atto di Sacconi
di Redazione
Torino - La notizia sembra incredibile ma è accaduta davvero. Una persona che dopo un grave incidente sembrava non avere più speranze ha riacquistato un livello minimo di coscienza. Senza voler fare strumentalizzazioni questo episodio per certi versi clamoroso ripropone ancora una volta al centro dell'attenzione il "caso Eluana". Una giovane di 20 anni, residente a Gassino, in provincia di Torino, si è "risvegliata" dallo stato vegetativo permanente in cui si trovava a causa delle ferite riportate in un incidente stradale avvenuto due anni fa. A renderlo noto è il neurochirurgo dell’ospedale delle Molinette di Torino, Sergio Canavero, che nel luglio 2007 ha effettuato sulla ragazza un intervento di "stimolazione corticale extradurale bifocale". Secondo quanto riferito dai medici, la ragazza dopo l’intervento ha migliorato costantemente le sue condizioni. Oggi obbedisce agli ordini semplici e si nutre. Sempre secondo i medici, si sono anche ricostruiti i circuiti di coscienza.
Terapia efficace "Per la giovane si poteva parlare di stato vegetativo permanente sulla base della terminologia internazionale, in quanto la sua condizione perdurava da oltre 12 mesi - precisa Canavero -. Oltre tutto possiamo dire con certezza che i benefici sperimentati dalla ragazza dopo l’intervento sono dovuti alla stimolazione corticale: a maggio, infatti, la batteria dell’apparecchio si era esaurita e la paziente iniziava a peggiorare. Una volta sostituita la batteria, abbiamo registrato un nuovo recupero, entro un mese dall’operazione. Ora la giovane è in uno stato di minima coscienza.
Gravemente disabile "È gravemente disabile, ma abbiamo distrutto il muro dell’irreversibilità. E possiamo pensare ad altri interventi, ad esempio al trapianto di staminali, per ulteriori progressi". Ma in cosa consiste l’operazione? "Lo stimolatore è composto da due piastrine di pochi centimetri di lunghezza per un cm di larghezza, inserite con quattro fori nell’osso dei lobi frontale e parietale, attraverso la neuronavigazione". Dopodiché le piastrine sono state collegate con un tunnel sottocutaneo a un pacemaker sottoclavicolare.
Un'ora e mezzo di operazione "L’operazione è durata un’ora e mezza, in anestesia totale. Cinque giorni dopo - racconta - abbiamo attivato lo stimolatore, e da allora abbiamo osservato l’evoluzione della paziente, protagonista di quello che è il primo caso del genere al mondo" Canavero, che è specializzato nell’elettrostimolazione per Parkinson e Alzheimer, è moderatamente ottimista. "Ora la giovane è in uno stato minimamente conscio, a tratti risponde agli ordini semplici, il padre riesce a tenerla in piedi, lei ha acquistato peso e anche i fisioterapisti dicono di aver notato che a volte li segue negli esercizi. Inoltre mangia senza sondino ma aiutata con un cucchiaio. Certo, si tratta di una paziente gravemente disabile, ma abbiamo rotto il muro dell’irreversibilità".
mercoledì 17 dicembre 2008
PRIMO ATTO DEL GOVERNO SUL CASO ENGLARO (click)

» 2008-12-17 13:44
Atto di Sacconi alle Regioni (testo integrale)
Ai Presidenti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano
OGGETTO: Stati vegetativi, nutrizione e idratazione. Il presente atto è rivolto a richiamare principi di carattere generale, al fine di garantire uniformità di trattamenti di base su tutto il territorio nazionale e di rendere omogenee le pratiche in campo sanitario con riferimento a profili essenziali come la nutrizione e l’alimentazione nei confronti delle persone in Stato Vegetativo Persistente (SVP). Il Comitato nazionale per la bioetica, che si è espresso con parere approvato nella seduta plenaria del 30 settembre 2005, ha fatto presente che ''per giustificare bioeticamente il fondamento e i limiti del diritto alla cura e all’accudimento nei confronti delle persone in Stato Vegetativo Persistente va quindi ricordato che ciò che va loro garantito è il sostentamento ordinario di base: la nutrizione e l’idratazione, sia che siano fornite per vie naturali che per vie non naturali o artificiali''. Infatti, la nutrizione e l’idratazione ''vanno considerati atti dovuti eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) in quanto indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere''.
Secondo il predetto parere ''la sospensione di tali pratiche va valutata non come la doverosa interruzione di un accanimento terapeutico, ma piuttosto come una forma, dal punto di vista umano e simbolico particolarmente crudele, di “abbandono” del malato (…) Non sussistono invece dubbi sulla doverosità etica della sospensione della nutrizione nell’ipotesi in cui nell’imminenza della morte l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite: l’unico limite obiettivamente riconoscibile al dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell’organismo (dunque la possibilità che l’atto raggiunga il fine proprio non essendovi risposta positiva al trattamento) o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’alimentazione. (…) Si deve pertanto parlare di valenza umana della cura (care) dei pazienti in SVP''.
Secondo il documento del 17 novembre 2008 del Gruppo di lavoro “Stato vegetativo e stato di minima coscienza” istituito presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali ''lo stato vegetativo realizza una condizione di grave disabilità neurologica, potenzialmente reversibile''. Sempre sulla base del citato parere del Comitato nazionale per la bioetica per questi malati ''il problema bioetico centrale è costituito dalla stato di dipendenza dagli altri: si tratta di persone che per sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano (acqua, cibo, riscaldamento, pulizia e movimento), ma che non sono in grado di provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute ed accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari. (…)
Se è vero che alcuni malati terminali possono diventare malati in SVP, è pur vero che le persone in SVP non sono sempre malati terminali (potendo sopravvivere per anni se opportunamente assistite)''.La negazione della nutrizione e dell’alimentazione può configurarsi quindi come una discriminazione fondata su valutazioni circa la qualità della vita di una persona con grave disabilità e in situazione di totale dipendenza.Si fa rinvio, in ogni modo, al testo integrale del citato parere per un orientamento rispetto al necessario esercizio della responsabilità secondo scienza e coscienza della funzione medica.
Tra i compiti del Comitato nazionale per la bioetica, infatti, si evidenzia la funzione di formulare pareri e indicare soluzioni, anche ai fini della predisposizione di atti legislativi, per affrontare problemi di natura etica e giuridica che possono emergere con il progredire delle ricerche e con la comparsa di nuove possibili applicazioni di interesse clinico avuto riguardo alla salvaguardia dei diritti fondamentali e della dignità dell’uomo e degli altri valori così come sono espressi dalla Carta costituzionale e dagli strumenti internazioni ai quali l’Italia aderisce. La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 ed in corso di ratifica a seguito dell’approvazione del relativo disegno di legge da parte del Consiglio dei Ministri in data 28 novembre 2008, all’articolo 25 stabilisce che ''gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità''.
In particolare, gli Stati Parti, devono, tra gli altri, ''prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità''. Di conseguenza, le disposizioni di cui all’articolo 25 della Convezione sui diritti delle persone con disabilità si applicano anche agli stati vegetativi. Si ritiene, pertanto, nel rispetto dei principi e criteri ispiratori della Convenzione, che sia fatto divieto di discriminare la persona in stato vegetativo rispetto alla persona non in stato vegetativo. Ciò premesso, si invitano codeste Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano ad adottare le misure necessarie affinché le strutture sanitarie pubbliche e private si uniformino ai principi sopra esposti e a quanto previsto dall’articolo 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità.
Roma, 16 dicembre 2008
Maurizio Sacconi
martedì 16 dicembre 2008
lunedì 15 dicembre 2008
E' NATALE ANCHE PER LORO - SIAMO CON VOI (click)

Il contingente italiano nella base di Herat
Afghanistan, Natale al fronte
Sveglia alle ore più impensate, un briefing, una veloce colazione e poi subito al lavoro. Comincia così la giornata in prima linea dei militari italiani a Herat, nella regione ovest dell'Afghanistan.
I nostri soldati "abitano" principalmente nella Forward support base (Fsb) vicino all'aeroporto. Ma ce ne sono altri dislocati anche nei comandi distaccati nelle altre province della regione. Ognuno continua a essere concentrato nei suoi compiti, nonostante la lontananza dalle famiglie che si fa sentire soprattutto in questo periodo con il natale alle porte. Quel giorno a camp Arena - sede del Regional command West (Rc-W) di Isaf, dove è di stanza il contingente italiano (su base brigata alpini Julia) e il cui comando è affidato al generale Paolo Serra, ci sarà la funzione religiosa, celebrata da don Giuseppe Ganciu, chiamato da tutti "don Peppino", e poi un cenone.
Il lavoro, comunque non si fermerà, ma proseguirà con i soliti ritmi. Nulla cambierà, a parte un menù ad hoc e le linee telefoniche intasate a causa degli auguri. Dai cuochi della mensa alle unità di manovra, agli operatori delle forze speciali; tutti rimarranno concentrati sui loro compiti, convinti che quello a Herat sarà un Natale speciale, in quanto la missione aiuterà la popolazione locale. Ad accompagnarli e sostenerli, oltre a vari alberi e decorazioni natalizie, ci sarà anche numerosi presepi (i cui progetti dovranno essere approvati preventivamente da don Peppin), tra cui uno fatto di cartone. Le statuine, invece, sono di carta fotografica plastificata. Dalla Natività ai pastori, alle pecore, ai cammelli. Non manca nulla.
"Festeggeremo il Natale con una grigliata, ma se ci sarà da lavorare lo faremo senza alcun problema e con lo spirito di sempre", hanno raccontato al TEMPO Renato e Mauro, membri della Task Force 45, l'unità di forze speciali italiana su base 9° reggimento "Col Moschin" e di cui fanno parte elementi di tutte le forze armate, dislocata in Afghanistan. Il primo è un operatore del Gruppo operativo incursori (Goi) del Comsubin della Marina. Il secondo, invece, appartiene al 17 esimo stormo incursori. Si tratta della neonata (2003) unità di forze speciali dell'Aeronautica. "Siamo persone normali, nonostante ciò che si possa pensare - hanno proseguito Renato e Mauro -. Abbiamo famiglie con mogli e figli, con gli annessi e connessi che ne derivano. Per dialogare con loro usiamo ciò che abbiamo a disposizione. Io, per esempio chatto con mia moglie quando ho del tempo (molto poco, ndr.) a disposizione. Anche perché, grazie alla webcam ci sentiamo meno lontani potendo vederci reciprocamente. Sono molto orgogliosi di noi - spiegano i due incursori -, anche se capiamo perfettamente che è dura per loro. Noi, allo stesso tempo, siamo molto orgogliosi di loro e li ringraziamo. Tra noi ci sono legami indissolubili, tanto che quando rientriamo a casa si verificano momenti molto intensi".
In Italia, comunque, le famiglie degli operatori impegnati all'estero possono contare su un'organizzazione che assiste loro e sul sostegno di amici e colleghi rimasti "a casa". "Senza il supporto dei nostri cari non potremmo svolgere il nostro lavoro", hanno aggiunto Renato e Mauro. Soprattutto perché gli incursori sono lontani da casa per molto tempo. Per fare un esempio, nel 2006 erano impegnati contemporaneamente in tre teatri operativi principali: l'Iraq, l'Afghanistan e il Libano. Peraltro, anche se le storie sono molto diverse, i nostri incursori riescono a essere vicini l'un l'altro sia in patria sia in Area di operazione. "Io sono nato in un luogo di mare, mi sono arruolato in Marina e poi ho scelto di entrare nell'elite del corpo, il Goi del Comsubin", ha detto Renato. "Io, invece, provengo dal reparto paracadutisti dell'Aeronautica militare e sono entrato nel 17 esimo stormo incursori perché ambivo a far parte della componente operativa della forza armata 'land oriented'". Il risultato, comunque, per entrambi è lo stesso. "Svolgo un lavoro che mi piace fare e che comprende molti dei miei hobbies".
Tutti sono determinati a portare a termine la missione, nonostante i sacrifici cui sono sottoposti. Lo capisci da quando parli con loro. Nominando, infatti, le parole "Natale e famiglia", a parte un istante di non celata malinconia, tutti rispondono col sorriso e con sguardi fieri. Lo conferma anche il contrammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, comandante del Comsubin, che in questi giorni si trova a Herat in visita ai suoi "ragazzi". "Li ho trovati sereni, motivati e pronti", sono state le sue parole. Anche per i militari "convenzionali" è lo stesso. Negli ultimi giorni è aumentato il traffico di sms da e verso l'Italia e a "Piazza Italia" è facile imbattersi in discorsi sui regali per i parenti a casa, acquistati rigorosamente al mercato della domenica, o sui menù che verranno serviti nelle case del nostro Paese il 25 dicembre. Ciò vale anche per gli altri contingenti presenti a camp Arena: quello spagnolo, quello lituano, quello albanese e quello sloveno, quello croato e quello ungherese.
"Passeremo il Natale lavorando - ha spiegato al TEMPO il capitano Antonio Bernardo, portavoce del nostro contingente a Herat -. Ma non per questo la festa sarà meno sentita. Sarà un'occasione per stare tutti quanti insieme, ricordando però che siamo qui con uno scopo ben preciso: aiutare la popolazione afghana". Per quanto riguarda gli alberi, all'esterno non ce ne saranno per motivi di sicurezza. Infatti, le luci renderebbero la struttura troppo visibile. All'interno delle strutture abitative e degli uffici, invece, è tutta un'altra storia. C'è chi lo ha adornato con stelle argentate di carta stagnola e chi ha optato per uno stile minimalista, mentre a mensa e al comando ce sono due tradizionali.
venerdì 12 dicembre 2008
ANCORA SPORT - CALCIO MINORE (?)

I GLADIATORI DELLE DUE SICILIE
La Nazionale di Calcio delle Due Sicilie scende in campo. La prima squadra di calcio (a 11 elementi) che porta sul petto il gloriosi emblemi del sud è pronta. I Gladiatori del giglio e della trinacria, dopo mesi di allenamento nel più assoluto riserbo, non intendono attendere oltre e vogliono lanciare la sfida alla naturale avversaria italica: la Nazionale Padana. Oggi, infatti, è stato gettato il guanto della sfida alla sede della squadra di calcio del nord. E' stato proposto un doppio incontro: andata a Gaeta la domenica pomeriggio a chiusura del convegno tradizionalista; ritorno a Pontida il 5 aprile (in prossimità della ricorrenza dello storico giuramento del 1167).
Non volendo, però, che il tutto si risolvesse in una sterile contesa calcistica abbiamo anche proposto che il ricavato delle partite fosse devoluto per una struttura sanitaria cattolica di uno dei paesi sottosviluppati.
Attendiamo una risposta dalla Direzione della Padania Calcio.
Forza Nazionale delle Due Sicilie.
Francesco Laricchia
mercoledì 10 dicembre 2008
UNA NOTIZIA DI SPORT- L'AMERICA'S CUP (click)

L'AMERICA CUP avra' ancora una "Luna Rossa"
GENOVA. Il team velico italiano Luna Rossa, guidato da Patrizio Bertelli, ha presentato richiesta di iscrizione per la 33ma Coppa America di vela, contrariamente alle intenzioni manifestate dallo stesso Bertelli alla conclusione della scorsa edizione quando aveva
dichiarato che la sua squadra non avrebbe più partecipato alla competizione più importante del sailing internazionale.
Sulla notizia manca ancora l’annuncio ufficiale ma fonti vicine all’organizzazione dell’evento la danno già per certa. Intanto, il team statunitense Bmw Oracle ha fatto sapere che non si iscriverà, in attesa della conclusione della vicenda legale che lo vede opposto ad Alinghi che è il Defender del trofeo.
Il termine per presentare richiesta di iscrizione è stato fissato al 15 dicembre, mentre il 12 c’è un incontro ufficiale tra il team svizzero e i partecipanti, per fissare insieme
alcuni aspetti regolamentari.
La “nuova” Luna Rossa vedrà una squadra rivoluzionata rispetto alla precedente, senza lo skipper Francesco De Angelis al timone.
Intanto però l’America’s Cup non riesce proprio a trovare pace.
L’ultimo episodio di una disputa infinita (fuori e dentro i tribunali) è il comunicato con il quale Alinghi commenta la decisione di Bmw Oracle di non iscriversi.
«L’annuncio di Bmw Oracle non ci sorprende affatto, perchè loro non hanno mai dimostrato un reale interesse all’evento come fatto dagli altri 14 team.
La loro ultima lettera dimostra un’arroganza oltre ogni limite e la mancanza di rispetto per tutti i team che stanno partecipando all’organizzazione della 33a America’s Cup».
Fonte Quotidino IL ROMA di oggi
domenica 7 dicembre 2008
DOBBIAMO ESSERE FIERI DEI NOSTRI SOLDATI (click).
Un ponte italiano nel cuore di un'area talebana
Pubblicato da Lorenzo Bianchi Sab, 06/12/2008 - 18:34
Dal 5 al 7 agosto, per tre interminabili giorni i talebani tentarono inutilmente di spazzare via i novanta fucilieri della Brigata aeromobile Friuli asserragliati nella “base remota” di Bala Murghab, 250 chilometri a nord di Herat.
Il caporalmaggiore Pasquale Campopiano, 27 anni, di Caserta, descrive la battaglia con poche, scarne, parole: “Ci tiravano razzi rpg da tutte le parti. Non dimenticherò mai le fiammate delle esplosioni all’interno del fortino, dal quale la mia compagnia, la terza del 66° reggimento “Trieste”, rispondeva al fuoco”. Fu la brigata aeromobile Friuli a creare nell’ex cotonificio, il 4 agosto, la “Fob”, acronimo inglese per base avanzata. Fino a quel momento Bala Murghab era saldamente in mano integralista. Nella stessa località il primo dicembre il generale Paolo Serra, comandante della brigata alpina “Julia” e il ministro afgano per le opere pubbliche Alì Safari hanno inaugurato un ponte lungo 45 metri sul fiume Murghab. Solo tre giorni prima, il 28 novembre, trecento miliziani avevano attaccato un convoglio del 207° corpo d’armata dell’Ana, l’esercito nazionale afgano. Per risolvere la situazione erano intervenuti alcuni F 16 (a Kandahar sono schierati velivoli, statunitensi e olandesi), che avevano distrutto i mezzi finiti nelle mani degli “insorgenti”. I morti delle forze armate di Kabul erano stati tredici. I soldati afgani feriti furono soccorsi dagli italiani e ricoverati all’ospedale militare di Herat.Tre giorni dopo il taglio del nastro. Safari ha ringraziato: “Il manufatto porterà grandi benefici alla popolazione”. Il ponte è un pezzo importante della Ring Road, la grande strada che dovrebbe collegare tutte le città più popolate del Paese fieramente osteggiata dai talebani. Non a caso all’inaugurazione hanno partecipato anche il generale statunitense David McKiernan, comandante di Isaf, il contingente della Nato in Afganistan, e il capo di stato maggiore di Kabul Bismullah Khan.
Come è stato possibile il miracolo italiano? Il portavoce del contingente, il capitano Antonio Bernardo, rivela una realtà semplice solo in apparenza: “Sono state le autorità politiche e gli elders, gli anziani, locali a chiedere il ponte. I materiali sono stati portati a Bala Murghab da afgani”. L’ufficiale descrive tre fasi: “A metà ottobre i genieri del II reggimento della Julia, inquadrati nel comando regionale di Kabul, hanno raccolto i materali e li hanno sistemati nei container. Il secondo passo è stato la consegna a contractor locali che li hanno trasportati a Bala Murghab con un viaggio di seicento chilometri. Nel terzo stadio i genieri del Comando Regionale Ovest, quello a guida italiana, lo hanno montato”. I pezzi sono stati collocati su due piloni di calcestruzzo armato. “Prima – spiega Berardo – potevano passare solo veicoli leggeri. Ora il ponte è collaudato per mezzi che pesano fino a sessanta tonnellate, ossia grossi camion. Così è possibile non attraversare il sud. Sono circa 250 chilometri in meno”.
E si corrono meno rischi. La Ring Road nel suo braccio meridionale passa per Kandahar, che fu ed è tornata ad essere una roccaforte talebana. Il ponte è presidiato? Berardo spiega la politica della “faccia afgana” adottata dal corpo di spedizione tricolore: “Ci sono pattuglie dell’Ana, l’esercito afgano, che controllano la zona supportate da forze della coalizione (ndr. italiani, spagnoli e americani). Nel fortino di A Bala Murghab sono schierati, su base del battaglione Tolmezzo, gli alpini dell’Ottavo reggimento comandato dal tenente colonnello Paolo Radizza”. Il confine con il Turkmenistan è vicinissimo. E anche il flusso della droga diretto verso l’Asia centrale. La presenza di forze della coalizione è un pugno nell’occhio. La task force “Grifo” della guardia di finanza italiana sta addestrando la polizia di frontiera afgana che dovrà sorvegliare la linea di demarcazione.
Pubblicato da Lorenzo Bianchi Sab, 06/12/2008 - 18:34
Dal 5 al 7 agosto, per tre interminabili giorni i talebani tentarono inutilmente di spazzare via i novanta fucilieri della Brigata aeromobile Friuli asserragliati nella “base remota” di Bala Murghab, 250 chilometri a nord di Herat.
Il caporalmaggiore Pasquale Campopiano, 27 anni, di Caserta, descrive la battaglia con poche, scarne, parole: “Ci tiravano razzi rpg da tutte le parti. Non dimenticherò mai le fiammate delle esplosioni all’interno del fortino, dal quale la mia compagnia, la terza del 66° reggimento “Trieste”, rispondeva al fuoco”. Fu la brigata aeromobile Friuli a creare nell’ex cotonificio, il 4 agosto, la “Fob”, acronimo inglese per base avanzata. Fino a quel momento Bala Murghab era saldamente in mano integralista. Nella stessa località il primo dicembre il generale Paolo Serra, comandante della brigata alpina “Julia” e il ministro afgano per le opere pubbliche Alì Safari hanno inaugurato un ponte lungo 45 metri sul fiume Murghab. Solo tre giorni prima, il 28 novembre, trecento miliziani avevano attaccato un convoglio del 207° corpo d’armata dell’Ana, l’esercito nazionale afgano. Per risolvere la situazione erano intervenuti alcuni F 16 (a Kandahar sono schierati velivoli, statunitensi e olandesi), che avevano distrutto i mezzi finiti nelle mani degli “insorgenti”. I morti delle forze armate di Kabul erano stati tredici. I soldati afgani feriti furono soccorsi dagli italiani e ricoverati all’ospedale militare di Herat.Tre giorni dopo il taglio del nastro. Safari ha ringraziato: “Il manufatto porterà grandi benefici alla popolazione”. Il ponte è un pezzo importante della Ring Road, la grande strada che dovrebbe collegare tutte le città più popolate del Paese fieramente osteggiata dai talebani. Non a caso all’inaugurazione hanno partecipato anche il generale statunitense David McKiernan, comandante di Isaf, il contingente della Nato in Afganistan, e il capo di stato maggiore di Kabul Bismullah Khan.
Come è stato possibile il miracolo italiano? Il portavoce del contingente, il capitano Antonio Bernardo, rivela una realtà semplice solo in apparenza: “Sono state le autorità politiche e gli elders, gli anziani, locali a chiedere il ponte. I materiali sono stati portati a Bala Murghab da afgani”. L’ufficiale descrive tre fasi: “A metà ottobre i genieri del II reggimento della Julia, inquadrati nel comando regionale di Kabul, hanno raccolto i materali e li hanno sistemati nei container. Il secondo passo è stato la consegna a contractor locali che li hanno trasportati a Bala Murghab con un viaggio di seicento chilometri. Nel terzo stadio i genieri del Comando Regionale Ovest, quello a guida italiana, lo hanno montato”. I pezzi sono stati collocati su due piloni di calcestruzzo armato. “Prima – spiega Berardo – potevano passare solo veicoli leggeri. Ora il ponte è collaudato per mezzi che pesano fino a sessanta tonnellate, ossia grossi camion. Così è possibile non attraversare il sud. Sono circa 250 chilometri in meno”.
E si corrono meno rischi. La Ring Road nel suo braccio meridionale passa per Kandahar, che fu ed è tornata ad essere una roccaforte talebana. Il ponte è presidiato? Berardo spiega la politica della “faccia afgana” adottata dal corpo di spedizione tricolore: “Ci sono pattuglie dell’Ana, l’esercito afgano, che controllano la zona supportate da forze della coalizione (ndr. italiani, spagnoli e americani). Nel fortino di A Bala Murghab sono schierati, su base del battaglione Tolmezzo, gli alpini dell’Ottavo reggimento comandato dal tenente colonnello Paolo Radizza”. Il confine con il Turkmenistan è vicinissimo. E anche il flusso della droga diretto verso l’Asia centrale. La presenza di forze della coalizione è un pugno nell’occhio. La task force “Grifo” della guardia di finanza italiana sta addestrando la polizia di frontiera afgana che dovrà sorvegliare la linea di demarcazione.
mercoledì 3 dicembre 2008
QUANTE MACERIE....
martedì 25 novembre 2008
IN ITALIA ACCADE ANCHE QUESTO
NASSIRYA? NO IL LUTTO È SOLO FEMMINISTA
di Filippo Facci
Si può dire in molti modi, uno è questo: il 12 novembre il comune di Ravenna non ha ricordato in alcun modo i morti di Nassirya e ha rifiutato, pur richiesto, di mettere la bandiera a mezz’asta; ma oggi, 25 novembre, il comune celebra la «Giornata internazionale contro la violenza alle donne» e metterà la bandiera a mezz’asta. Diciamolo meglio: il comune di Ravenna non ha previsto celebrazioni per i 19 militari italiani caduti in Irak il 12 novembre 2003, e non ha messo la bandiera a lutto; ma oggi ricorderà le tre sorelle Mirabal fatte assassinare dal dittatore dominicano Rafael Leonidas Trujillo il 25 novembre 1960, e perciò metterà la bandiera a lutto.
Ancora: il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci, a capo di una giunta composta da Ulivo, Rifondazione, Repubblicani e Comunisti Italiani, non ha neppure risposto all’interrogazione formulata dal consigliere comunale Gianluca Palazzetti e dal consigliere di circoscrizione Stefano Cortesi Siboni, entrambi di An: chiedevano se per la ricorrenza di Nassirya non «sarebbe stato opportuno porre a mezz’asta il tricolore che sventola dai balconi di Palazzo Merlato», anche perché «altri comuni della nostra provincia hanno provveduto». Risulta soltanto che il sindaco abbia informalmente risposto, chiacchierando, che «del resto Nassirya non l’abbiamo ricordata neanche l’anno scorso». Ultima sortita per dirlo: a Ravenna zero iniziative per Nassirya e niente bandiera a mezz’asta, ma per la citata Giornata contro la violenza alle donne il comune ha previsto un’esposizione, un ordine del giorno in consiglio comunale, alcune relazioni di studenti liceali, una mostra di pittura e soprattutto la campagna «Per molte donne la violenza è un pane quotidiano» realizzata in collaborazione con il sindacato Panificatori Ascom e Gapar spa. Più la bandiera a lutto.
Forza, venite fuori: provate a dirci che siamo antifemministi, ora, diteci che magari disprezziamo la Giornata contro la violenza sulle donne (che sia strabenedetta) e non che vogliamo solo evidenziare dove possa condurre il delirio del politicamente corretto, una dimensione dove si rimuovono i nostri soldati assassinati, una mancanza di amor patrio dove la bandiera a mezz’asta non viene issata appunto per dei patrioti, ma per recepire fastosamente una celebrazione fissata nel 1999 dalla santissima Onu, la neutrale Onu, celebrazione sconosciuta ai più. Diteci che è normale, diteci che siamo antifemministi anche se la rassegna stampa che abbiamo consultato, tra i giornali di Ravenna, evidenzia che l’unico articolo politicamente scorretto, sulla Voce di Romagna, l’ha scritto proprio una donna, Marianna Venturini: «Fan più paura gli schiaffi delle bombe». Forza, diteci che è giusto così, che non c’è da scaldarsi tanto, ditelo magari ai nostri ragazzi che sono sparsi per il mondo a realizzare progetti di disarmo, di sminamento, di assistenza umanitaria ai rifugiati. Ditelo a loro: e magari, come supremo sforzo, in collaborazione col sindacato panificatori del Ravennate, mandategli un panino al prosciutto.
di Filippo Facci
Si può dire in molti modi, uno è questo: il 12 novembre il comune di Ravenna non ha ricordato in alcun modo i morti di Nassirya e ha rifiutato, pur richiesto, di mettere la bandiera a mezz’asta; ma oggi, 25 novembre, il comune celebra la «Giornata internazionale contro la violenza alle donne» e metterà la bandiera a mezz’asta. Diciamolo meglio: il comune di Ravenna non ha previsto celebrazioni per i 19 militari italiani caduti in Irak il 12 novembre 2003, e non ha messo la bandiera a lutto; ma oggi ricorderà le tre sorelle Mirabal fatte assassinare dal dittatore dominicano Rafael Leonidas Trujillo il 25 novembre 1960, e perciò metterà la bandiera a lutto.
Ancora: il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci, a capo di una giunta composta da Ulivo, Rifondazione, Repubblicani e Comunisti Italiani, non ha neppure risposto all’interrogazione formulata dal consigliere comunale Gianluca Palazzetti e dal consigliere di circoscrizione Stefano Cortesi Siboni, entrambi di An: chiedevano se per la ricorrenza di Nassirya non «sarebbe stato opportuno porre a mezz’asta il tricolore che sventola dai balconi di Palazzo Merlato», anche perché «altri comuni della nostra provincia hanno provveduto». Risulta soltanto che il sindaco abbia informalmente risposto, chiacchierando, che «del resto Nassirya non l’abbiamo ricordata neanche l’anno scorso». Ultima sortita per dirlo: a Ravenna zero iniziative per Nassirya e niente bandiera a mezz’asta, ma per la citata Giornata contro la violenza alle donne il comune ha previsto un’esposizione, un ordine del giorno in consiglio comunale, alcune relazioni di studenti liceali, una mostra di pittura e soprattutto la campagna «Per molte donne la violenza è un pane quotidiano» realizzata in collaborazione con il sindacato Panificatori Ascom e Gapar spa. Più la bandiera a lutto.
Forza, venite fuori: provate a dirci che siamo antifemministi, ora, diteci che magari disprezziamo la Giornata contro la violenza sulle donne (che sia strabenedetta) e non che vogliamo solo evidenziare dove possa condurre il delirio del politicamente corretto, una dimensione dove si rimuovono i nostri soldati assassinati, una mancanza di amor patrio dove la bandiera a mezz’asta non viene issata appunto per dei patrioti, ma per recepire fastosamente una celebrazione fissata nel 1999 dalla santissima Onu, la neutrale Onu, celebrazione sconosciuta ai più. Diteci che è normale, diteci che siamo antifemministi anche se la rassegna stampa che abbiamo consultato, tra i giornali di Ravenna, evidenzia che l’unico articolo politicamente scorretto, sulla Voce di Romagna, l’ha scritto proprio una donna, Marianna Venturini: «Fan più paura gli schiaffi delle bombe». Forza, diteci che è giusto così, che non c’è da scaldarsi tanto, ditelo magari ai nostri ragazzi che sono sparsi per il mondo a realizzare progetti di disarmo, di sminamento, di assistenza umanitaria ai rifugiati. Ditelo a loro: e magari, come supremo sforzo, in collaborazione col sindacato panificatori del Ravennate, mandategli un panino al prosciutto.
lunedì 24 novembre 2008
UN PO' DI CRONACA : GLI ANNI DI PIOMBO E...

Giulio Andreotti e Valerio Morucci
Il faccia a faccia 30 anni dopo il sequestro e il delitto Moro.
Andreotti, stretta di mano
e dialogo con Morucci
Il presidente: «Era una guerra, sbagliata l'analisi». L'uomo che rapì Moro: «Troppo indulgente con noi»
ROMA — Alla fine si stringono la mano; il rapitore di Aldo Moro dice «Lietissimo» e Giulio Andreotti risponde con un conviviale «Ciao». La serata è terminata, Valerio Morucci se ne va mentre il nemico d'un tempo consuma le ultime chiacchiere con gli altri ospiti. I quali hanno assistito alla stretta di mano e — prima — a un dibattito inimmaginabile nel 1978, nell'Italia del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro, dell'attacco brigatista al «cuore dello Stato». Trent'anni dopo i due rappresentanti delle Br e dello Stato di allora s'incontrano per la prima volta nel salotto borghese di un professionista romano, che periodicamente organizza appuntamenti letterari per una ristretta cerchia di conoscenti.
Venerdì scorso l'occasione è data dall'ultimo libro di Luigi Manconi, sociologo ed ex sottosegretario alla Giustizia (trent'anni fa militante di Lotta continua), intitolato Terroristi italiani. Le Br e la guerra totale, 1970-2008. Presentatori d'eccezione (per l'eccezionalità del faccia a faccia) Andreotti e Morucci, che prima di Moro aveva pedinato proprio l'ex capo del governo, obiettivo alternativo del rapimento di un esponente democristiano. Ma Andreotti, come ha svelato lo stesso ex terrorista, si rivelò obiettivo troppo complicato, perché abitava in pieno centro e aveva l'auto blindata. Il dibattito comincia da qui: che effetto fa al senatore a vita incontrare un brigatista che sparò sulla scorta di Moro e sequestrò il presidente della Dc? Andreotti si rifugia in una delle sue battute: «E' una fortuna esserci arrivati», ma nessuno dei presenti ride. L'aria è tesa, tutti fissano il senatore e l'ex br seduto due poltrone più in là. «C'era l'idea — continua Andreotti tornando al '78 — che il giusto fosse tutto dalla propria parte, e che dall'altra fosse tutto sbagliato. Ma distinzioni così nette non aiutano a capire. Sul terrorismo, ad esempio, pensavamo a un fortissimo influsso straniero, che non era così rilevante. E' possibile che abbiamo sbagliato qualcosa, soprattutto nell'analisi globale».
Quando tocca a Morucci ci sono dei lunghi secondi di silenzio, finché dice: «Il discorso del presidente Andreotti mi pare molto indulgente verso le Brigate rosse. Forse troppo. Dubito che in quel momento lo Stato potesse reagire diversamente da come fece». L'ex terrorista tenta di spiegare il percorso che lo portò in via Mario Fani, dove partecipò alla strage dei cinque uomini di scorta e al «prelevamento» di Moro, ucciso dopo 55 giorni di prigionia: «L'ideologia comunista prevedeva l'uso della violenza per la presa del potere, e passo dopo passo arrivi a giustificare la morte del nemico. La Dc era lo Stato che noi identificavamo con l'imperialismo delle multinazionali, e con Moro in mano pensavamo di poter dare la scossa finale a quel sistema». Andreotti lo interrompe: «Ma prendere Moro è un controsenso, perché lui aveva idee diverse...», e Morucci: «Avremmo dovuto comprendere la complessità del sistema, mentre la visione ideologica porta a semplificare tutto». Le lettere di Moro prigioniero, che Morucci distribuiva durante il sequestro, portarono l'ex br a cambiare posizione e a schierarsi (senza successo) per la liberazione dell'ostaggio: «Ma io porto il peso della morte di Aldo Moro, al di là delle condanne che ho avuto». E Andreotti, che guidava il «fronte della fermezza» inutilmente contrastato dallo stesso Moro e dalla sua famiglia, sente anche lui una parte di quel peso? «No — risponde senza tradire emozioni — C'era una guerra, che altro potevamo fare? Qualcuno sosteneva che le lettere di Moro non fossero autentiche...». Manconi interviene: «Non qualcuno, senatore. Lei e il suo governo!». Andreotti taglia corto: «Sì, beh... C'era grande confusione. Fu un momento di grandissima sconfitta. Eravamo in guerra. C'erano i morti di via Fani, le loro vedove che minacciavano di bruciarsi in piazza se avessimo trattato con le Br».
Questo è un dettaglio che Andreotti racconta da trent'anni, e da trent'anni smentito dalle due vedove degli uomini della scorta, nonché da un'intercettazione telefonica di quei giorni, quando la moglie del maresciallo Leonardi chiamò la signora Moro per negare la stessa notizia riportata da quotidiano. Qualcuno lo ricorda il senatore, che però insiste: «Venne da me a dirlo, non credo fosse un'altra persona che si spacciava per lei». Alla visione andreottiana della «guerra», Luigi Manconi contrappone l'immagine di una «guerra civile simulata» dai terroristi, nonché «agevolata» da tanti fattori, tra cui le stragi impunite e i depistaggi degli apparati istituzionali. Andreotti risponde: «E' difficile fare chiarezza su personaggi ambigui... Il generale De Lorenzo (a capo del Sifar e dei carabinieri negli anni Sessanta, ndr) in punto di morte mi mandò il suo confessore a scusarsi per avermi dato qualche amarezza. Per fortuna oggi non mi sembra che ci sia un clima che possa far tornare a quei tempi». Morucci replica: «Non per merito della classe politica», e sostiene che la fine delle Br ha anticipato la fine del comunismo. Andreotti ascolta attento e chiede: «Avevate la sensazione di un grande influsso americano?». Morucci: «Certo, enorme». Perché, non era così senatore? «Insomma. Bisognerebbe distinguere periodo per periodo». Il dibattito finisce e gli ospiti si accomodano a mangiare qualcosa, chiacchierando fra loro più che con i due protagonisti della serata. Morucci regala ad Andreotti un suo libro, con tanto di dedica, il senatore ringrazia. Poi il commiato: «Lietissimo», «ciao».
Giovanni Bianconi
24 novembre 2008
venerdì 21 novembre 2008
Gentili Signore e Distinti Signori per vostra conosconoscenza (click)

TUTTI A GAETA!!!
LogoPartitodelSud
L'Amministrazione Comunale di Gaeta si riunirà, entro i prossimi 15 giorni, in un Consiglio dove il Comune deciderà il costituirsi in causa contro gli eredi savoia, per i danni patiti dalla Città durante l'assedio del 1861.
Per l'occasione, visto anche la presenza massiccia di giornalisti, sarebbe gradita, su invito dell'Assessore al Demanio di Gaeta Antonio Ciano, la presenza nella sala consiliare di quanti più militanti meridionalisti possibile. E' prevista la presenza di troupe televisive.
Relatore della proposta sarà Antonio Ciano, accompagnato dalle immagini relative all'assedio e alle fucilazioni messe a disposizione dal Cap. Alessandro Romano.
Sarà inoltre occasione di invito e auspicata presenza di tutti i Movimenti e Partiti meridionalisti, visto che la questione riguarda tutto il Meridione.
Per l'occasione saranno affissi in Città manifesti riportanti l'articolo della Stampa : "Pagate Savoia!" a firma di Pino Aprile.
I manifesti , stampati in notevole numero, saranno poi distribuiti agli intervenuti per l'affissione nei luoghi di provenienza.
Tutta Italia deve sapere!!
Inutile rimarcare come la questione "Pagate savoia!" sui quotidiani e settimanali nazionali e la recente presenza televisiva su "Striscia la notizia" abbia giovato alla nostra causa in termine di visibilità e di nuovi "contatti" con singoli e Movimenti.
Ora in tanti guardano a Gaeta con una fiducia e speranza che dobbiamo assolutamente ripagare..
Nei prossimi giorni comunicheremo la data precisa del Consiglio Comunale in questione.
Sono invitate tutte le Persone, i Partiti e i Movimenti che hanno a cuore la nostra Terra martoriata!
Portate le bandiere !!
Partito del Sud
Saluti
Ambro
giovedì 13 novembre 2008
HO RICEVUTO QUESTA CHICCA DA DUEPASSI
mercoledì 12 novembre 2008
IL SACRIFICIO DEGLI EROI DI NASSIRYA

Roma - Erano le 10 e quaranta del mattino (le 8.40 in Italia) quando un camion imbottito di esplosivo scoppiò davanti alla base italiana di Nassiriya (Iraq), facendo saltare in aria il deposito munizioni e causando la morte di diverse persone tra militari e civili. Cinque anni dopo il ricordo della strage è sempre vivo nel cuore degli italiani. Il sacrificio di quelle diciannove persone viene ricordato dalle forze politiche che si uniscono nel ricordo e ribadiscono l’impegno a non dimenticare quelle vite.
Cerimonia al Senato Palazzo Madama ha dedicato alla memoria dei 19 caduti la sala delle conferenze stampa, al piano terra. Alla cerimonia erano presenti i presidenti di Senato e Camera, Renato Schifani e Gianfranco Fini, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, i familiari dei militari morti cinque anni fa in Iraq, il comandante generale dei Carabinieri, Gianfrancesco Siazzu, e il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Fabrizio Castagnetti.
Schifani: "Eroi di pace" "Quei diciannove caduti, dei quali 17 erano uomini in armi e soldati di grande valore, non saranno mai celebrati come eroi di guerra per la semplice ragione che non combatterono alcuna guerra: qualunque altra lettura della loro presenza in Iraq sarebbe un torto alla loro memoria". Il presidente del Senato, Renato Schifani, invita a definirli come "eroi di pace" visto il carattere umanitario della missione Antica Babilonia che impegnò i nostri soldati in Iraq dal 2003 al 2006. La memoria di chi ha dato la vita per il nostro Paese non appartiene alle forze armate né alle istituzioni né ad una parte politica ma è patrimonio indissolubile dell’intera collettività - sottolinea Schifani - che per avvalorare il concetto degli uomini in divisa caduti in missione come eroi di pace, richiama le parole dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che quando fu raggiunto dalla notizia della strage, disse: 'L’Italia è andata in Iraq non per partecipare ad una guerra ma per contribuire alla ricostruzione del paese: questa è l’identità della Repubblica italiana, costruire la pace'. Il vile attacco ai danni dei nostri soldati - ricorda ancora il presidente del Senato - non venne, nonostante la simpatia e la riconoscenza nutrite verso di loro dalla popolazione irachena, ma proprio a causa di questi sentimenti".
Fini: "Stabilità e diritti calpestati" "Non possono esserci né stabilità né prosperità se i diritti umani sono calpestati e se la libertà è minacciata dal terrorismo. È con questa consapevolezza che dobbiamo oggi onorare il sacrificio di quei martiri, unendo nel ricordo tutti gli italiani che in questi anni hanno offerto la loro vita per garantire la pace". Il presidente della Camera Gianfranco Fini ricorda che "l’Italia sperimentò direttamente l’inumana ferocia che anima l’attacco terroristico alla pacifica convivenza di culture, nazioni e popoli. Quel giorno lo sgomento, lo smarrimento, la sofferenza del Paese furono enormi. Ma furono grandi anche la solidarietà, la partecipazione, la coesione tra il nostro popolo e le istituzioni. L’Italia si raccolse unita intorno a quei diciannove eroi che avevano sacrificato la loro vita per costruire un mondo più giusto e più libero".
La Russa: "Sacrificio non sarà dimenticato" "La richiesta delle famiglie dei caduti a Nassiriya ai parlamentari di tutti gli schieramenti è che la giornata di oggi sia ricordata in forma stabile nella memoria di tutti i caduti per la pace. Credo si tratti di una richiesta bella". Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, rilancia l’idea di trasformare la ricorrenza dell’attentato in Iraq in memoria di quanti sacrificano la propria vita nelle missioni di pace. La Russa ha ringraziato a nome dei familiari il Senato per la decisione di intitolare la sala dove si svolgono gli incontri con la stampa ai caduti di Nassiriya sottolineando che "quello che chiedono i familiari e di non dimenticare il sacrificio dei loro congiunti, il loro modo di servire la patria, che ha dato significato profondo alla loro vita proprio nel momento della loro morte".
Da Il Giornale
martedì 11 novembre 2008
domenica 9 novembre 2008
L'ITALIA E' FATTA ANCHE DI QUESTI UOMINI

domenica 09 novembre 2008, 07:23
Mai arrendersi. Anche se pensi che è finita
di Alex Zanardi
Vedi Amico, io sono fortunato e non «nonostante tutto», ma grazie a tutto ciò che mi è accaduto, cose belle e brutte, tutto compreso. Non lo dico in modo retorico o per mettere a suo agio chi mi legge, né per convincere me stesso. Lo dico perché è vero e credo chel a fortuna più grande sia aver maturato la capacità di rendersene conto in modo naturale.
Sono però obbiettivo con me stesso e so anche che se chiamarsi Alex Zanardi ha fatto la differenza per l’assistenza che mi sono potuto permettere nel periodo che ha seguito il mio incidente, c’è sempre un rovescio della medaglia e per me non è stato diverso.Proprio perché la vita mi ha dato tanto, tanto avevo da perdere. Un giorno sei sul gradino più alto del podio ad ascoltare la melodia del tuo Inno Nazionale con la Miss che ti ha appena premiato e che ti strizza l’occhiolino, ti senti ricco, acclamato e il giorno dopo ti svegli in un letto d’ospedale. Tubi, strani fili elettrici collegano il tuo corpo a macchine che gli impongono di continuare a vivere e quando cerchi il punto d’origine del dolore atroce che senti, vedi delle bende insanguinate che fasciano ciò che resta delle tue gambe.
Non voglio farne un dramma perché non l’ho mai percepito come tale. Però concedimi che nel mio caso la differenza non l’ha fatta il denaro. Ero comunque in una situazione di merda e parlare di punto di partenza agevolato quando precipiti tanto in basso, converrai con me, è un fatto molto relativo, per usare un eufemismo. Non sono per nulla un tipo «Decubertiano». Non mi basta partecipare e odio perdere. Però dall’inizio della mia carriera, da quando lo stereotipo del «Campione arrivato» era tutto ciò che ispirava il mio essere ed agire, ho cambiato completamente il mio punto di vista sul concetto del «sentirsi un vincente» grazie alle esperienze acquisite sul campo.
Ho maturato la certezza che per soddisfare tale concetto, non è strettamente necessario primeggiare sugli altri, ma farlo su se stessi. Come? Attraverso la consapevolezza di aver dato solo e tutto ciò che avevi da dare. Questo, poi, è ancor più vero quanto più grande è il nostro margine di miglioramento. In ogni fase parziale della strada che ci siamo scelti, esperienza e allenamento ci rilanciano verso obiettivi sempre più prestigiosi e anche se non ci è dato sapere dove si può arrivare, è proprio il giusto mix tra voglia di fare, fiducia nei propri mezzi e al tempo stesso timore di non avere nelle proprie carte il talento degli avversari più forti che ci offre la vera gioia di affrontare il percorso.
Muoversi. Metaforicamente parlando è questo quello che conta e non importa quanto indietro si parte, perché se continuiamo ad avanzare non è detto che non si possa giungere comunque più in là di chi, partendo più avanti, si è sentito in diritto di prendersela con comodo. Il migliorare è il risultato, averlo fatto significa che c’è ancora margine ed è così che non solo aumenta lo stimolo ad andare avanti, ma si acquisisce la consapevolezza che la ricetta giusta non ha nulla di magico, che si può fare e che è terribilmente divertente farlo dovendo dir grazie soltanto a se stessi.
Quando uno sportivo capisce questo non bara, non accampa scuse, non si dopa, perché smetterebbe di divertirsi. Se il percorso è lo Sport, il percorso è anche la vita e la vita stessa diventa sport se la vogliamo vivere davvero perché è l’ambizione di fare che rende l’uomo competitivo.
Credimi Amico, renderei volentieri tante delle cose che ho avuto da questa mia passione per ricominciare da capo, perché è stato il lavoro per riempire la mia stanza dei trofei il vero divertimento e non guardare quei premi mentre si riempiono di polvere. Anzi aver già fatto tante delle cose che sognavo di fare da bambino, toglie un po’ il gusto che provavo quando, un attimo prima di tagliare il traguardo, mi pareva impossibile poterci riuscire solo grazie al mio impegno. Mi capita di essere invitato a parlare ai ragazzi nelle scuole. Alle volte, nel tentativo di passar loro questo ragionamento, li invito a cercare dei sogni ma anche a mettersi al lavoro per realizzare il loro destino.
Quando poi confesso loro di provare un po’ di invidia per tutta la strada che hanno ancora davanti e per tutta l’incertezza che la caratterizza, mi guardano perplessi; probabilmente pensano: «Questo ci racconta che ci invidia un po’ perché siamo ancora al punto di partenza, perché dobbiamo ancora far tutto? Boh!».
Però Amico mio, qualcuno capisce... ci saranno sempre dei lupi a cui brillano gli occhi! Per far carriera e soprattutto per assaporare il vero piacere di praticare un’attività sportiva ho dovuto imparare a darmi un metodo e ad allineare i miei obiettivi in modo realistico, sognando grandi cose ma prendendo «per le corna» solo quei piccoli obiettivi alla portata del mio presente. E la stessa logica è stata efficace nella vita, anzi è stata la mia arma vincente nella difficoltà più grande che ho dovuto affrontare. Un momento della mia vita che poteva sembrare perfetto per soccombere non mi è mai parso tale. Sapevo che se altri erano riusciti ad uscirne un modo esisteva e andava semplicemente trovato.
Questa mia attitudine non ha nulla a che vedere col carattere o con tutte quelle qualità che la gente mi attribuisce, ma solo con quello che ho imparato nello sport, nella vita. Carpe Diem, cogli l’attimo. Solo che per chi è confuso cogliere l’attimo significa vivere alla giornata fregandosene del domani e allora molto difficilmente una difficoltà verrà presa come una sfida avvincente. Far spallucce alle difficoltà volendole accantonare significa spesso annegarle in un bicchiere che si vuota in fretta per dimenticare. Significa seguire il più ganzo in discoteca che si sballa di ecstasy perché pensiamo che quello sia il biglietto di ingresso per il branco di cui vogliamo rispettosamente far parte.
Porca vacca no! Se in ognuno di quegli attimi sarai abbastanza forte da girare le spalle alla tentazione di cedere, acquisterai la consapevolezza del valore di quel gesto. Chi se ne frega se non lo sa nessuno, lo sai tu. Là dove altri hanno mollato Tu vai avanti. E se l'hai fatto oggi puoi rifarlo domani. È così che ti assalirà l’entusiasmo di vivere e attenderai con ansia il giorno seguente per fare dell’altro, per fare solo e tutto quello che puoi. Carpe Diem è la gioia di sapere che quell’attimo non è andato sprecato. Che ti sei mosso, magari poco, perché il giorno della tua nascita all’anagrafe andò scritto solo «Mario Rossi» e sei partito più indietro di altri. Ma credimi, è tanto quel «poco».
Amico mio, perché è nella direzione in cui hai voluto spingere il tuo destino. Di cuore, in bocca al lupo!
venerdì 7 novembre 2008
LA CULTURA DI DESTRA IN ITALIA
Accade sovente in Italia d’udire esprimere giudizi alquanto critici sulla “cultura di destra” e sostenerne la sua sostanziale inesistenza o comunque inferiorità rispetto alla cosidetta “cultura di sinistra” d’impronta marxista-progressista.Questo vero e proprio pregiudizio ideologico ha trovato la sua massima espressione in un’affermazione di Norberto Bobbio, intellettuale di sinistra, sedicente liberale ma con simpatie di sinistra, il quale ha detto e scritto che non esiste una cultura di destra.E’ facile confutare simili asserzioni quali frutto d’ignoranza o malafede. La grande cultura internazionale del mondo contemporaneo non è di solito affatto socialista o marxista. Rimanendo all’Italia, nel solo Novecento i tre maggiori filosofi italiani, Croce, Gentile ed Evola, erano tutti e tre di destra, così come era di destra il maggior economista di sempre della nostra Patria, il liberale e monarchico Luigi Einaudi. I maggiori letterati italiani attivi nel secolo XIX, Pirandallo, Svevo, D’Annunzio, erano tutti simpatizzanti del fascismo, così come personaggi illustri operanti nei campi più diversi, da Marconi a Mascagni. Un elenco esaustivo degli autori illustri qualificabili in una delle molte anime della “destra”, sia essa liberale, conservatrice, nazionale, tradizionalista ecc., sarebbe davvero troppo lungo per questa sede, e non potrebbe neppure essere esaustivo. Basti dire che la ricchezza intellettuale dell’Italia dei secoli passati contrasta visibilmente con il livello mediamente basso della fase storica degli ultimi 60 anni, culturalmente dominata dal pensiero di sinistra. La ragione di tale paradosso è che alla “destra” non mancano né gli uomini, né le idee e gli ideali, bensì i mezzi e le possibilità per esprimere questi ultimi. In Italia il potere culturale viene ad essere da decenni egemonizzato dalla sinistra marxista, sia nelle università e nelle case editrici, sia in ambito giornalistico (Marcello Veneziani ha scritto un libro al riguardo, “L’eskimo in redazione”, spiegando come i giornalisti di sinistra abbiano ottenuto un notevole grado d’autonomia ed indipendenza dinanzi ai propri stessi editori, ridotti a consentergli di svolgere la propria propaganda), e persino in ambiti apparentemente meno importanti quali il cinema e la musica. Questa vera e propria occupazione dei posti di potere della cultura è probabilmente frutto di due cause principali. La prima consiste nell’attuazione da parte del PCI-PDS d’una precisa strategia, che era già stata delineata da Gramsci e che teorizzava esplicitamente l’instaurazione d’una “egemonia” (questo il termini specifico impiegato) da parte dei marxisti in campo culturale, al fine di poter inculcare all’intera società i propri principi. E’ così accaduto che i partiti di sinistra impiegassero denaro, uomini, strumenti di pressione d’ogni genere, per riuscire a far entrare propri rappresentanti e sostenitori nelle istituzioni culturali d’ogni ordine e grado, dalle università alle scuole materne, dalle case editrici a quelle discografiche. In ciò la loro opera è stata molto favorita dai sindacati della Triplice (CGIL-CISL-UIL), capaci di conquistarsi il consenso d’una ampia fascia degli insegnanti e dei docenti universitari.La seconda ragione risiede nel fatto che alla suddetta operazione, svolta sulla base di una vera e propria strategia, ben guidata dall’alto e finanziata adeguatamente, non ha corrisposto da parte delle destre alcuna replica adeguata: cattolici conservatori, liberali, missini si sono presentati divisi dinanzi all’unitarietà ideologica dell’avversario marxista. Inoltre, i cattolici democristiani, nonostante abbiano governato l’Italia per quasi 50 anni, non compresero realmente l’importanza della cultura nella propria attività politica, mentre i liberali ed i missini, troppo deboli i primi, decisamente emarginati i secondi, non poterono con le loro sole forze rispondere alla sistematica campagna d’occupazione e promozione culturale della sinistra marxista.Il risultato è che all’abbondanza di talenti e di idee della destra non ha corrisposto un’adeguata visibilità, mentre ad una fondamentale monotonia e povertà della sinistra ha fatto contrasto una diffusione amplissima delle proprie convinzioni. Per portare un esempio significativo, l’opera considerata il maggior romanzo italiano di tutto il Novecento, “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, autentico capolavoro impregnato di spirito conservatore, monarchico e cattolico, non trovò, mentre il suo autore era in vita, un solo editore disposto a pubblicarlo. Quando infine venne èdito, lo fu dalla Feltrinelli, la casa editrice di sinistra per eccellenza, che cercò di gabellarlo come un testo dal contenuto rivoluzionario.Accade così, ancora oggi, che determinate professioni, quali quelle di docente universitario o giornalista, siano ben più facili da percorrere per chi si professa di sinistra, che non per un apolitico, e siano sovente chiuse a chi dichiara opinioni di destra. Al loro interno esistono forti corporazioni di fede “progressista”, che tendono ad aggregare membri delle loro stesse idee ed ad escludere gli altri.Il problema posto da questa situazione non è unicamente di giustizia, essendo profondamente iniqua una tale discriminazione, ma anche e propriamente politico, poiché la sinistra italiana controlla un potere culturale e mediatico sproporzionato, utile a diffondere le concezioni della parte politica di riferimento.
martedì 4 novembre 2008
COSI' VOGLIO ONORARE QUESTO 4 NOVEMBRE 2008

sabato 12 gennaio 2008
Caro Pierluigi.
ho letto il resoconto della tua visita, del 2 gennaio 2008, a Redipuglia.
Quando ci sono andato io, il 12 ottobre scorso, era una bellissima giornata di sole, come per te. Non mi potei fermare all’andata, perché avevo un impegno di lavoro urgente a Trieste, e mi fermai al ritorno. Erano le 13,32. c’ero io ed un gruppo di 4 persone, due donne e due uomini, con la parlata tipica della bergamasca.
Nessun altro. Attribuii la scarsità di visitatori all’ora. La gente, i potenziali visitatori probabilmente erano già con i piedi sotto la tavola.
Così sono salito lungo i 22 gradoni, terrazzamenti, e con l’abitudine dell’uomo di cantiere i miei occhi andavano, oltre che ai nomi dei caduti, anche alla struttura del Sacrario stesso e ovviamente, seguendo il principio che la lingua batte dove il dente duole, notavo immediatamente i guasti che il tempo e l’incuria hanno prodotto. Così si notano con crudele evidenza i lavoro di rappezzo fatti con i piedi, gradini delle scale laterali che basculano, altri sostituiti a quelli rotti e dove il marmista che li ha fatti non si è assolutamente preoccupato di scolpirli con le zigrinature uguali agli originali, lastre laterali scheggiate e riparate usando come stucco banalissimo cemento a presa rapida che spicca come una ferita, pavimentazione delle terrazze che risentono delle infiltrazioni nel terreno di base, che le ha fatte diventare irregolari, scarsissimo lavoro di pulizia, e tanti altri particolari.
Poi sono arrivato in cima, alla chiesetta sotto le tre croci, da cui si gode una vista splendida, ed ho notato l’autostrada, in lontananza, congestionata di traffico rispetto al deserto del Sacrario. Sono entrato nella chiesetta, forse l’unica struttura che risente di una cura e pulizia abbastanza seria, e da lì sono passato nei locali del museo posteriore dove ci sono tante testimonianze lasciate da tutti gli eroi che hanno combattuto e sofferto e che hanno dato la vita per la Patria. E in quel luogo il cuore già stretto prima è diventato minuscolo e gelato, perché è aberrante che la Patria, intesa come istituzioni pubbliche dell’Italia, lasci i suoi eroi in un tale stato di abbandono: pareti che avrebbero bisogno di una buona rinfrescata, pavimenti sporchi e che avrebbero necessità di una buona lavata, teche e bacheche che risentono degli insulti degli anni, umidità che sta divorando documenti che sono stati lasciati dai caduti perché parlassero, alle generazioni future, di cosa è capace di fare un uomo quando decide di difendere il proprio paese e la propria famiglia.
E non ho visto un tricolore italiano ed un militare di guardia che fosse uno, neppure a pagarlo.
Per contrasto mi sono venuti in mente i cimiteri di guerra americani, in Italia e nel mondo, quelli britannici, quelli francesi, anche quelli tedeschi, dove il rispetto per chi li giace è assoluto, dove almeno trovi un libro per lasciare la tua firma, un tuo pensiero, una dedica a chi cadde, allora, anche per garantirci quella libertà che oggi noi cittadini non abbiamo, non così come viene concepita in questo paese dove ora vivo, ma che hanno di fare, disfare e intrallazzare quei politici che oggi impazzano e fanno del paese ciò che vogliono, come fossero nel cortile di casa loro.
Io sono scappato dall’Italia nel giugno del 2006, quando decisi che non volevo vivere in una nazione che stava per essere governata da uno sciagurato come Prodi e dai comunisti, ed oggi avverto una nostalgia sempre crescente per tornare nella mia Patria. Poi vedo spettacoli di quel genere, sento il tuo resoconto di quei due ragazzi che neppure sapevano cose fosse Redipuglia e mi monta una rabbia sorda dentro, vorrei prendere i vari Napoletano, Prodi, le più alte cariche dello stato, come osano definirsi loro, e vorrei portarli qui e sottoporli alla tortura di Sisifo, farli salire obbligandoli ad imparare a memoria il nome di tutti quegli eroi sepolti, ed una volta arrivati in cima, riprecipitarli in basso, all’inizio, cancellando la loro memoria e poi obbligarli a riprendere la salita, finchè abbiano fiato e vita in corpo.
Questo vorrei fare a quei vigliacchi che campano e fanno i gaudenti sulle salme di chi ha dato la vita per costruire questa Patria italiana.
Redipuglia è inserita in una regione dove vive gente dura e volonterosa. Mi basta ricordare il terremoto nel Friuli, dove questa gente laboriosa, il minuto dopo la scossa, che rase al suolo le loro case, aveva già la vanga e il badile in mano per ricominciare a costruire, senza lamentarsi e ringraziando, con sincerità ed umiltà chi era venuto ad aiutarli, e io c’ero e mi sono fatto tantissimi amici.
Poi penso allo schifo dei vari sismi che hanno colpito il centro ed il meridione, dove questo nord laborioso ha profuso capitali immensi per aiutare la ricostruzione, ed ancora oggi c’è gente del Belice che pretende soldi per terminare fantomatiche ricostruzioni, quasi che in Belice ci fosse gente che vive in grotte o in tende aspettando che qualcuno regali loro una villa, eventualmente con piscina a forma di cozza. Dove sono finiti tutti i nostri soldi, i soldi che il nord ha profuso a piene mani e senza neppure averne un grazie??
E più penso a queste vicende, più penso che in Italia ci sia necessità di una nuova Grande Guerra, un 15/18, dove non si combatta più con fucili e cannoni, ma con le armi della giustizia e con i piedi, per prendere a calci in culo Prodi, e tutti i suoi accoliti, per mandarli in mezzo ad un campo, con zappa e vanga a dissodare terreni improduttivi, e farli mangiare e godere solo con il frutto del loro sudore.
Questo mi è venuto in mente quel giorno a Redipuglia, e vorrei suonare la nuova Diana a tutti gli italiani di buona volontà per chiamarli a raccolta e rifondare questo paese, che nonostante tutto è quello che amo e che desidero riavere sotto i piedi.
Albert
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venerdì 11 gennaio 2008
UN COMMENTO CHE HA DIRITTO ALLA PRIMA PAGINA
“ANDANDO A TRIESTE”
Queste lunghe vacanze Natalizie sono state, per chi come me non scia, un’occasione per visitare alcune città di questo nostro grande museo all’aperto che è l’Italia.Trieste è una città in cui vado sempre volentieri, un poco perché vi sono legato da vincoli familiari, un poco perché Trieste è ancora una città a misura d’uomo, nei suoi caffè si respira quella cultura mitteleuropea che questa disgraziata UE non riuscirà mai a darci, Trieste riesce ad essere internazionale restando se stessa, nelle sue strade, nelle sue piazze riesci a sentirti Italiano ed internazionale allo stesso tempo, cittadino del mondo e Triestino in un sol colpo, ma non è solo di questo che volevo parlare.In autostrada, poco prima di Trieste, vi è l’uscita di REDIPUGLIA, un’uscita che tutti gli italiani dovrebbero prendere quando si trovano da quelle parti. A REDIPUGLIA non vi sono particolari musei archeologici, pinacoteche alla “Brera”, gallerie monumentali; vi è un Sacrario, il nostro Sacrario, quello della nostra Patria, dei nostri sconosciuti eroi che sacrificandosi ci hanno permesso d’essere Italiani.Ambrogio Brambilla, Gennaro Esposito, Carlo Rossi, Giuseppe Bianchi, sono migliaia, alcuni con un nome, 30.000 sconosciuti, sono Italiani che hanno dato la loro vita per noi, per la nostra Patria, vanno onorati, ricordati, sempre..Siamo arrivati ai piedi della grande scalinata a mezzogiorno di un bellissimo due gennaio pieno di sole, non c’era quasi nessuno, un’anziana coppia sostava all’ingresso valutando la possibilità di salire le 22 terrazze sino alle tre Croci che sovrastano la Chiesa.Siamo passati a fianco del sarcofago del Duca d’Aosta ed abbiamo iniziato a salire. Quanti nomi, quante storie di morte, d’eroismo dietro a quelle lapidi tutte uguali, in rigoroso ordine alfabetico. Una lunga salita, faticosa ma più salivamo più ci sentivamo forti, forti di tutti quei nomi che ci ricordavano il sacrificio di tanti eroi, di tanti anonimi fanti morti per l’Italia, la Loro Patria, la nostra Patria. Sulla cima, sotto le tre Croci una Chiesa con sulla porta una scritta “qui si celebrano messe per tutti i caduti di tutte le guerre, perché non vi siano più guerre”.Era bello lassù, si respirava un’aria più pura, più sincera. Due ragazzi, potevano avere 20/23 anni, ci si sono avvicinati e educatamente, quasi sussurrando, ci hanno chiesto “questi sono tutti i morti dell’ultima guerra?”.Abbiamo spiegato loro brevemente cosa significava REDIPUGLIA e gli abbiamo mostrato una lapide, quasi nascosta di fronte all’ingresso della Chiesa che parla di quel Sacrario con date e nomi su chi lo volle e perché, se ne sono andati sconcertati dicendo “a scuola di tutto questo non ce ne ha parlato mai nessuno”.Scendendo abbiamo visto le due are in cui dovrebbe ardere perennemente una fiamma: erano entrambe spente e dalla terra sul fondo si poteva capire che lo erano già da lungo tempo. Con le lacrime agli occhi siamo usciti.
Pierluigi
Redipuglia 2 gennaio 2007
11 gennaio 2008 18.36
Pubblicato da ambra a 19.22 10 commenti
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SACRARIO DI REDIPUGLIA
Carissima Ambra, questo tuo poster mi fa sentire molto più vecchio dei miei 100 anni.Se solo penso allo spreco che si è fatto, negli ultimi anni, di medaglie d'oro, ad esempio tutte quelle date ai gonfaloni dei vari Comuni italiani, che fra un pò occorre avere forzuti sollevatori di pesi, invece di impiegati comunali, per reggere e portare in processione i vari labari pieni di medaglie alla resistenza, che pare che in Italia nell'ultimo secolo si siano combatture guerre quasi ogni settimana, e che tutti siano eroi.Purtroppo i veri eroi italiani, gli ultimi, si sono immolati nella grande guerra del 15/18. gridando in faccia al nemico i propri ideali e l'amore per la patria. Dopo, e scusami l'amarezza, tutto è stato solo condito di esaltazione politica.Ultimamente sono andato a Redipuglia. non ci passavo da qualche cosa come 25 anni. Mi si è stretto il cuore e mi sono fermato a pensare, con cattiveria estrema, che basterebbe togliere mille euri all'anno a tutti i parassiti della politica italiana per ridare decoro e brillantezza a quel vero Altare della Patria.Oppure sarà perchè sono rimasto contagiato dall'onor patrio che vedo, quì da noi, davanti a quasi tutte le case rurali, nel mezzo di praterie sconfinate dove trovi una casa ogni 50 miglia, ma la bandiera stelle e strisce è immancabile e quando suona l'inno nazionale la gente ha il coraggio di immobilizzarsi sull'attenti, mano destra su cuore, cantandone le parole.Povera Italia mia, ormai solo di vergogna ostello.Albert
Pubblicato da ambra a 14.19 2 commenti
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sabato 1 novembre 2008
No alla festa della Vittoria per tutelare gli immigrati
No alla festa della Vittoria per tutelare gli immigrati
Alessandra Stoppa
Pubblicato il giorno: 29/10/08
Le celebrazioni del 4 Novembre
Intere classi di studenti italiani parteciperanno alla cerimonia del 4 Novembre, con l’alzabandiera e i fiori ai caduti, altre staranno a scuola per non offendere la sensibilità delle minoranze non italiane e non cattoliche. L’intenzione di disertare la festa di Unità Nazionale è circolata nell’istituto comprensivo, ottocento studenti tra elementari e medie, di Villafranca Padovana. Boicottano il ricordo della Vittoria a una dozzina di chilometri dalla bella Villa Giusti dove la Vittoria fu sancita novant’anni fa. Nella residenza del conte Agostino si firmò l’armistizio che sancì la resa dell’Austria-Ungheria e la fine della Prima Grande Guerra.
La scuola, statale, della cittadina veneta non porterà tutti i suoi alunni alla cerimonia storica. E di certo non li farà assistere a tutti i momenti della commemorazione. «Per tutelare le minoranze». Ragion per cui gli anni passati si disertava la messa, compresa nel programma della festa. Ma questa volta l’intenzione è di non assistere nemmeno all’alzabandiera.
La scuola ha rincarato la dose e il sindaco della cittadina padovana si è ribellato. Ha rivolto un appello ai genitori perché scrivano una lettera chiedendo che ai loro figli non sia negato «un momento così importante per la nostra storia e quindi per la loro formazione». Beatrice Piovan, primo cittadino dell’Udc di Villafranca, dice di non capire più «chi sono gli stranieri e chi gli italiani: sembriamo noi stranieri in patria, visto che vogliamo dimenticarci chi siamo, la nostra storia, la nostra identità». La Piovan guida una cittadina di dieci mila abitanti: gli extracomunitari sono il quattro per cento. «A scuola il dato è rispecchiato: è possibile che il 96 per cento degli studenti debba rinunciare alla propria storia?». A quanto pare la preside (contattata, non ha voluto rilasciare nessuna dichiarazione) «deve avere un errato senso dell’integrazione. Se così non fosse, allora s’insinua la malafede. Anche se non vorrei credere che qualcuno pensi che il Tricolore sia di destra...».
Dall’Ufficio scolastico regionale annunciano accertamenti per chiarire la gestione della vicenda. «Non è la prima volta che questa scuola è sottoposta a ispezioni», spiega la direttrice scolastica regionale del Veneto, Carmela Palumbo: «La festa delle Forze Armate è un fatto educativo e didattico importante, né si capisce cosa c’entri la tutela delle minoranze davanti alla memoria della storia del Paese: mi appare ridicolo». Per il responsabile Scuola di An in Senato, Giuseppe Valditara, è «un fatto gravissimo: la condivisione dei valori unificanti e fondanti la nostra nazione è il cemento dell’integrazione. Invece, si punta su un destino di comunità separate e contrapposte». Quel che si rivendica nella scuola padovana «è un atteggiamento potenzialmente disgregante l’unità nazionale», continua Valditara, prendendo a imponente esempio la storia antica e l’universalismo romano che, dalla Britannia alla Mesopotamia, «presupponeva questa condivisione dei valori unificanti. Venuta meno, l’Impero saltò in aria».
I genitori degli studenti di Villafranca avrebbero la possibilità di presentare, per quel giorno, una giustificazione all’assenza in classe dei loro figli e portarli alla cerimonia, ma c’è il timore della se pur minima ritorsione. Eppure, il Comune ha posticipato le celebrazioni del 4 Novembre a sabato 8, proprio per facilitare la scuola e le famiglie. Non solo. Il programma è stato presentato dalle associazioni dei combattenti in giugno, «proprio per permettere alla scuola di organizzarsi nei dovuti tempi», precisa il sindaco.
«Questo è indicativo di come si debba uscire da una certa ipocrisia», precisa la direttrice scolastica regionale, «perché certi atteggiamenti tradiscono una grave rigidità». Per chiarire, racconta che se ci sono da organizzare le “notti bianche” di protesta contro la riforma Gelmini, le porte della scuola vengono spalancate immediatamente, senza nemmeno contattare l’ente locale proprietario dell’istituto. Quando, invece, si tratta di un’iniziativa culturale e formativa «vengono richieste delibere, permessi, autorizzazioni, quasi a ostacolare la fattibilità della partecipazione».
E pensare che gli studenti di Villafranca, prima di approdare a elementari e medie, hanno frequentato tutti, italiani e non, minoranze e non, le stesse scuole materne, che nella cittadina padovana sono tutte cattoliche.
http://www.libero-news.it/articles/view/371313
Alessandra Stoppa
Pubblicato il giorno: 29/10/08
Le celebrazioni del 4 Novembre
Intere classi di studenti italiani parteciperanno alla cerimonia del 4 Novembre, con l’alzabandiera e i fiori ai caduti, altre staranno a scuola per non offendere la sensibilità delle minoranze non italiane e non cattoliche. L’intenzione di disertare la festa di Unità Nazionale è circolata nell’istituto comprensivo, ottocento studenti tra elementari e medie, di Villafranca Padovana. Boicottano il ricordo della Vittoria a una dozzina di chilometri dalla bella Villa Giusti dove la Vittoria fu sancita novant’anni fa. Nella residenza del conte Agostino si firmò l’armistizio che sancì la resa dell’Austria-Ungheria e la fine della Prima Grande Guerra.
La scuola, statale, della cittadina veneta non porterà tutti i suoi alunni alla cerimonia storica. E di certo non li farà assistere a tutti i momenti della commemorazione. «Per tutelare le minoranze». Ragion per cui gli anni passati si disertava la messa, compresa nel programma della festa. Ma questa volta l’intenzione è di non assistere nemmeno all’alzabandiera.
La scuola ha rincarato la dose e il sindaco della cittadina padovana si è ribellato. Ha rivolto un appello ai genitori perché scrivano una lettera chiedendo che ai loro figli non sia negato «un momento così importante per la nostra storia e quindi per la loro formazione». Beatrice Piovan, primo cittadino dell’Udc di Villafranca, dice di non capire più «chi sono gli stranieri e chi gli italiani: sembriamo noi stranieri in patria, visto che vogliamo dimenticarci chi siamo, la nostra storia, la nostra identità». La Piovan guida una cittadina di dieci mila abitanti: gli extracomunitari sono il quattro per cento. «A scuola il dato è rispecchiato: è possibile che il 96 per cento degli studenti debba rinunciare alla propria storia?». A quanto pare la preside (contattata, non ha voluto rilasciare nessuna dichiarazione) «deve avere un errato senso dell’integrazione. Se così non fosse, allora s’insinua la malafede. Anche se non vorrei credere che qualcuno pensi che il Tricolore sia di destra...».
Dall’Ufficio scolastico regionale annunciano accertamenti per chiarire la gestione della vicenda. «Non è la prima volta che questa scuola è sottoposta a ispezioni», spiega la direttrice scolastica regionale del Veneto, Carmela Palumbo: «La festa delle Forze Armate è un fatto educativo e didattico importante, né si capisce cosa c’entri la tutela delle minoranze davanti alla memoria della storia del Paese: mi appare ridicolo». Per il responsabile Scuola di An in Senato, Giuseppe Valditara, è «un fatto gravissimo: la condivisione dei valori unificanti e fondanti la nostra nazione è il cemento dell’integrazione. Invece, si punta su un destino di comunità separate e contrapposte». Quel che si rivendica nella scuola padovana «è un atteggiamento potenzialmente disgregante l’unità nazionale», continua Valditara, prendendo a imponente esempio la storia antica e l’universalismo romano che, dalla Britannia alla Mesopotamia, «presupponeva questa condivisione dei valori unificanti. Venuta meno, l’Impero saltò in aria».
I genitori degli studenti di Villafranca avrebbero la possibilità di presentare, per quel giorno, una giustificazione all’assenza in classe dei loro figli e portarli alla cerimonia, ma c’è il timore della se pur minima ritorsione. Eppure, il Comune ha posticipato le celebrazioni del 4 Novembre a sabato 8, proprio per facilitare la scuola e le famiglie. Non solo. Il programma è stato presentato dalle associazioni dei combattenti in giugno, «proprio per permettere alla scuola di organizzarsi nei dovuti tempi», precisa il sindaco.
«Questo è indicativo di come si debba uscire da una certa ipocrisia», precisa la direttrice scolastica regionale, «perché certi atteggiamenti tradiscono una grave rigidità». Per chiarire, racconta che se ci sono da organizzare le “notti bianche” di protesta contro la riforma Gelmini, le porte della scuola vengono spalancate immediatamente, senza nemmeno contattare l’ente locale proprietario dell’istituto. Quando, invece, si tratta di un’iniziativa culturale e formativa «vengono richieste delibere, permessi, autorizzazioni, quasi a ostacolare la fattibilità della partecipazione».
E pensare che gli studenti di Villafranca, prima di approdare a elementari e medie, hanno frequentato tutti, italiani e non, minoranze e non, le stesse scuole materne, che nella cittadina padovana sono tutte cattoliche.
http://www.libero-news.it/articles/view/371313
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