venerdì 17 settembre 2010
lunedì 13 settembre 2010
Genocidio in Dalmazia, genocidio asburgico
Il cosiddetto impero austriaco (austro-ungarico dopo il 1866) si è reso responsabile nei confronti della nazione italiana di una gran quantità di persecuzioni, abusi e violenze.
È noto come esso abbia contribuito in modo decisivo a perpetuare a lungo lo stato di divisione dell’Italia, il possesso coloniale d’ampi suoi territori sotto dominio straniero, la condizione di sfruttamento economico, repressione culturale, oppressione politica e discriminazione etnica dei suoi sudditi italiani. È invece meno conosciuto come esso abbia progettato e portato a compimento dopo il 1866 un autentico genocidio (nell'accezione di snazionalizzazione forzata) a danno degli Italiani residenti nei propri possedimenti.
Una valutazione obiettiva e veritiera della natura dell’impero asburgico, fondato sul principio dell’egemonia dell’elemento etnico austriaco, può essere introdotta ricordando la verbalizzazione della decisione imperiale espressa nel Consiglio dei ministri il 12 novembre 1866, tenutosi sotto le presidenza dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Il verbale della riunione recita testualmente:
“Sua maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno” [cfr. Luciano Monzali, "Italiani di Dalmazia", Firenze 2004, p. 69; Angelo Filipuzzi (a cura di), “La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci: operazioni terrestri”, Padova 1966, pp. 396].
La citazione della decisione imperiale di Francesco Giuseppe di compiere una pulizia etnica contro gli Italiani in Trentino-Alto Adige, Venezia Giulia, Dalmazia, si può reperire in Die Protokolle des Österreichischen Ministerrates 1848/1867. V Abteilung: Die Ministerien Rainer und Mensdorff. VI Abteilung: Das Ministerium Belcredi, Wien, Österreichischer Bundesverlag für Unterricht, Wissenschaft und Kunst 1971; la citazione compare alla Sezione VI, vol. 2, seduta del 12 novembre 1866, p. 297.
La citazione in tedesco compare in un paragrafo intitolato "Misure contro l’elemento italiano in alcuni territori della Corona", ossia "Maßregeln gegen das italienische Element in einigen Kronländern": “Se. Majestät sprach den bestimmten Befehl aus, daß auf die entschiedenste Art dem Einflusse des in einigen Kronländern noch vorhandenen italienischen Elementes entgegengetreten und durch geeignete Besetzung der Stellen von politischen, Gerichtsbeamten, Lehrern sowie durch den Einfluß der Presse in Südtirol, Dalmatien und dem Küstenlande auf die Germanisierung oder Slawisierung der betreffenden Landesteile je nach Umständen mit aller Energie und ohne alle Rücksicht hingearbeitet werde. Se. Majestät legt es allen Zentralstellen als strenge Pflicht auf, in diesem Sinne planmäßig vorzugehen” Tale brano si chiude con il richiamo a tutti gli uffici centrali del dovere rigoroso di procedere a quanto ordinato, secondo la volontà dell'imperatore.
La decisione governativa, presa al più livello dall’imperatore Francesco Giuseppe e dal suo consiglio, di procedere alla germanizzazione e slavizzazione delle regioni a popolamento italiano, Trentino, Venezia Giulia e Dalmazia, “con energia e senza riguardo alcuna”, attesta in maniera inequivocabile la natura discriminatoria ed oppressiva dell’impero asburgico nei confronti della minoranza italiana: si ricordi comunque come questo sia solo un esempio fra i molti della politica anti-italiana dell’Austria.
Tale atto di governo, preso direttamente dall’imperatore stesso, esprimeva la chiara volontà di condurre un genocidio anti-italiano (non nel senso di sterminio fisico, quanto di cancellazione dell'identità nazionale e culturale, che avrebbe portato appunto alla "morte di un popolo"), il quale fu poi effettivamente realizzato in Dalmazia (i censimenti austriaci segnalano in pochi la diminuzione del gruppo etnico italiano da quasi il 20% a poco più del 2%) ed intrapreso in Venezia Giulia e Trentino: soltanto la guerra e la vittoria italiana poterono impedire che anche in queste due ultime regione la presenza italiana fosse cancellata, come era avvenuto in quella dàlmata.
Questo progetto, elaborato consapevolmente dalle più alte autorità dell’impero asburgico e per manifesta volontà di Francesco Giuseppe stesso, fu poi sviluppato contro gli Italiani con una pluralità di modi. Le posteriori misure contro gli Italiani si susseguirono dal 1866 sino al 1918 e furono diverse a seconda dei luoghi, dei tempi e delle autorità (civili o militari, centrali o locali) che le promossero. Esse però seguirono tutte il solco tracciato da una sostanziale ostilità del ceto dirigente austriaco verso gli Italiani:
1) espulsioni di massa (oltre 35.000 espulsi dalla sola Venezia Giulia nei soli primi anni del Novecento)
2) deportazione in campi di concentramento (oltre 100.000 deportati durante la prima guerra mondiale)
3) impiego di squadracce di nazionalisti Slavi nell’esercizio massivo della violenza contro gli Italiani (con innumerevoli di atti di violenza, attentati, aggressioni, omicidi ecc. Queste azioni incontrarono spesso la sostanziale tolleranza delle autorità o comunque non furono represse con efficacia)
4) repressione poliziesca
5) immigrazione di Slavi e Tedeschi nei territori italiani favorita dalle autorità imperiali, per favorire la progressiva "sommersione" degli autoctoni Italiani.
6) germanizzazione e slavizzazione scolastica e culturale (chiusura delle scuole italiane, cancellazione della toponomastica ed onomastiche italiane, proibizione della cultura italiana in ogni sua forma: fu molto grave in particolare la questione scolastica in Dalmazia)
7) privazione o limitazione dei diritti politici (le elezioni in Dalmazia videro pesantissimi brogli a favore dei nazionalisti slavi; comuni retti da Italiani furono sciolti dalle autorità austriache ecc.)
8) limitazione dei diritti civili (scioglimento d'associazioni politiche, culturali, sindacali, persone arrestate o condannate per futili motivi ecc.)
Esiste al riguardo un abbondante materiale, sia nelle fonti dell'epoca, sia nella storiografia.
sabato 11 settembre 2010
martedì 7 settembre 2010
Sorpresa, l’Italia sta vincendo in Afghanistan (click)
sabato 4 settembre 2010
giovedì 19 agosto 2010
Sonata al chiaro di luna per Fracesco Cossiga
Che dici, Dago, possiamo dedicarla a Cossiga questa tua musica, vero ?
martedì 10 agosto 2010
Silvia Guberti, il tenente con il velo che parla con le donne afghane (click)
sabato 7 agosto 2010
CRISTIANI (click)

Quests l'ANSA:
(ANSA-AFP) - KABUL, 7 AGO - Uccisi in Afghanistan 8 medici stranieri, cinque uomini di nazionalita' Usa e tre donne: un'americana, una tedesca e una britannica. I taleban hanno rivendicato il massacro, annunciando di aver ucciso missionari cristiani. Dopo un rimbalzare di notizie, la conferma e' giunta da Dirk Frans, direttore esecutivo di International Assistance Mission,la Ong cristiana per la quale lavoravano i medici morti.
Uccisi anche due interpreti afgani.
venerdì 30 luglio 2010
ALTRI EROI PER CUI PREGARE. (click)


L'esplosione Il primo maresciallo Mauro Gigli, del 32° reggimento Genio Guastatori di Torino, e il caporal maggiore capo Pier Davide De Cillis, del 21° reggimento Genio Guastatori di Caserta, hanno perso la vita mercoledì quando un ordigno è esploso dopo che ne avevano appena neutralizzato un altro, la cui presenza in un villaggio a pochi chilometri da Herat era stata segnalata dalla polizia afghana. Nell’esplosione sono rimasti feriti anche un poliziotto afghano e un capitano italiano, Federica Luciani, le cui condizioni non destano preoccupazione e che ha chiesto espressamente di non fare rientro in Italia.
domenica 11 luglio 2010
ACQUE TORBIDE
Nelle acque intorbidate dal temporale il pescatore esperto getta l'amo e sa che forse farà buona pesca.
Oggi, nel torrente della politica, i temporali si susseguono a ritmo serrato, le acque vanno sempre più intorbidandosi e da ogni dove si assiepano sulle rive italiche pescatori vogliosi di prede, chi più esperto, chi proprio un dilettante, ma tutti ugualmente assatanati.
Avviene così che, in quella selva di ami, i pesci decidano di far digiuno e ai pescatori non resti che cucinarsi le esche.
Riusciranno a non morir di fame e a sopravvivere ?
Tornate chiare le acque, ci sarà forse un pescatore che deciderà di raccogliere i pesci con la rete, allora imprigionati, a morire asfissiati saranno proprio loro.
Così è l'alternarsi dei regimi.
domenica 4 luglio 2010
venerdì 2 luglio 2010
lunedì 28 giugno 2010
venerdì 25 giugno 2010
Un Giglio nei cieli di Herat (click)

NOLA - Si può pensare alla festa anche a migliaia di chilometri ad est della penisola. Tra deserti, coltivazioni d’oppio e talebani. Herat, Afghanistan: un nolano in missione di pace racconta il difficile incontro tra un paese in guerra ed una città in festa. Un incontro che avviene però solo nel suo cuore, perché in questi giorni, mentre si avvicina la data della ballata, Enzo Spampanato è ancora ad Herat a svolgere la propria missione. Spampanato fa parte del task group dell’aeronautica militare italiana, i Black Cats. I “gatti neri” sono i piloti degli aerei Amx, chiamati a portare a termine numerose missioni operative sulla porzione di territorio sotto competenza italiana. Il personale navigante e specialista proviene dai Gruppi di volo dell’Aeronautica Militare che hanno in dotazione il velivolo AM-X: il 132° e 103° Gruppo del 51° Stormo di Istrana (Treviso) ed il 13° e 101° Gruppo del 32° Stormo di Amendola (Foggia). Tra loro il nolano Enzo Spampanato, impegnato coi colleghi in una pericolosa missione di pace, ma con un pensiero sempre fisso per Nola e per l’appuntamento del 27 giugno. “Mentre gli aerei si involano- racconta Spampanato- i miei pensieri vanno a Nola, penso alla festa che è iniziata e impazza per la città, sento le musiche, le voci dei miei amici e i ricordi ritornano alla mente; lo sparo dei fuochi d’artificio all’alzata della borda, la prima alzata del giglio spogliato per assestarlo, la vestizione, il comitato, la ballata dei gigli in piazza, girata delle carceri, vico Piciocchi”. Mentre a terra la guerriglia non dà pace alle forze di pace, mentre le mine anti-uomo funestano di perdite i convogli di “portatori” di pace, e la democrazia invocata sembra fare ancora a pugni con la capillare presenza talebana, sui cieli di Herat, nei sogni di Enzo, svettano obelischi in cartapesta.”Rivivo tutto ciò con immensa emozione- dice il pilota nolano- fino a quando il rumore assordante degli aerei che rientrano mi riporta alla realtà e mi rendo conto che è solo un sogno, un meraviglioso sogno”. Per Spampanato è durissima lasciare a casa la famiglia, i figli, le abitudini, ma quelle sono nostalgie quotidiane ed inattaccabili. Ora vuole raccontarci un punto di vista particolare, quello del nolano che vive la sua festa da un altro paese, un po’ da un altro mondo: “Sono qui a 4.200 Km di distanza e per noi nolani stare lontani per la festa è durissimo; ma i volti tristi dei bambini e le fatiche degli uomini Afghani, che incontro ogni giorno, mi danno la forza e l’orgoglio di essere presente, con il mio contributo, alla ricostruzione della pace in questa terra martoriata”. Alla festa ci pensa, e ne augura una “felicissima a tutti i miei concittadini, ai quali do appuntamento per quella del 2011”. “W Nola, W la Festa dei Gigli e W San Paolino” conclude Enzo. Al quale verrebbe da rispondere: W tutti voi lì ad Herat. Nolani e non.
di Bianca Bianco 25/06/2010
Anno III Numero 175
giovedì 10 giugno 2010
10 giugno 1940

Era un caldo pomeriggio quasi agostano, come oggi e io ero stata vestita col solito ed unico vestitino da mezza stagione di vellutino rosso a quadrature nere, irregolari; il sole mi bruciava e m'ingombravano anche le trecce pendenti sulle spalle. Ero stata affidata ad una donna del vicinato, sicura, onesta, ma lei e i suoi tanti figlioli erano solo conoscenti e diversi da me per vita e abitudini; erano felici, loro, della passeggiata inasperata sulle Mura cittadine, fra il verde, liberi di scorrazzare e gridare a gran voce; io no, non riuscivo ad essere spensierata, pensavo alla Piazza Grande dall'altra parte della città dove una folla immensa era stata chiamata per...l'adunata.
Sentivo dentro una strana ansia, come se qualcunio stesse per portarmi via la famiglia o qualcosa si inframettesse per separarmene, a un tratto mi parve che il tempo si fermasse e un senso d'angoscia mi fece sgorgare dagli occhi lacrime roventi quanto silenziose. Stavo "buona", seduta da una parte, e nessuno mi prestava attenzione pur non perdendomi d'occhio. Poi il vocio e il chiasso si smorzò, alzai gli occhi e sentii la voce di quel ciclista che diceva: tornate a casa, è scoppiata la guerra.
martedì 8 giugno 2010
L'italiano: il latino moderno
La lingua italiana può ben dirsi latino moderno, poiché i rapporti che la legano all’idioma dei Romani sono ben più numerosi e forti della semplice derivazione da quest’ultimo della maggior parte dei lemmi italiani deriva da quelli della lingua latina, che pure è già di per sé sufficiente a qualificare l’italiano quale neo-latino o romanzo.
Le regole grammaticali della lingua italiana furono fissate molto presto, già nel Rinascimento, e furono degli umanisti a farlo. Costoro modellarono consapevolmente la sintassi italiana su quella della lingua latina, che avevano assunto a paradigma esemplare. Figura centrale fu quella di Pietro Bembo, buon scrittore in italiano ma grande latinista.
Si possono portare molti esempi delle conseguenze di tale scelta. La struttura della frase è molto più breve in inglese che in italiano, lingua in cui sono frequenti periodi di notevole complessità sintattica raggiunti attraverso la coordinazione e la subordinazione. Tale impianto deriva direttamente dalla lingua latina e per la precisione dalla concinnitas, assunta quale modello dagli umanisti rinascimentali e ben differente dal fraseggiare prevalentemente mono-proposizionale di altri idiomi.
Non si può neppure sostenere l’idea di una radicale diversità sintattica fra latino ed italiano dovuta all’assenza dei casi in quest’ultimo. In realtà, il latino era, come tutte le altre lingue analoghe, diversificato al suo interno in determinate varianti: il latino letterario, il latino quotidiano, il latino giuridico, il latino volgare (sermo vulgaris), il rustico (sermo rusticus), il militare (sermo castrensis) ecc. È ciò che avviene anche nell’italiano contemporaneo, od in altre lingue, con una differenziazione di linguaggi a seconda dell’ambiente sociale, dell’educazione, del contesto. Il latino incomparabilmente meglio conosciuto è, per ovvie ragioni, quello letterario, che ha lasciato come testimonianza di sé una grande letteratura folta di nomi illustri, mentre gli altri sono pochissimo noti, tramite le poche attestazioni presenti in testi letterari, nonché epigrafi di varia provenienza.
Tuttavia, è assodato come nel latino rustico ed in parte in quello quotidiano i casi fossero adoperati con molta flessibilità, od addirittura tralasciati. Il latino orale frequentemente ometteva le desinenze finali ed attribuiva il valore grammaticale ai vocaboli su base posizionale. Un discorso analogo si può compiere per l’uso dell’articolo, assente nel latino letterario, ma presente di fatto in quello quotidiano o rustico (unus quale articolo indeterminativo è impiegato addirittura nelle Metamorfosi del raffinatissimo poeta Ovidio).
L’italiano nella sua costruzione ha attinto da tutte le varie forme di latino esistenti, seppure con diversa intensità. Alcuni suoi lemmi o date strutture sintattiche derivano dal latino letterario, altre invece dal latino quotidiano, rustico, volgare, giuridico, militare ecc. Ad esempio, l’aggettivo “equino” discende dal letterario equus, mentre il sostantivo “cavallo” deriva da caballus, del sermo rusticus, e “palafreno” da palafrenus, del sermo castrensis.
La grammatica italiana è quindi molto simile a quella latina, sia per il tramite della sua rielaborazione teorica e letteraria modellata sull’esempio dei classici antichi, sia attraverso la sua derivazione dalle varie forme di sermones antichi diversi da quello illustris.
Un altro aspetto dell’italiano derivante dal latino è il suo vocalismo, nonché la ricerca dell’eufonia: questo è anzi di derivazione letteraria. Oggigiorno esiste la prassi di leggere mentalmente, la cosiddetta lettura silenziosa o mentale, mentre, almeno sino al secolo XIV incluso, l’abitudine era quella di leggere ad alta voce. Questo comportava la ricerca da parte degli scrittori, in poesia ed in prosa, di specifici effetti vocali. Il brano non doveva soltanto rispondere a criteri di bellezza estetica quali oggigiorno si è abituati a valutare in un testo scritto, ma essere letteralmente musicale. Infatti, sia nel mondo antico, sia in quello medievale e rinascimentale, le pubbliche letture di poeti erano, spesso, accompagnate dal suono soffuso di strumenti musicali.
È nota la musicalità sonora attribuita alla lingua italiana, la quale ha le sue radici nella sua natura precipuamente letteraria. I poeti o scrittori italiani, almeno sino ad una certa epoca (XVII secolo) s’ispiravano anche in questo ai modelli della latinità, anzitutto Virgilio e Cicerone, e pertanto selezionavano i lemmi, li modificavano o li combinavano, al fine d’ottenere un linguaggio gradevole all’udito ovvero musicale. Può essere utile per valutare l’importanza di tale operazione riportare un semplice esempio: il grande Monteverdi, fra i padri della lirica, trasse ispirazione nella formazione di questo “nuovo” genere canoro dai testi di Torquato Tasso e dalla loro peculiare cadenza ed espressività. Gli esempi riguardanti il rapporto fra poesia e musica italiane nei secoli passati, specie nel periodo compreso fra il Petrarca ed il Metastasio, potrebbero facilmente moltiplicarsi ad libitum, tanto che il petrarchismo letterario è stato spesso studiato in riferimento ai suoi contenuti musicali.
Ancora, il latino costituisce accanto all’italiano la seconda lingua nazionale d’Italia. Si scritto e parlato ininterrottamente in latino sino almeno al secolo XVIII e la letteratura in questa lingua prodotta sul suolo peninsulare nel Medioevo e nell’età moderna è d’immense proporzioni. In questo modo, il latino ha rappresentato per secoli una bussola indispensabile anche per l’impiego dell’italiano stesso, specie al di fuori della Toscana. Ancora nel 1824 Giacomo Leopardi poteva giustificare sue scelte linguistiche, non contemplate nel Vocabolario italiano dell’Accademia della Crusca, ricorrendo al vocabolario latino del Forcellini.
Si può quindi sostenere che l’italiano sia a tutti gli effetti latino moderno. Esso deriva dalla lingua latina degli antichi Romani, da cui riprende la maggior parte dei propri vocaboli, il proprio impianto grammaticale e sintattico, il vocalismo. Inoltre, sino al secolo XVIII almeno in Italia si è scritto e parlato ininterrottamente in latino e questa lingua ha servito da modello paradigmatico per quella italiana.
Le regole grammaticali della lingua italiana furono fissate molto presto, già nel Rinascimento, e furono degli umanisti a farlo. Costoro modellarono consapevolmente la sintassi italiana su quella della lingua latina, che avevano assunto a paradigma esemplare. Figura centrale fu quella di Pietro Bembo, buon scrittore in italiano ma grande latinista.
Si possono portare molti esempi delle conseguenze di tale scelta. La struttura della frase è molto più breve in inglese che in italiano, lingua in cui sono frequenti periodi di notevole complessità sintattica raggiunti attraverso la coordinazione e la subordinazione. Tale impianto deriva direttamente dalla lingua latina e per la precisione dalla concinnitas, assunta quale modello dagli umanisti rinascimentali e ben differente dal fraseggiare prevalentemente mono-proposizionale di altri idiomi.
Non si può neppure sostenere l’idea di una radicale diversità sintattica fra latino ed italiano dovuta all’assenza dei casi in quest’ultimo. In realtà, il latino era, come tutte le altre lingue analoghe, diversificato al suo interno in determinate varianti: il latino letterario, il latino quotidiano, il latino giuridico, il latino volgare (sermo vulgaris), il rustico (sermo rusticus), il militare (sermo castrensis) ecc. È ciò che avviene anche nell’italiano contemporaneo, od in altre lingue, con una differenziazione di linguaggi a seconda dell’ambiente sociale, dell’educazione, del contesto. Il latino incomparabilmente meglio conosciuto è, per ovvie ragioni, quello letterario, che ha lasciato come testimonianza di sé una grande letteratura folta di nomi illustri, mentre gli altri sono pochissimo noti, tramite le poche attestazioni presenti in testi letterari, nonché epigrafi di varia provenienza.
Tuttavia, è assodato come nel latino rustico ed in parte in quello quotidiano i casi fossero adoperati con molta flessibilità, od addirittura tralasciati. Il latino orale frequentemente ometteva le desinenze finali ed attribuiva il valore grammaticale ai vocaboli su base posizionale. Un discorso analogo si può compiere per l’uso dell’articolo, assente nel latino letterario, ma presente di fatto in quello quotidiano o rustico (unus quale articolo indeterminativo è impiegato addirittura nelle Metamorfosi del raffinatissimo poeta Ovidio).
L’italiano nella sua costruzione ha attinto da tutte le varie forme di latino esistenti, seppure con diversa intensità. Alcuni suoi lemmi o date strutture sintattiche derivano dal latino letterario, altre invece dal latino quotidiano, rustico, volgare, giuridico, militare ecc. Ad esempio, l’aggettivo “equino” discende dal letterario equus, mentre il sostantivo “cavallo” deriva da caballus, del sermo rusticus, e “palafreno” da palafrenus, del sermo castrensis.
La grammatica italiana è quindi molto simile a quella latina, sia per il tramite della sua rielaborazione teorica e letteraria modellata sull’esempio dei classici antichi, sia attraverso la sua derivazione dalle varie forme di sermones antichi diversi da quello illustris.
Un altro aspetto dell’italiano derivante dal latino è il suo vocalismo, nonché la ricerca dell’eufonia: questo è anzi di derivazione letteraria. Oggigiorno esiste la prassi di leggere mentalmente, la cosiddetta lettura silenziosa o mentale, mentre, almeno sino al secolo XIV incluso, l’abitudine era quella di leggere ad alta voce. Questo comportava la ricerca da parte degli scrittori, in poesia ed in prosa, di specifici effetti vocali. Il brano non doveva soltanto rispondere a criteri di bellezza estetica quali oggigiorno si è abituati a valutare in un testo scritto, ma essere letteralmente musicale. Infatti, sia nel mondo antico, sia in quello medievale e rinascimentale, le pubbliche letture di poeti erano, spesso, accompagnate dal suono soffuso di strumenti musicali.
È nota la musicalità sonora attribuita alla lingua italiana, la quale ha le sue radici nella sua natura precipuamente letteraria. I poeti o scrittori italiani, almeno sino ad una certa epoca (XVII secolo) s’ispiravano anche in questo ai modelli della latinità, anzitutto Virgilio e Cicerone, e pertanto selezionavano i lemmi, li modificavano o li combinavano, al fine d’ottenere un linguaggio gradevole all’udito ovvero musicale. Può essere utile per valutare l’importanza di tale operazione riportare un semplice esempio: il grande Monteverdi, fra i padri della lirica, trasse ispirazione nella formazione di questo “nuovo” genere canoro dai testi di Torquato Tasso e dalla loro peculiare cadenza ed espressività. Gli esempi riguardanti il rapporto fra poesia e musica italiane nei secoli passati, specie nel periodo compreso fra il Petrarca ed il Metastasio, potrebbero facilmente moltiplicarsi ad libitum, tanto che il petrarchismo letterario è stato spesso studiato in riferimento ai suoi contenuti musicali.
Ancora, il latino costituisce accanto all’italiano la seconda lingua nazionale d’Italia. Si scritto e parlato ininterrottamente in latino sino almeno al secolo XVIII e la letteratura in questa lingua prodotta sul suolo peninsulare nel Medioevo e nell’età moderna è d’immense proporzioni. In questo modo, il latino ha rappresentato per secoli una bussola indispensabile anche per l’impiego dell’italiano stesso, specie al di fuori della Toscana. Ancora nel 1824 Giacomo Leopardi poteva giustificare sue scelte linguistiche, non contemplate nel Vocabolario italiano dell’Accademia della Crusca, ricorrendo al vocabolario latino del Forcellini.
Si può quindi sostenere che l’italiano sia a tutti gli effetti latino moderno. Esso deriva dalla lingua latina degli antichi Romani, da cui riprende la maggior parte dei propri vocaboli, il proprio impianto grammaticale e sintattico, il vocalismo. Inoltre, sino al secolo XVIII almeno in Italia si è scritto e parlato ininterrottamente in latino e questa lingua ha servito da modello paradigmatico per quella italiana.
domenica 30 maggio 2010
sabato 29 maggio 2010
mercoledì 19 maggio 2010
ANCORA UNA VITTIMA DI GUERRA (click)
martedì 18 maggio 2010
La lettera da Herat: «Sono caduti così, all’alpina maniera» (click)

Quando ho appreso oggi i nomi dei genieri caduti nell’attacco a sud di Bala Murghab, confesso di avere avuto un piccolo cedimento, perché il sergente Massimiliano Ramadù lo conoscevo da più di dieci anni. Era arrivato nel 1999 a Torino, alla Montegrappa, da semplice alpino ed era stato assegnato alla mia compagnia.
All’epoca ero tenente e alquanto severo, ma ricordo perfettamente quel ragazzo disciplinato e garbato che mai si era messo in evidenza se non per la puntualità e la precisione. Viste le sue qualità, era stato assegnato - con i migliori - a prestare servizio al comando brigata, all’ufficio personale. In poco tempo diventava un uomo di fiducia per ufficiali e sottufficiali del comando. Un alpino bravo, tanto da vincere un giorno il difficile concorso per diventare sergente. Dopo cinque mesi di formazione a Roma, diventava comandante di squadra guastatori, cambiava arma, passava nel genio e ritornava a Torino, al 32esimo reggimento di corso Brunelleschi.
Iniziava così una nuova fase della sua carriera; lo vedevo di meno ma lo vedevo sempre serio e discreto, proprio come lo ricordavo e proprio come lo ricorderò ora che è caduto in Afghanistan sacrificandosi nella sua professione di militare, cosa in cui credeva senza fronzoli, all’alpina maniera.
Maggiore Mario Renna
Brigata Taurinense
lunedì 17 maggio 2010
DEDICATO AGLI ULTIMI EROI (click)
Fra i nomi che leggerete nell'articolo c'è anche quello di colui che mi inviò questa musica da lui suonata in una sera del suo soggiorno in missione ad Herat.
Noi lo chiamavamo Dagoberto e così lo ricordiamo, insieme ai suoi due amici Battistad e Pasquino.
Ciao ragazzi, ovunque voi siate.
lunedì 10 maggio 2010
ORIANA FALLACI, UNA TOSCANA ITALIANA(click per articolo di M.Veneziani)

Uccisero Gentile, ma non tolsero le mine naziste
di Oriana Fallaci
Inedito. Una lettera della Fallaci ritorna sull'omicidio del filosofo. Era fascista? «Non più di Benedetto Croce e tanti altri che sarebbero diventati numi del Pci». Gli stessi gappisti «si tirarono indietro quando si trattò di far saltare il piano dei tedeschi».
Firenze, fine luglio 2000
Caro Chicco,
ecco i libri. Me ne sono appropriata per te, con particolare orgoglio e diletto. M’è parso un omaggio doveroso verso un uomo che venne ammazzato ingiustamente e vigliaccamente. (Ammazzato, sì. Assassinato. Non «giustiziato» come diceva quell’imbecille del tuo professore. Certo un fascista rosso. Disinformato, fanatico, e uscito dal Cottolengo.)
Io ricordo ancora il giorno in cui lo ammazzarono. Ero una ragazzina con le trecce, una bambina vecchia, che faceva la partigiana nelle file di Giustizia e Libertà. Nome di battaglia, Emilia. Mansioni, ora che ripenso, da rizzare i capelli in testa. Non a caso mia madre urlava a mio padre: «Irresponsabile, irresponsabili! Servirsi dei bambini così!». Vivevo con lei e la Neera in un buco senza cesso del Conventino dov’eran nascosti anche alcuni partigiani iugoslavi e dove una sera i tedeschi irruppero con la X Mas. (Ma io fui brava: svelta nascosi le rivoltelle nel cesso del corridoio, bruciai nella stufetta il Non Mollare, e mangiai il foglio coi nomi). E lì veniva ogni tanto il babbo, capo militare del Partito d’Azione-Giustizia e Libertà per Firenze. «Porta questa bomba qui, porta questa bomba là. Svelta vieni con me che si va a un appuntamento con Pippo». O con Berto o con diosacchì.
Quel giorno, quel pomeriggio, venne per portarmi a un appuntamento con Pippo. (Tristano Codignola). Era verde. Fremeva. Schiumava. E non capivo perché. Ma poi lo capii. Perché a Pippo, in piazza San Firenze, disse: «Hanno ammazzato Gentile. Quegli imbecilli. Quegli irresponsabili. Quei cacasotto». Allora Pippo si mise a tremare, chiese come, e il babbo rispose: «Lui era in automobile, col finestrino abbassato. Aspettava col motore acceso e l’autista. Si sono avvicinati e gli hanno chiesto se avesse un fiammifero per accendere la sigaretta. Lui ha annuito, «sì certo», e mentre gli accendeva la sigaretta: bang, bang, bang.
A me non pare che Gentile fosse fascista. O non più di Benedetto Croce che all’inizio leccava il culo a Mussolini, eppure passata la festa la soi-disant sinistra lo ha osannato come un grand’uomo. Un uomo probo. Una mente sublime. O non più dei comunisti che, quando negli anni Trenta mio padre veniva bastonato e purgato perché non era iscritto al PNF e faceva il “sovversivo”, sventolavan la tessera. Se Gentile meritava di morire, allora anche Benedetto Croce lo meritava. E tanti altri che sarebbero diventati numi del Pci. E a merito degli azionisti v’è il fatto che compresero subito la portata dell’errore, anzi della carognata.
Ma la cosa non finisce qui. Ed ora viene il bello. Ecco qua.
Nel luglio o forse agosto del 1944, quando si seppe che i tedeschi avrebbero fatto saltare i ponti di Firenze, il mio babbo concepì un piano per salvare almeno quello di Santa Trinita. Si trattava, avrei scoperto da adulta, di disinnescare le cariche con un’azione condotta da lui ma effettuata da gappisti ingegneri. Da tecnici di gran qualità. Operazione difficilissima, ovvio, ma non impossibile in quanto l’OSS cioè il servizio segreto americano aveva fatto sapere che i tedeschi avrebbero messo le mine all’ultimo momento. Quindi quando gli alleati sarebbero stati alle porte della città e in grado di lanciare un attacchetto eversivo.
Il babbo era sicuro di farcela, ma non aveva uomini a sufficienza. I suoi gappisti migliori erano stati arrestati e quelli che gli restavano eran coraggiosi sì ma ignoranti. Rozzi. Niente ingegneri, niente tecnici di qualità. Così propose di chiedere aiuto ai comunisti, e il comitato centrale fu d’accordo. Sia pure a malincuore. (A malincuore perché dopo lo sciocco e inutile assassinio-Gentile Il P d’A aveva preso le distanze dal Pc, e perché con loro non eravamo mai stati pane e cacio. Ci rubavano le armi che l’OSS ci gettava su Monte Giovi, ad esempio. Ci fucilavano i partigiani che incazzatissimi andavano a ripigliarle. Esempio del Tigre e del Balilla. E va da sé che con quelle armi rubate non ci facevano un accidente. Al massimo ci ammazzavano i vecchi professori in automobile).
L’aiuto fu chiesto all’insegna del volemose-bene-lo-stesso, per-una-volta-lavoriamo-insieme, viva-la-patria-eccetera. Ma dopo lungo pensare i gappisti comunisti risposero no. «SAREBBE TROPPO PERICOLOSO». E sai da dove venivano quegli audaci che risposero no-sarebbe-troppo-pericoloso? Dal gruppo che aveva effettuato l’eroica impresa del «Che ce l’avrebbe un fiammifero per accendere la sigaretta?».
Tienili cari questi libri. E salutami (si fa così per dire) Barras e Fouchè e Tallien, insomma le Tre Grazie del tuo Direttorio. Gli eredi di quegli audaci gappisti che come zittelle inacidite annaspano per non strappare il loro culaccio dalla poltroncina. (E menomale che i Napoleoni nascono ogni mille anni! Sennò grazie a loro, ne verrebbe fuori uno. E anziché di cancro la povera Oriana finirebbe fucilata da lui).
Un abbraccio e a bientôt.
PS. Non mi hai detto se e come ti sono venuti i pomodori del pomodorone. Magari non li hai neanche seminati.
PPSS. Sempre parlando del tuo Direttorio: prendi le distanze.
domenica 18 aprile 2010
venerdì 16 aprile 2010
TRADITORE DELLA PATRIA (click)

Fare Schifo
Scritto da Barbara Di Salvo
venerdì 16 aprile 2010
Perché?
Questo mi chiedo, e sono sicura di non essere l’unica dei tuoi ex elettori a chiederselo.
Sì, ti ho sempre votato, ti adoravo, anche quando neppure si immaginava che potessi arrivare mai al governo, anche quando Berlusconi faceva solo televisione e tu facevi solo politica.
Da qualche anno le parti, però, sembrano essersi tristemente invertite e sei proprio tu ad aver smesso di far politica e sei diventato solo un uomo a caccia di titoli nei telegiornali.
Io davvero non ti capisco, nessuno dei tuoi ex elettori ti capisce e questo, scusami, ma mi sembra un enorme difetto per un politico che sognava da statista.
Se chi ti votava prima ancora dello sdoganamento, se chi ha continuato a votare te anziché Berlusconi anche negli anni successivi, oggi non ti capisce più, il problema è tuo, non nostro.
Scendi un attimo da quel piedistallo sotto una campana di vetro in una torre d’avorio in cui ti sei esiliato e guardati intorno.
Hai fatto terra bruciata. Hai perso un consenso elettorale incredibile e ancora non sembri aver capito perché.
Te la prendi con Berlusconi perché asseconda le richieste della Lega. Ti preoccupi del successo di Bossi e non hai ancora realizzato che i voti la Lega li ha portati via tutti ad AN, non a FI.
Sveglia! Possibile che te ne sia ancora reso conto? Possibile che tu non abbia ancora capito il motivo?
Fatti un giro sul tanto osannato territorio e vai a cercare i tuoi vecchi camerati. Li ritroverai quasi tutti in camicia verde.
No, non ti hanno tradito. Sei tu che hai tradito loro.
La colpa è solo tua, caro il mio “uomo delle istituzioni”, non è di Silvio che si coccola l’Umberto, ma tutta tua.
Non si tratta di alleanze, di fedeltà, di occupazioni mediatica, di poltrone, di chiacchiere.
No, caro mio. Si tratta di politica vera, fatta di ideali, di programmi, di passioni, di senso di appartenenza, di obiettivi comuni.
Tu dici che non vuoi copiare la Lega perché la gente preferirà sempre l’originale alla copia e non ti sei neppure reso conto che il vero originale era l’MSI, era AN, eri tu.
Non è stato un caso se la legge sull’immigrazione si sia chiamata Bossi-Fini. Ora la rinneghi, ma l’hai scritta quando ancora tu eri Fini e Bossi prendeva appunti.
Ti sei fatto scippare le idee e neppure te ne sei accorto.
Rileggiti i tuoi discorsi di 10/20 anni fa, rileggiti quelli di Almirante e confrontali con quelli dei leghisti di oggi.
Chi ha copiato chi?
Chi si opponeva all’immigrazione selvaggia e senza controllo?
Chi si preoccupava della sicurezza nelle città?
Chi pretendeva il rispetto delle regole e la punizione severa dei delinquenti?
Chi lottava contro la criminalità organizzata e appoggiava Falcone e Borsellino ben prima che li ammazzassero, quando tutti li ostracizzavano?
Chi difendeva le tradizioni cristiane, i nostri valori, le nostre radici, la nostra cultura, la nostra identità?
Chi lottava perché ognuno fosse responsabile personalmente delle proprie azioni?
Chi chiedeva che il libero mercato fosse contemperato con le esigenze sociali dei ceti più deboli?
Chi difendeva i prodotti e le imprese nazionali contro la globalizzazione?
La Patria! Santa pazienza, non te la sento nominare da anni.
Solo questo vi distingueva e tu, ingenuamente, ti sei fossilizzato sulle loro folcloristiche richieste di secessione e non ti sei accorto che l’unica differenza tra voi era l’ambito territoriale.
Loro volevano applicare i tuoi programmi solo al nord. Tu li volevi applicare a tutta Italia.
Tu hai finito per dimenticarti sia dei tuoi programmi che dell’Italia intera. Loro si stanno espandendo al sud.
Complimenti!
Anziché mantenere saldi i tuoi principi, che evidentemente tali non erano, anziché portare avanti con più forza i tuoi programmi, li hai abbandonati.
Così, da un giorno all’altro hai mollato il porto sicuro della tua storia politica e sei andato alla deriva.
Non dico neppure che sei andato a sinistra perché non sei convincente neppure in quel ruolo.
Semplicemente ti sei perso alla ricerca delle tue ambizioni.
Non quelle dell’Italia, non quelle dei tuoi elettori, ma solo le tue e, presumo, della tua compagna.
Dispiace constatarlo, ma quando si dice che un grande uomo ha sempre una grande donna vicino, tu sei l’esempio vivente. Il cambio ti ha distrutto.
Senza Daniela hai perso completamente consistenza, spessore, carattere e sei diventato il classico ultracinquantenne con la vanità esaltata dalla ragazzina di turno, che non riesce a vedere oltre le sue brame.
Nella tua cieca presunzione, eri convinto di essere carismatico, che i tuoi fedeli elettori ti avrebbero seguito anche mentre andavi a caccia di consensi nell’intellighentia sinistra, proprio quella che abbiamo sempre disprezzato.
All’inizio ci abbiamo magari provato. Ti stimavano, ti credevamo così intelligente che pensavamo che avessi chissà quale disegno politico.
Certo, ci stupivi. Faticavamo a digerire certe tue esternazioni, ma ti concedevamo ancora fiducia.
In fondo votare te significava comunque avere Berlusconi premier e credevamo che tu stessi studiando come uscire dalla nicchia per diventare un vero leader popolare.
Era inevitabile vederti smussare gli angoli, aprirti ai moderati, liberarti di alcuni scomodi scheletri del tuo passato.
Poi sei andato decisamente oltre e hai rinnegato il tuo passato, i tuoi ideali, i tuoi valori.
Hai rinnegato noi, i tuoi elettori. Ci hai traditi. Molto semplicemente.
E con dolore, con rammarico, se non con vero proprio schifo, come quello che provo adesso, abbiamo smesso di seguirti.
Perché quello che tu non hai capito è che non eravamo pecore che pendevano dalle tue labbra, ma persone che in quei valori credevano davvero.
Una volta che li hai abbandonati, noi abbiamo abbandonato te e ci siamo guardati intorno.
Tanti, i più moderati e liberali, hanno voluto e creduto nel PdL. Altri, i più duri e puri, perso l’originale, si sono naturalmente indirizzati verso la copia, la Lega.
E tu ancora ti stupisci se ha tanti consensi? Fenomeno, erano i tuoi voti quelli e sei stato solo tu a perderli.
Io davvero mi chiedo come uno come te abbia potuto perdersi così per la smania di potere.
Mi domando spesso se sullo scranno più alto di Montecitorio sia la scarsità di ossigeno a farvi uscire di testa.
La Pivetti da suora laica si è trasformata in bomba sexy dello spettacolo, tu e Casini siete diventati due macchiette da avanspettacolo.
Troppi riflettori? Troppo potere?
Perché io posso capire le tue ambizioni, posso capire che tu ti senta frustrato perché speravi che Silvio Highlander mollasse prima. Ci credevo e ci speravo anch’io che tu fossi il suo successore, ma quel posto non è mai stato tuo di diritto. Te lo dovevi guadagnare sul campo.
Nei bei tempi antichi, i bravi generali mostravano in battaglia il loro valore per essere eletti primi consoli. Però lo facevano combattendo per Roma, non per Cartagine. Forse questo ti è sfuggito.
Tu per chi combatti? Tu chi sei? Tu che vuoi?
Perché uno può anche essere disposto a seguirti, ma dovrà pur capire perché.
Smarcarti sempre, segnare la differenza a tutti i costi, essere politicamente corretto, fingerti super partes, può anche essere molto istituzionale, ma non mi trascini dalla tua parte neppure bendata.
Quali sono oggi i tuoi valori? Che programmi hai? Che Italia sogni? Cosa pensi di fare per gli italiani?
Abbi pazienza, ma sono anni che ogni 2x3 ti sento parlare solo di immigrati, di gay e di diritti delle minoranze.
Tutto molto nobile, interessante, ma, per curiosità, hai una qualche vaga idea anche per la maggioranza degli italiani?
Non te ne sento pronunciare una che sia una da tempo immemore.
Solo critiche, ma mai che siano costruttive, propositive.
Sei diventato di una noia mortale.
Vuoi andartene? Buon viaggio!
Non ci mancherai, perché ti abbiamo già perso tanti anni fa.
www.barbaradi.splinder.com
giovedì 15 aprile 2010
COME SI PUO' PERSEGUITARE LA CHIESA (click)
PEDOFILIA
March 28th, 2010 | Categoria: Antidoti
Sulla rassegna «I segni dei tempi» ho trovato questo articolo di Olavo de Carvalho, uscito su «O Globo» il 27 aprile 2002 e tradotto. Merita riportarlo quasi integralmente. «In Grecia e nell’Impero Romano l’uso di minori per la gratificazione sessuale degli adulti era una pratica tollerata e persino apprezzata. In Cina, i bambini castrati erano venduti a ricchi pedofili e questo è stato un commercio legittimo per millenni. Nel mondo islamico, la morale rigida che regola i rapporti tra uomini e donne sono spesso compensati dalla tolleranza circa la pedofilia omosessuale. In alcuni Paesi si è protratta almeno fino all’inizio del XX secolo, rendendo l’Algeria, per esempio, un giardino di delizie per i viaggiatori depravati (leggere le memorie di André Gide, Si le grain ne meurt). In tutti quei luoghi dove la pratica della pedofilia decadde, fu per l’influenza del cristianesimo – e praticamente solo per essa – che ha liberato i bambini da quel terribile giogo. Ma che ha pagato un pedaggio. È stata come una corrente sotterranea di odio e di risentimento che ha attraversato due millenni di storia, aspettando il momento della vendetta. Quel momento è arrivato. Il movimento di induzione alla pedofilia inizia con Sigmund Freud quando crea una versione caricaturale erotizzata dei primi anni di vita, una storia assorbita facilmente dalla cultura del secolo. Da allora la vita familiare, nell’immaginario occidentale, è sempre più stata vista come una pentola a pressione di desideri repressi. (…) Il potenziale politico esplosivo di questa idea è immediatamente utilizzato da Wilhelm Reich, psichiatra comunista che organizza in Germania un movimento per “liberazione sessuale dei giovani”, poi trasferito negli Stati Uniti, dove arriva a costituire, probabilmente, l’idea guida principale per la rivolta degli studenti negli anni ‘60. Nel frattempo, il Rapporto Kinsey, che ora sappiamo essere stato una frode in piena regola, distrugge l’immagine di rispettabilità dei genitori, presentandoli alle nuove generazioni come ipocriti malati o come occulti libertini sessuali.
L’arrivo della pillola e dei preservativi, che i governi stanno cominciando a distribuire allegramente nelle scuole, suona come il tocco di liberazione generale dell’erotismo dei bambini e degli adolescenti. Da allora l’erotizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza si propaga dai circoli accademici e letterari alla cultura delle classi medie e basse attraverso innumerevoli film, spettacoli televisivi, “gruppi di incontro”, corsi sulla pianificazione familiare, annunci e tutto il resto. L’educazione sessuale nelle scuole diventa un incentivo diretto ai bambini e ai giovani a praticare ciò che vedono nei film e in televisione. Ma fin qui la legittimazione della pedofilia è solo insinuata, nascosta, in mezzo a rivendicazioni che la includono come conseguenza implicita. (…) Uno degli autori del Rapporto Kinsey, Wardell Pomeroy, pontifica che l’incesto “spesso può essere utile”.
Con il pretesto della lotta contro la discriminazione, i rappresentanti del movimento gay sono autorizzati a insegnare nelle scuole elementari i benefici della pratica omosessuale. Chiunque vi si opponga è stigmatizzato, perseguitato, licenziato. (…) È impensabile che una rivoluzione mentale tanto ampia, che si è diffusa in tutta la società, miracolosamente non influenzi una parte speciale del pubblico: i sacerdoti e seminaristi. Nel loro caso si è sommato alla pressione esterna uno stimolo speciale, ben calcolato per agire dall’interno. In un libro recente, Goodbye, Good Men, il corrispondente americano Michael S. Rose mostra che da tre decenni organizzazioni gay statunitensi stanno infiltrando loro membri nei dipartimenti di psicologia dei seminari per ostacolare l’ingresso dei candidati vocazionalmente forti e motivati per forzare l’ingresso massivo di omosessuali nel clero. (…) Molestati e sabotati, confusi e indotti, è inevitabile che prima o poi, molti sacerdoti e seminaristi finiscano per cedere al generale degrado nei confronti di bambini e adolescenti. E quando ciò accade, tutti gli esponenti della cultura moderna “liberata”, l’intero establishment “progressista”, tutti i media “avanzati”, in breve, tutte le forze che per cento anni sono andati spogliando i bambini dell’aura protettiva del cristianesimo per consegnarli alla cupidigia degli adulti cattivi, improvvisamente si rallegrano, perché hanno trovato un innocente sul quale scaricare la loro colpa. Cento anni di cultura pedofila, all’improvviso, sono assolti, puliti, riscattati davanti all’Onnipotente: l’unico colpevole di tutto è … il celibato sacerdotale! Il cristianesimo deve pagare adesso per tutto il male che ha impedito loro di fare. (…) Mai la teoria di René Girard sulla persecuzione del capro espiatorio come soluzione per il ripristino delle unità illusoria di una collettività in crisi, ha trovato una conferma così evidente, così ovvia, così universale e allo stesso tempo. (…)».
March 28th, 2010 | Categoria: Antidoti
Sulla rassegna «I segni dei tempi» ho trovato questo articolo di Olavo de Carvalho, uscito su «O Globo» il 27 aprile 2002 e tradotto. Merita riportarlo quasi integralmente. «In Grecia e nell’Impero Romano l’uso di minori per la gratificazione sessuale degli adulti era una pratica tollerata e persino apprezzata. In Cina, i bambini castrati erano venduti a ricchi pedofili e questo è stato un commercio legittimo per millenni. Nel mondo islamico, la morale rigida che regola i rapporti tra uomini e donne sono spesso compensati dalla tolleranza circa la pedofilia omosessuale. In alcuni Paesi si è protratta almeno fino all’inizio del XX secolo, rendendo l’Algeria, per esempio, un giardino di delizie per i viaggiatori depravati (leggere le memorie di André Gide, Si le grain ne meurt). In tutti quei luoghi dove la pratica della pedofilia decadde, fu per l’influenza del cristianesimo – e praticamente solo per essa – che ha liberato i bambini da quel terribile giogo. Ma che ha pagato un pedaggio. È stata come una corrente sotterranea di odio e di risentimento che ha attraversato due millenni di storia, aspettando il momento della vendetta. Quel momento è arrivato. Il movimento di induzione alla pedofilia inizia con Sigmund Freud quando crea una versione caricaturale erotizzata dei primi anni di vita, una storia assorbita facilmente dalla cultura del secolo. Da allora la vita familiare, nell’immaginario occidentale, è sempre più stata vista come una pentola a pressione di desideri repressi. (…) Il potenziale politico esplosivo di questa idea è immediatamente utilizzato da Wilhelm Reich, psichiatra comunista che organizza in Germania un movimento per “liberazione sessuale dei giovani”, poi trasferito negli Stati Uniti, dove arriva a costituire, probabilmente, l’idea guida principale per la rivolta degli studenti negli anni ‘60. Nel frattempo, il Rapporto Kinsey, che ora sappiamo essere stato una frode in piena regola, distrugge l’immagine di rispettabilità dei genitori, presentandoli alle nuove generazioni come ipocriti malati o come occulti libertini sessuali.
L’arrivo della pillola e dei preservativi, che i governi stanno cominciando a distribuire allegramente nelle scuole, suona come il tocco di liberazione generale dell’erotismo dei bambini e degli adolescenti. Da allora l’erotizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza si propaga dai circoli accademici e letterari alla cultura delle classi medie e basse attraverso innumerevoli film, spettacoli televisivi, “gruppi di incontro”, corsi sulla pianificazione familiare, annunci e tutto il resto. L’educazione sessuale nelle scuole diventa un incentivo diretto ai bambini e ai giovani a praticare ciò che vedono nei film e in televisione. Ma fin qui la legittimazione della pedofilia è solo insinuata, nascosta, in mezzo a rivendicazioni che la includono come conseguenza implicita. (…) Uno degli autori del Rapporto Kinsey, Wardell Pomeroy, pontifica che l’incesto “spesso può essere utile”.
Con il pretesto della lotta contro la discriminazione, i rappresentanti del movimento gay sono autorizzati a insegnare nelle scuole elementari i benefici della pratica omosessuale. Chiunque vi si opponga è stigmatizzato, perseguitato, licenziato. (…) È impensabile che una rivoluzione mentale tanto ampia, che si è diffusa in tutta la società, miracolosamente non influenzi una parte speciale del pubblico: i sacerdoti e seminaristi. Nel loro caso si è sommato alla pressione esterna uno stimolo speciale, ben calcolato per agire dall’interno. In un libro recente, Goodbye, Good Men, il corrispondente americano Michael S. Rose mostra che da tre decenni organizzazioni gay statunitensi stanno infiltrando loro membri nei dipartimenti di psicologia dei seminari per ostacolare l’ingresso dei candidati vocazionalmente forti e motivati per forzare l’ingresso massivo di omosessuali nel clero. (…) Molestati e sabotati, confusi e indotti, è inevitabile che prima o poi, molti sacerdoti e seminaristi finiscano per cedere al generale degrado nei confronti di bambini e adolescenti. E quando ciò accade, tutti gli esponenti della cultura moderna “liberata”, l’intero establishment “progressista”, tutti i media “avanzati”, in breve, tutte le forze che per cento anni sono andati spogliando i bambini dell’aura protettiva del cristianesimo per consegnarli alla cupidigia degli adulti cattivi, improvvisamente si rallegrano, perché hanno trovato un innocente sul quale scaricare la loro colpa. Cento anni di cultura pedofila, all’improvviso, sono assolti, puliti, riscattati davanti all’Onnipotente: l’unico colpevole di tutto è … il celibato sacerdotale! Il cristianesimo deve pagare adesso per tutto il male che ha impedito loro di fare. (…) Mai la teoria di René Girard sulla persecuzione del capro espiatorio come soluzione per il ripristino delle unità illusoria di una collettività in crisi, ha trovato una conferma così evidente, così ovvia, così universale e allo stesso tempo. (…)».
sabato 10 aprile 2010
sabato 3 aprile 2010
mercoledì 17 marzo 2010
mercoledì 27 gennaio 2010
Il fascismo e gli ebrei
Contrariamente a quanto vuole una vulgata diffusa, il fascismo in quanto tale non perseguitò realmente gli ebrei, ed anzi prima delle leggi razziali numerosissimi ebrei aderirono al fascismo stesso. Anche dopo il 1939, Mussolini ed i fascisti non promossero alcun piano di sterminio nei loro confronti, ed anzi riuscirono a salvare molte migliaia di ebrei dalle deportazioni naziste.
Ben diverso fu invece il comportamento di dittatori comunisti, come Stalin o Tito. Il primo era un antisemita feroce, e progettava lo sterminio e la deportazione di tutti gli ebrei sovietici, ed ordinò personalmente l’eliminazione di molti di loro. Tito fece uccidere diverse migliaia di ebrei, alcuni dei quali dovevano la vita proprio all’esercito italiano ed ad ordini di protezione di Mussolini.
IL RAPPORTO FRA FASCISMO ED EBREI SINO ALLE LEGGI RAZZIALI DEL 1938
Dal nascita del fascismo, il 23 marzo del 1919, sino alle leggi razziali del 1938, i rapporti fra italiani di religione ebraica ed il movimento fascista furono nel complesso più che buoni. Basti dire che la percentuale di iscritti al PNF toccava il 10% dell’intera popolazione ebraica italiana: una quota superiore a quella media dei cattolici. L'anno dopo la stipula dei Patti Lateranensi fu adottata la cosiddetta Legge Falco sulle comunità israelitiche italiane, giudicata favorevolmente dagli stessi ebrei italiani
Numerosi ebrei ricoprirono alte cariche sotto il fascismo. Aldo Finzi, politico, per un certo tempo vicino a Gabriele D'Annunzio nell'Impresa di Fiume, divenne sottosegretario agli Interni del gabinetto diretto da Benito Mussolini e membro del Gran Consiglio Fascista. Dante Almansi ricoprì il ruolo di vice capo della polizia. Guido Jung venne nominato ministro delle Finanze fra il 1932 al 1935
Due generali della Milizia fascista furono ebrei: Maurizio Ravà, che divenne anche vicegovernatore della Libia e governatore della Somalia, e Giorgio Liuzzi, che fu anche uno dei comandanti del corpo italiano di spedizione in Spagna.
Numerosi furono gli ebrei combattenti per il fascismo. Durante scontri con esponenti della sinistra violenta, avvenuti fra il 1919 e il 1922, morirono tre ebrei: Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi e Bruno Mondolfo, poi proclamati “martiri fascisti”. Non meno di trecentocinquanta ebrei parteciparono alla marcia su Roma, e numerosi furono i volontari ebrei nelle guerre di Etiopia e Spagna, con diversi decorati, come Alberto Liuzzi, che ottenne la medaglia d’oro al valor militare.
I profughi ebrei tedeschi, dopo l'avvento del nazismo, vennero accolti senza ostacolo alcuno, ed anzi ottennero da Mussolini condizioni molto favorevoli d’ingresso, mentre altri paesi, come gli Usa od il Regno Unito, ponevano delle restrizioni notevoli all’arrivo d’ebrei tedeschi in fuga.
IL RAPPORTO FRA FASCISMO ED EBREI SINO DOPO LE LEGGI RAZZIALI DEL 1938
1. Le leggi razziali italiane imposte da Hitler. Mussolini non era un antisemita
Le leggi razziali furono sostanzialmente un’imposizione da parte del potente alleato germanico, e trovarono l’approvazione soltanto di una piccola minoranza dei fascisti stessi. Mussolini medesimo negli anni passati si era più volte ed apertamente dichiarato contrario all’antisemitismo ed al razzismo biologico, ed ebbe modo d’affermarlo anche in seguito, durante gli anni della RSI.
Mussolini aveva dichiarato, dalle colonne del Popolo d’Italia (1920): “In Italia non si fa assolutamente nessuna differenza fra ebrei e non ebrei; in tutti i campi, dalla religione, alla politica, alle armi, all’economia . . . la nuova Sionne, gli ebrei italiani, l’hanno qui, in questa nostra adorabile terra.” In seguito, in un suo discorso alla Camera, Mussolini dichiarò (13 maggio 1929): “Questo carattere sacro di Roma noi lo rispettiamo. Ma è ridicolo pensare, come fu detto, che si dovessero chiudere le sinagoghe o la sinagoga. Gli ebrei sono a Roma dai tempi dei Re; forse fornirono gli abiti dopo il ratto delle Sabine. Erano cinquantamila ai tempi di Augusto e chiesero di piangere sulla salma di Giulio Cesare. Rimarranno indisturbati” . Ancora, in un suo discorso in Piazza Prefettura del 6 settembre del ’34, lo statista romagnolo parlò di “trenta secoli di storia che ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe, sostenute da progenie di gente che ignorava la scrittura nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio, Augusto”
Nel febbraio del 1944, parlando con il professor George Zachariae, il suo consulente medico, Mussolini respinse le teorie antisemite naziste:: “Io non sono un antisemita […]Non posso approvare la maniera con cui è stato risolto in Germania il problema ebraico, perché i metodi adottati non sono conciliabili con la libera vita del mondo civile e ridondano a danno dell’onore tedesco“.
2. Limitazioni delle leggi razziali italiane
Le leggi razziali italiane non erano assolutamente paragonabili a quelle tedesche, ma risultano molto più moderate. Mussolini disse che dovevano “discriminare, non perseguitare”. Esse inoltre non contemplavano alcun progetto di sterminio, né mai avvennero stragi di ebrei ad opera di fascisti.
E’ bene anche ricordare che le leggi razziali non si applicavano a tutti gli ebrei, ma prevedevano:
“Nessuna discriminazione sarà applicata, escluso in ogni caso l’insegnamento
nelle scuole di ogni ordine e grado, nei confronti di ebrei di cittadinanza
italiana, quando non abbiano per altri motivi demeritato, i quali appartengono
a:
• famiglie di Caduti nelle quattro guerre sostenute dall’Italia in questo
secolo; libica, mondiale, etiopica, spagnola;
• famiglie dei volontari di guerra nelle guerre libica, mondiale, etiopica,
spagnola;
• famiglie di combattenti delle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola,
insigniti della croce al merito di guerra;
• famiglie dei Caduti per la Causa fascista;
• famiglie dei mutilati, invalidi, feriti della Causa fascista;
• famiglie di Fascisti iscritti al Partito negli anni 1919, 1920, 1921, 1922 e
nel secondo semestre del 1924 e famiglie di legionari fiumani.
• famiglie aventi eccezionali benemerenze che saranno accertate da apposita
commissione.”
Ancora, la loro applicazione fu scientemente osteggiata od impedita da fascisti stessi, per la sostanziale assenza di antisemitismo all’interno del PNF. Un attento storico dell’”Olocausto ebraico“, Mondekay Poldiel, egli stesso ebreo, ha scritto: “l’amministrazione fascista e quella politica, quella militare e quella civile si diedero da fare in ogni modo per difendere gli ebrei, per fare in modo che quelle leggi rimanessero lettera morta“. La stessa idea compare nel classico studio di Raul Hillber, “La distruzione degli ebrei d’Europa”: le leggi razziali in Italia rimasero per lo più lettera morta, perché i fascisti stessi non volevano applicarle.
LA PROTEZIONE OFFERTA DAL FASCISMO AGLI EBREI DALLE DEPORTAZIONI NAZISTE
Scrive Rosa Paini, ebrea, nel suo libro “I sentieri della speranza“: “Era la fine del 1939 e nasceva in Italia la “Delegazione Assistenza Emigrati” (DELASEM), un organizzazione ebraica che avrebbe salvato migliaia di israeliti profughi dai Paesi dell’Est Europeo e, in particolare, dalla Germania e dai territori che i nazisti andavano occupando (. . . ) “. La DELASEM nacque il 1 dicembre 1939, come associazione autorizzata dal governo fascista, per iniziativa di Dante Almansi e Lelio Vittorio
Valobra, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Unione delle comunità israelitiche in Italia. Scopo ufficiale era quello di assistere i correligionari stranieri allora profughi e internati in Italia ed agevolare l’emigrazione di almeno una parte di essi. […] gli ebrei stranieri rifugiatisi in Italia risultavano nella maggior parte privi dei più elementari mezzi di sussistenza. Tra il 1939 e il 1943 la DELASEM fu capace di assistere oltre 9000 rifugiati ebrei e di aiutare 5000 di essi di svariata nazionalità a lasciare l’Italia e raggiungere paesi neutrali (in primo luogo la Spagna), salvando loro la vita. Nel 1942 fu costituita a Firenze la “DELASEM dei Piccoli” con lo scopo specifico di dare assistenza ai bambini internati, offrendo loro libri, assistenza medica, giocattoli e vestiti. […] A Villa Emma a Nonantola il delegato DELASEM Mario Finzi in collaborazione con don Arrigo Beccari e il medico Giuseppe Moreale organizzò un orfanotrofio modello che accolse per circa un anno un gruppo di un centinaio di bambini dalla Germania e dai Balcani.”
Diversi funzionari fascisti durante la RSI protessero gli ebrei dalla deportazione: Perlasca (fascista), Guelfo Zamboni (console fascista a Salonicco), Giuseppe Castruccio (anch’egli console a Salonicco), Palatucci (questore di Fiume). Ognuno di questi salvò dalla deportazione migliaia e migliaia di ebrei. Costoro però non furono affatto dei casi isolati: un elenco completo dei fascisti che difesero gli ebrei negli anni 1943-1945 sarebbe lunghissimo, e si estenderebbe per migliaia di nomi. Bastino alcuni esempi.
Ferdinando Natoni, personalità fascista, si fece incontro da solo alle SS entrate nel ghetto di Roma per il rastrellamento, e richiese, ed ottenne, che se ne andassero, rilasciando anzi alcuni ebrei già catturati. Persino Roberto Farinacci, considerato uno dei fascisti più vicini al nazismo, nascose nella sua tipografia due ebrei: Emanuele Tornagli e la signora Iole Foà. Anche Giorgio Almirante, capo di gabinetto del ministro Mezzasoma, poi segretario storico del MSI, nascose in casa sua per due anni un’intera famiglia di ebrei torinesi, quella dell’ingegner Emanuele Levi. Mussolini in persona ordinò l’arresto, durante la RSI, di un gruppo di estremisti che consegnava ebrei ai Tedeschi in vista della deportazione.
UNA GRANDE OPERAZIONE DI SALVATAGGIO DI EBREI DIRETTA DA MUSSOLINI
1. La deportazione degli ebrei in Jugoslavia. Il ruolo degli alleati slavi dei Tedeschi
Come era già accaduto negli altri paesi dell'Europa orientale entrati nell'orbita del Terzo Reich, dopo il 1941 anche in Jugoslavia erano giunti gli «esperti» della VOMI (Volksdeutsche Mittelstelle), l'organizzazione creata da Alfred Rosenberg, il teorico del razzismo hitleriano, per procedere «alla ricerca e al richiamo del sangue tedesco». Questo programma si basava sull’idea, pseudo-storica e pseudo-scientifica, di una “razza germanica”, i cui membri si sarebbero dispersi in Europa, pur conservando al massimo la propria purezza nella “Deutschland”. Pertanto, era possibile rintracciare coloro che biologicamente appartenevano a questo ceppo razziale.
Il compito di questi pseudo-scienziati nazisti consisteva nell'individuare i «puri ariani di origine germanica», ritenuti mescolati nella popolazione locale, al fine di selezionarli e provvedere alla loro ri-germanizzazione. Per raggiungere il loro scopo, i membri del VOMI facevano ricorso a complesse procedure: esame dell'albero genealogico a partire dal 1785, studio delle correnti di emigrazione, e poi naturalmente aspetto fisico, misurazioni antropometriche, specie del viso e della scatola cranica ecc..
Incoraggiati dal dittatore croato Ante Pavelic che rivendicava per il suo popolo, del tutto assurdamente, un'«origine runica» (sic), gli «esperti» del VOMI raccolsero in Croazia un gran numero di presunti “Volksdeutsche”.
Essi ottennero di aggiungere al giuramento di fedeltà a Pavelic anche quello di fedeltà al Fuhrer e di appuntare sull'uniforme uno speciale distintivo con la croce uncinata.
Hitler stesso diede un impulso tale programma, poiché egli, da buon Austriaco, ambiva ad una germanizzazione dei territori sloveno e croato un tempo parte dell'impero asburgico.
L'appoggio di Pavelic alla ricerca di presunti membri della "razza germanica" fra i Croati aveva anche una precisa funzione nazionalistica, (per quanto possa apparire paradossale, essendo il popolo croato notoriamente slavo), che era rivolta sia contro i Serbi, sia contro gli Italiani. Lo stato croato di Pavelic inoltre si distinse per particolare ferocia nei confronti degli Ebrei, non inferiore a quella del III Reich stesso.
2. Aiuto italiano agli Ebrei perseguitati da nazisti e nazionalisti jugoslavi
Le operazioni di rastrellamento e deportazione degli Ebrei in Venezia Giulia e Dalmazia, oltre che nei territori di Slovenia e Croazia, furono appoggiate dai regimi nazionalistici locali e dai movimenti militari che li servivano: domobranci e belagardisti Sloveni, ustascia Croati diedero un grosso aiuto ai nazisti nella “soluzione finale”.
In particolare, lo stato croato di Pavelic rappresentò un caso unico fra i satelliti di Hitler, poiché costituì propri autonomi campi di concentramento per Ebrei (come quello famigerato di Jasenovac), come altrimenti soltanto il III Reich aveva fatto.
Gli Italiani, finché rimasero in Jugoslavia, tentarono in linea di principio di proteggere le popolazioni civili coinvolte in una guerra al contempo esterna ed interna. Ancora nel luglio del 1941, l'ambasciatore italiano a Zagabria, Antonio Casertano, informava Mussolini che si registravano continui incidenti fra italiani da una parte, tedeschi e ustascia dall'altra, «perché le nostre truppe danno evidenti e continue prove di simpatia nei confronti degli ebrei e dei serbi proteggendoli dalle accanite persecuzioni».
Da parte sua, il generale Ambrosio, comandante della 2a Armata, riferiva al comando supremo che “dal mese di giugno in poi la presenza delle truppe italiane è malvista soprattutto perché rappresentano uno scomodo testimone dei selvaggi massacri di cui si vergognano gli stessi croati”.
3. Lo studio di Shelah Menachem
E’ importante al riguardo il lavoro dell'ebreo dàlmata Menachem Shelah: "Un debito di gratitudine Storia dei rapporti tra E.I. e gli ebrei in Dalmazia (1941 - 1943)". Il Menachem, originario della Dalmazia ed in seguito divenuto professore di storia contemporanea all’università di Gerusalemme, spiega come il Regio Esercito salvò una moltitudine di ebrei dàlmati (oltre 10.000), che altrimenti sarebbero stati massacrati dagli ustascia. Non soltanto gli Ebrei furono salvati dal Regio Esercito, ma anche un gran numero di Serbi, scampati alle stragi degli ustascia grazie alla protezione offerta dall’esercito italiano.
Si riporta qui un brano dell’ “Introduzione” dell’opera di Menachem, scritta da Antonello Biagini, ordinario di storia dell’europa orientale a Roma:
“proprio nell'esaltazione del ricordo di quanti hanno tentato di difendere il più a lungo possibile i gruppi di ebrei che avevano trovato rifugio sotto la bandiera italiana - dal governatore Bastianini, al generale Roatta, ai diplomatici Pietromarchi e Ducci fino al ministro Ciano - che il lavoro di Menachem Shelah si viene svolgendo seguendo il cammino segnato dall'ampia documentazione conservata nell'Archivio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito e del Ministero Affari Esteri in Roma. Per l'originalità e attendibilità delle fonti cui attinge, questo volume, che ben si inserisce nella ricca letteratura storica e memorialistica jugoslava e italiana relativa all'Olocausto nei territori jugoslavi, offre una sua risposta ai quesiti che ancor oggi gli studiosi si pongono dinanzi al fatto che, mentre in altri paesi alleati o occupati dalle truppe del Terzo Reich le dimensioni dello sterminio furono più elevate, in Italia e nelle sue zone di occupazione la fase più cruenta della persecuzione antiebraica abbracciò solo i venti mesi che separano 1'8 settembre 1943 dalla fine del conflitto. 1'A. indica nell'opera di solidarietà svolta dal personale diplomatico e dall'esercito italiano - la sola risposta possibile. Mosso perciò dal desiderio di rendere un pubblico atto di ringraziamento a quanti, in quei lontani e bui anni di guerra, salvarono la sua vita e quella di altre centinaia di ebrei, Menachem Shelah riesce a destreggiarsi in una materia così spinosa e complessa”
Il Menachem, ebreo dàlmata poi divenuto professore di storia contemporanea all’università di Gerusalemme, riporta una gran mole di dati interessanti e positivi sulla presenza italiana nei Balcani Egli attesta la difesa delle popolazioni civili serbe dalle stragi compiute dagli ustascia croati:
Parlando di un’area della Dalmazia, il Menachem scrive che “vi vivevano in promiscuità serbi di religione greco-ortodossa e croati cattolici. […] Con l'avvento al potere degli ustascia la situazione cambiò: teste calde croate, sia del posto sia venute da fuori, attaccarono gli insediamenti serbi, saccheggiando e uccidendo con una ferocia inaudita. Le case serbe furono arse, i beni saccheggiati, uomini, donne e bambini messi a morte con terribile efferatezza. Quegli stessi croati che fino a quel momento avevano salutato cortesemente, anche se freddamente, i loro vicini serbi si univano ora all'orgia di sangue. […] I pochi militari italiani restati nella zona erano esterrefatti, e l'orrore da essi provato vedendosi costretti ad assistere a scene così inumane è documentato dalle decine di strazianti rapporti inviati in quel periodo al Comando e a Roma. In uno di tali documenti un ufficiale italiano racconta che dopo che la sua unità ebbe consegnato ai croati il villaggio in cui era accampata, apparve un prete croato che disse di essere il nuovo comandante. L'italiano chiese quali ordini il «nuovo comandante» avesse ricevuto dai suoi superiori e l'ustascia rispose: «Un solo ed unico ordine: sgozzare tutti i cani serbi». L'ufficiale italiano, che in un primo momento aveva creduto che quello volesse scherzare, fu subito inorridito vedendo che i croati già avevano iniziato il macello. In breve tempo tutti i serbi del posto furono uccisi. In quel periodo, gli italiani cercarono di proteggere contro gli ustascia i serbi e gli ebrei locali e in mancanza di direttive ufficiali, i comandi delle diverse unità militari operarono di propria spontanea” (Menachem, Ibidem, p. 41)
L’esercito italiano quindi prestò aiuto e protezione ai Serbi dinanze alle pratiche genocide dei Croati (che sterminarono centinaia di migliaia di Serbi nel conflitto, per lo più civili), sia sulla base di direttive precise delle proprie autorità politiche e militari, sia per iniziativa spontanea dei comandanti locali.
Il Menachem ricorda come gli Italiani, che stavano cercando in ogni modo di salvare gli Ebrei dallo sterminio, furono costretti ad internare alcuni di loro ad Arbe, fingendo di volerli poi deportare nei lager tedeschi. Si trattò di una misura strumentale all'inganno delle autorità germaniche, ma che non comportò perdite di vite umane fra la popolazione ebraica. Il Menachem dedica un intero capitolo al campo di Arbe, ed al buon trattamento ivi ricevuto. “L'internamento degli ebrei nel campo di Arbe provocò, senza dubbio, un peggioramento della loro situazione e inflisse loro un grave colpo. Prima la stragrande maggioranza dei profughi era alloggiata in alberghi, in pensioni e in case private, mentre ora essi si trovarono tutti ammucchiati in un campo approntato in gran fretta, carente di strutture atte ad ospitare a lungo una folla in cui il numero dei vecchi, delle donne e dei bambini era molto elevato. Di ciò non si devono incolpare gli italiani, che avevano fatto tutto il possibile per migliorare le condizioni esistenti nel campo e soprattutto non dobbiamo dimenticare di porre il campo di Arbe a confronto con «i migliorí» tra i Lager tedeschi o i campi croati. Anche ad Arbe l'atteggiamento tenuto dalle autorità nei riguardi degli internati fu cordiale e i comandi preposti al campo fecero tutto il possibile per alleviare le sofferenze dei loro «prigionieri» senza mai interferire nella vita interna del campo, la cui direzione era affidata a persone elette dagli stessi internati fra di loro.”
E’ importante inoltre ricordare ciò che il Menachem osserva sul ruolo dei vertici del fascismo in tali decisioni. Sulla base di un’amplissima documentazione di documenti ufficiali, lettere, telegrammi ecc. egli può dimostrare come Mussolini, il ministro degli Esteri Ciani e molte altre altissime personalità fasciste fossero a conoscenza diretta del salvataggio degli ebrei compiuto ad opera dell’esercito, ed anzi si fossero impegnati personalmente affinché avesse buon fine. Mussolini in particolare si preoccupò di salvare il maggior numero possibile di ebrei dalla deportazione nei lager, e diede precise disposizioni ai comandanti militari della Dalmazia.
Si deve quindi concludere che il fascismo in quanto tale non progettò mai lo sterminio degli ebrei, e neppure li perseguitò, tranne che nel periodo delle leggi razziali, approvate su imposizione tedesca e contrastate dalla stragrande maggioranza dei fascisti, tanto che lo stesso Mussolini evitò di farle applicare con rigore. Inoltre, i fascisti salvarono un gran numero di ebrei dalla deportazione.
Sull'argomento, esiste un'amplissima bibliografia. Basti ricordare Renzo De Felice (il maggior storico del fascismo), Leon Poliakov e Raul Hillberg (due fondamentali storici sull'antisemitismo e l'olaucasto), Shelah Menachem, lo storico israeliano che ha documentato il salvataggio di migliaia di ebrei ad opera di Mussolini e dell'esercito italiano. Sono solo una parte dei molti storici che hanno approfondito l'argomento qui presentato succintamente.
Ben diverso fu invece il comportamento di dittatori comunisti, come Stalin o Tito. Il primo era un antisemita feroce, e progettava lo sterminio e la deportazione di tutti gli ebrei sovietici, ed ordinò personalmente l’eliminazione di molti di loro. Tito fece uccidere diverse migliaia di ebrei, alcuni dei quali dovevano la vita proprio all’esercito italiano ed ad ordini di protezione di Mussolini.
IL RAPPORTO FRA FASCISMO ED EBREI SINO ALLE LEGGI RAZZIALI DEL 1938
Dal nascita del fascismo, il 23 marzo del 1919, sino alle leggi razziali del 1938, i rapporti fra italiani di religione ebraica ed il movimento fascista furono nel complesso più che buoni. Basti dire che la percentuale di iscritti al PNF toccava il 10% dell’intera popolazione ebraica italiana: una quota superiore a quella media dei cattolici. L'anno dopo la stipula dei Patti Lateranensi fu adottata la cosiddetta Legge Falco sulle comunità israelitiche italiane, giudicata favorevolmente dagli stessi ebrei italiani
Numerosi ebrei ricoprirono alte cariche sotto il fascismo. Aldo Finzi, politico, per un certo tempo vicino a Gabriele D'Annunzio nell'Impresa di Fiume, divenne sottosegretario agli Interni del gabinetto diretto da Benito Mussolini e membro del Gran Consiglio Fascista. Dante Almansi ricoprì il ruolo di vice capo della polizia. Guido Jung venne nominato ministro delle Finanze fra il 1932 al 1935
Due generali della Milizia fascista furono ebrei: Maurizio Ravà, che divenne anche vicegovernatore della Libia e governatore della Somalia, e Giorgio Liuzzi, che fu anche uno dei comandanti del corpo italiano di spedizione in Spagna.
Numerosi furono gli ebrei combattenti per il fascismo. Durante scontri con esponenti della sinistra violenta, avvenuti fra il 1919 e il 1922, morirono tre ebrei: Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi e Bruno Mondolfo, poi proclamati “martiri fascisti”. Non meno di trecentocinquanta ebrei parteciparono alla marcia su Roma, e numerosi furono i volontari ebrei nelle guerre di Etiopia e Spagna, con diversi decorati, come Alberto Liuzzi, che ottenne la medaglia d’oro al valor militare.
I profughi ebrei tedeschi, dopo l'avvento del nazismo, vennero accolti senza ostacolo alcuno, ed anzi ottennero da Mussolini condizioni molto favorevoli d’ingresso, mentre altri paesi, come gli Usa od il Regno Unito, ponevano delle restrizioni notevoli all’arrivo d’ebrei tedeschi in fuga.
IL RAPPORTO FRA FASCISMO ED EBREI SINO DOPO LE LEGGI RAZZIALI DEL 1938
1. Le leggi razziali italiane imposte da Hitler. Mussolini non era un antisemita
Le leggi razziali furono sostanzialmente un’imposizione da parte del potente alleato germanico, e trovarono l’approvazione soltanto di una piccola minoranza dei fascisti stessi. Mussolini medesimo negli anni passati si era più volte ed apertamente dichiarato contrario all’antisemitismo ed al razzismo biologico, ed ebbe modo d’affermarlo anche in seguito, durante gli anni della RSI.
Mussolini aveva dichiarato, dalle colonne del Popolo d’Italia (1920): “In Italia non si fa assolutamente nessuna differenza fra ebrei e non ebrei; in tutti i campi, dalla religione, alla politica, alle armi, all’economia . . . la nuova Sionne, gli ebrei italiani, l’hanno qui, in questa nostra adorabile terra.” In seguito, in un suo discorso alla Camera, Mussolini dichiarò (13 maggio 1929): “Questo carattere sacro di Roma noi lo rispettiamo. Ma è ridicolo pensare, come fu detto, che si dovessero chiudere le sinagoghe o la sinagoga. Gli ebrei sono a Roma dai tempi dei Re; forse fornirono gli abiti dopo il ratto delle Sabine. Erano cinquantamila ai tempi di Augusto e chiesero di piangere sulla salma di Giulio Cesare. Rimarranno indisturbati” . Ancora, in un suo discorso in Piazza Prefettura del 6 settembre del ’34, lo statista romagnolo parlò di “trenta secoli di storia che ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe, sostenute da progenie di gente che ignorava la scrittura nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio, Augusto”
Nel febbraio del 1944, parlando con il professor George Zachariae, il suo consulente medico, Mussolini respinse le teorie antisemite naziste:: “Io non sono un antisemita […]Non posso approvare la maniera con cui è stato risolto in Germania il problema ebraico, perché i metodi adottati non sono conciliabili con la libera vita del mondo civile e ridondano a danno dell’onore tedesco“.
2. Limitazioni delle leggi razziali italiane
Le leggi razziali italiane non erano assolutamente paragonabili a quelle tedesche, ma risultano molto più moderate. Mussolini disse che dovevano “discriminare, non perseguitare”. Esse inoltre non contemplavano alcun progetto di sterminio, né mai avvennero stragi di ebrei ad opera di fascisti.
E’ bene anche ricordare che le leggi razziali non si applicavano a tutti gli ebrei, ma prevedevano:
“Nessuna discriminazione sarà applicata, escluso in ogni caso l’insegnamento
nelle scuole di ogni ordine e grado, nei confronti di ebrei di cittadinanza
italiana, quando non abbiano per altri motivi demeritato, i quali appartengono
a:
• famiglie di Caduti nelle quattro guerre sostenute dall’Italia in questo
secolo; libica, mondiale, etiopica, spagnola;
• famiglie dei volontari di guerra nelle guerre libica, mondiale, etiopica,
spagnola;
• famiglie di combattenti delle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola,
insigniti della croce al merito di guerra;
• famiglie dei Caduti per la Causa fascista;
• famiglie dei mutilati, invalidi, feriti della Causa fascista;
• famiglie di Fascisti iscritti al Partito negli anni 1919, 1920, 1921, 1922 e
nel secondo semestre del 1924 e famiglie di legionari fiumani.
• famiglie aventi eccezionali benemerenze che saranno accertate da apposita
commissione.”
Ancora, la loro applicazione fu scientemente osteggiata od impedita da fascisti stessi, per la sostanziale assenza di antisemitismo all’interno del PNF. Un attento storico dell’”Olocausto ebraico“, Mondekay Poldiel, egli stesso ebreo, ha scritto: “l’amministrazione fascista e quella politica, quella militare e quella civile si diedero da fare in ogni modo per difendere gli ebrei, per fare in modo che quelle leggi rimanessero lettera morta“. La stessa idea compare nel classico studio di Raul Hillber, “La distruzione degli ebrei d’Europa”: le leggi razziali in Italia rimasero per lo più lettera morta, perché i fascisti stessi non volevano applicarle.
LA PROTEZIONE OFFERTA DAL FASCISMO AGLI EBREI DALLE DEPORTAZIONI NAZISTE
Scrive Rosa Paini, ebrea, nel suo libro “I sentieri della speranza“: “Era la fine del 1939 e nasceva in Italia la “Delegazione Assistenza Emigrati” (DELASEM), un organizzazione ebraica che avrebbe salvato migliaia di israeliti profughi dai Paesi dell’Est Europeo e, in particolare, dalla Germania e dai territori che i nazisti andavano occupando (. . . ) “. La DELASEM nacque il 1 dicembre 1939, come associazione autorizzata dal governo fascista, per iniziativa di Dante Almansi e Lelio Vittorio
Valobra, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Unione delle comunità israelitiche in Italia. Scopo ufficiale era quello di assistere i correligionari stranieri allora profughi e internati in Italia ed agevolare l’emigrazione di almeno una parte di essi. […] gli ebrei stranieri rifugiatisi in Italia risultavano nella maggior parte privi dei più elementari mezzi di sussistenza. Tra il 1939 e il 1943 la DELASEM fu capace di assistere oltre 9000 rifugiati ebrei e di aiutare 5000 di essi di svariata nazionalità a lasciare l’Italia e raggiungere paesi neutrali (in primo luogo la Spagna), salvando loro la vita. Nel 1942 fu costituita a Firenze la “DELASEM dei Piccoli” con lo scopo specifico di dare assistenza ai bambini internati, offrendo loro libri, assistenza medica, giocattoli e vestiti. […] A Villa Emma a Nonantola il delegato DELASEM Mario Finzi in collaborazione con don Arrigo Beccari e il medico Giuseppe Moreale organizzò un orfanotrofio modello che accolse per circa un anno un gruppo di un centinaio di bambini dalla Germania e dai Balcani.”
Diversi funzionari fascisti durante la RSI protessero gli ebrei dalla deportazione: Perlasca (fascista), Guelfo Zamboni (console fascista a Salonicco), Giuseppe Castruccio (anch’egli console a Salonicco), Palatucci (questore di Fiume). Ognuno di questi salvò dalla deportazione migliaia e migliaia di ebrei. Costoro però non furono affatto dei casi isolati: un elenco completo dei fascisti che difesero gli ebrei negli anni 1943-1945 sarebbe lunghissimo, e si estenderebbe per migliaia di nomi. Bastino alcuni esempi.
Ferdinando Natoni, personalità fascista, si fece incontro da solo alle SS entrate nel ghetto di Roma per il rastrellamento, e richiese, ed ottenne, che se ne andassero, rilasciando anzi alcuni ebrei già catturati. Persino Roberto Farinacci, considerato uno dei fascisti più vicini al nazismo, nascose nella sua tipografia due ebrei: Emanuele Tornagli e la signora Iole Foà. Anche Giorgio Almirante, capo di gabinetto del ministro Mezzasoma, poi segretario storico del MSI, nascose in casa sua per due anni un’intera famiglia di ebrei torinesi, quella dell’ingegner Emanuele Levi. Mussolini in persona ordinò l’arresto, durante la RSI, di un gruppo di estremisti che consegnava ebrei ai Tedeschi in vista della deportazione.
UNA GRANDE OPERAZIONE DI SALVATAGGIO DI EBREI DIRETTA DA MUSSOLINI
1. La deportazione degli ebrei in Jugoslavia. Il ruolo degli alleati slavi dei Tedeschi
Come era già accaduto negli altri paesi dell'Europa orientale entrati nell'orbita del Terzo Reich, dopo il 1941 anche in Jugoslavia erano giunti gli «esperti» della VOMI (Volksdeutsche Mittelstelle), l'organizzazione creata da Alfred Rosenberg, il teorico del razzismo hitleriano, per procedere «alla ricerca e al richiamo del sangue tedesco». Questo programma si basava sull’idea, pseudo-storica e pseudo-scientifica, di una “razza germanica”, i cui membri si sarebbero dispersi in Europa, pur conservando al massimo la propria purezza nella “Deutschland”. Pertanto, era possibile rintracciare coloro che biologicamente appartenevano a questo ceppo razziale.
Il compito di questi pseudo-scienziati nazisti consisteva nell'individuare i «puri ariani di origine germanica», ritenuti mescolati nella popolazione locale, al fine di selezionarli e provvedere alla loro ri-germanizzazione. Per raggiungere il loro scopo, i membri del VOMI facevano ricorso a complesse procedure: esame dell'albero genealogico a partire dal 1785, studio delle correnti di emigrazione, e poi naturalmente aspetto fisico, misurazioni antropometriche, specie del viso e della scatola cranica ecc..
Incoraggiati dal dittatore croato Ante Pavelic che rivendicava per il suo popolo, del tutto assurdamente, un'«origine runica» (sic), gli «esperti» del VOMI raccolsero in Croazia un gran numero di presunti “Volksdeutsche”.
Essi ottennero di aggiungere al giuramento di fedeltà a Pavelic anche quello di fedeltà al Fuhrer e di appuntare sull'uniforme uno speciale distintivo con la croce uncinata.
Hitler stesso diede un impulso tale programma, poiché egli, da buon Austriaco, ambiva ad una germanizzazione dei territori sloveno e croato un tempo parte dell'impero asburgico.
L'appoggio di Pavelic alla ricerca di presunti membri della "razza germanica" fra i Croati aveva anche una precisa funzione nazionalistica, (per quanto possa apparire paradossale, essendo il popolo croato notoriamente slavo), che era rivolta sia contro i Serbi, sia contro gli Italiani. Lo stato croato di Pavelic inoltre si distinse per particolare ferocia nei confronti degli Ebrei, non inferiore a quella del III Reich stesso.
2. Aiuto italiano agli Ebrei perseguitati da nazisti e nazionalisti jugoslavi
Le operazioni di rastrellamento e deportazione degli Ebrei in Venezia Giulia e Dalmazia, oltre che nei territori di Slovenia e Croazia, furono appoggiate dai regimi nazionalistici locali e dai movimenti militari che li servivano: domobranci e belagardisti Sloveni, ustascia Croati diedero un grosso aiuto ai nazisti nella “soluzione finale”.
In particolare, lo stato croato di Pavelic rappresentò un caso unico fra i satelliti di Hitler, poiché costituì propri autonomi campi di concentramento per Ebrei (come quello famigerato di Jasenovac), come altrimenti soltanto il III Reich aveva fatto.
Gli Italiani, finché rimasero in Jugoslavia, tentarono in linea di principio di proteggere le popolazioni civili coinvolte in una guerra al contempo esterna ed interna. Ancora nel luglio del 1941, l'ambasciatore italiano a Zagabria, Antonio Casertano, informava Mussolini che si registravano continui incidenti fra italiani da una parte, tedeschi e ustascia dall'altra, «perché le nostre truppe danno evidenti e continue prove di simpatia nei confronti degli ebrei e dei serbi proteggendoli dalle accanite persecuzioni».
Da parte sua, il generale Ambrosio, comandante della 2a Armata, riferiva al comando supremo che “dal mese di giugno in poi la presenza delle truppe italiane è malvista soprattutto perché rappresentano uno scomodo testimone dei selvaggi massacri di cui si vergognano gli stessi croati”.
3. Lo studio di Shelah Menachem
E’ importante al riguardo il lavoro dell'ebreo dàlmata Menachem Shelah: "Un debito di gratitudine Storia dei rapporti tra E.I. e gli ebrei in Dalmazia (1941 - 1943)". Il Menachem, originario della Dalmazia ed in seguito divenuto professore di storia contemporanea all’università di Gerusalemme, spiega come il Regio Esercito salvò una moltitudine di ebrei dàlmati (oltre 10.000), che altrimenti sarebbero stati massacrati dagli ustascia. Non soltanto gli Ebrei furono salvati dal Regio Esercito, ma anche un gran numero di Serbi, scampati alle stragi degli ustascia grazie alla protezione offerta dall’esercito italiano.
Si riporta qui un brano dell’ “Introduzione” dell’opera di Menachem, scritta da Antonello Biagini, ordinario di storia dell’europa orientale a Roma:
“proprio nell'esaltazione del ricordo di quanti hanno tentato di difendere il più a lungo possibile i gruppi di ebrei che avevano trovato rifugio sotto la bandiera italiana - dal governatore Bastianini, al generale Roatta, ai diplomatici Pietromarchi e Ducci fino al ministro Ciano - che il lavoro di Menachem Shelah si viene svolgendo seguendo il cammino segnato dall'ampia documentazione conservata nell'Archivio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito e del Ministero Affari Esteri in Roma. Per l'originalità e attendibilità delle fonti cui attinge, questo volume, che ben si inserisce nella ricca letteratura storica e memorialistica jugoslava e italiana relativa all'Olocausto nei territori jugoslavi, offre una sua risposta ai quesiti che ancor oggi gli studiosi si pongono dinanzi al fatto che, mentre in altri paesi alleati o occupati dalle truppe del Terzo Reich le dimensioni dello sterminio furono più elevate, in Italia e nelle sue zone di occupazione la fase più cruenta della persecuzione antiebraica abbracciò solo i venti mesi che separano 1'8 settembre 1943 dalla fine del conflitto. 1'A. indica nell'opera di solidarietà svolta dal personale diplomatico e dall'esercito italiano - la sola risposta possibile. Mosso perciò dal desiderio di rendere un pubblico atto di ringraziamento a quanti, in quei lontani e bui anni di guerra, salvarono la sua vita e quella di altre centinaia di ebrei, Menachem Shelah riesce a destreggiarsi in una materia così spinosa e complessa”
Il Menachem, ebreo dàlmata poi divenuto professore di storia contemporanea all’università di Gerusalemme, riporta una gran mole di dati interessanti e positivi sulla presenza italiana nei Balcani Egli attesta la difesa delle popolazioni civili serbe dalle stragi compiute dagli ustascia croati:
Parlando di un’area della Dalmazia, il Menachem scrive che “vi vivevano in promiscuità serbi di religione greco-ortodossa e croati cattolici. […] Con l'avvento al potere degli ustascia la situazione cambiò: teste calde croate, sia del posto sia venute da fuori, attaccarono gli insediamenti serbi, saccheggiando e uccidendo con una ferocia inaudita. Le case serbe furono arse, i beni saccheggiati, uomini, donne e bambini messi a morte con terribile efferatezza. Quegli stessi croati che fino a quel momento avevano salutato cortesemente, anche se freddamente, i loro vicini serbi si univano ora all'orgia di sangue. […] I pochi militari italiani restati nella zona erano esterrefatti, e l'orrore da essi provato vedendosi costretti ad assistere a scene così inumane è documentato dalle decine di strazianti rapporti inviati in quel periodo al Comando e a Roma. In uno di tali documenti un ufficiale italiano racconta che dopo che la sua unità ebbe consegnato ai croati il villaggio in cui era accampata, apparve un prete croato che disse di essere il nuovo comandante. L'italiano chiese quali ordini il «nuovo comandante» avesse ricevuto dai suoi superiori e l'ustascia rispose: «Un solo ed unico ordine: sgozzare tutti i cani serbi». L'ufficiale italiano, che in un primo momento aveva creduto che quello volesse scherzare, fu subito inorridito vedendo che i croati già avevano iniziato il macello. In breve tempo tutti i serbi del posto furono uccisi. In quel periodo, gli italiani cercarono di proteggere contro gli ustascia i serbi e gli ebrei locali e in mancanza di direttive ufficiali, i comandi delle diverse unità militari operarono di propria spontanea” (Menachem, Ibidem, p. 41)
L’esercito italiano quindi prestò aiuto e protezione ai Serbi dinanze alle pratiche genocide dei Croati (che sterminarono centinaia di migliaia di Serbi nel conflitto, per lo più civili), sia sulla base di direttive precise delle proprie autorità politiche e militari, sia per iniziativa spontanea dei comandanti locali.
Il Menachem ricorda come gli Italiani, che stavano cercando in ogni modo di salvare gli Ebrei dallo sterminio, furono costretti ad internare alcuni di loro ad Arbe, fingendo di volerli poi deportare nei lager tedeschi. Si trattò di una misura strumentale all'inganno delle autorità germaniche, ma che non comportò perdite di vite umane fra la popolazione ebraica. Il Menachem dedica un intero capitolo al campo di Arbe, ed al buon trattamento ivi ricevuto. “L'internamento degli ebrei nel campo di Arbe provocò, senza dubbio, un peggioramento della loro situazione e inflisse loro un grave colpo. Prima la stragrande maggioranza dei profughi era alloggiata in alberghi, in pensioni e in case private, mentre ora essi si trovarono tutti ammucchiati in un campo approntato in gran fretta, carente di strutture atte ad ospitare a lungo una folla in cui il numero dei vecchi, delle donne e dei bambini era molto elevato. Di ciò non si devono incolpare gli italiani, che avevano fatto tutto il possibile per migliorare le condizioni esistenti nel campo e soprattutto non dobbiamo dimenticare di porre il campo di Arbe a confronto con «i migliorí» tra i Lager tedeschi o i campi croati. Anche ad Arbe l'atteggiamento tenuto dalle autorità nei riguardi degli internati fu cordiale e i comandi preposti al campo fecero tutto il possibile per alleviare le sofferenze dei loro «prigionieri» senza mai interferire nella vita interna del campo, la cui direzione era affidata a persone elette dagli stessi internati fra di loro.”
E’ importante inoltre ricordare ciò che il Menachem osserva sul ruolo dei vertici del fascismo in tali decisioni. Sulla base di un’amplissima documentazione di documenti ufficiali, lettere, telegrammi ecc. egli può dimostrare come Mussolini, il ministro degli Esteri Ciani e molte altre altissime personalità fasciste fossero a conoscenza diretta del salvataggio degli ebrei compiuto ad opera dell’esercito, ed anzi si fossero impegnati personalmente affinché avesse buon fine. Mussolini in particolare si preoccupò di salvare il maggior numero possibile di ebrei dalla deportazione nei lager, e diede precise disposizioni ai comandanti militari della Dalmazia.
Si deve quindi concludere che il fascismo in quanto tale non progettò mai lo sterminio degli ebrei, e neppure li perseguitò, tranne che nel periodo delle leggi razziali, approvate su imposizione tedesca e contrastate dalla stragrande maggioranza dei fascisti, tanto che lo stesso Mussolini evitò di farle applicare con rigore. Inoltre, i fascisti salvarono un gran numero di ebrei dalla deportazione.
Sull'argomento, esiste un'amplissima bibliografia. Basti ricordare Renzo De Felice (il maggior storico del fascismo), Leon Poliakov e Raul Hillberg (due fondamentali storici sull'antisemitismo e l'olaucasto), Shelah Menachem, lo storico israeliano che ha documentato il salvataggio di migliaia di ebrei ad opera di Mussolini e dell'esercito italiano. Sono solo una parte dei molti storici che hanno approfondito l'argomento qui presentato succintamente.
mercoledì 13 gennaio 2010
venerdì 8 gennaio 2010
L'UOMO CHE APRI' LA STRADA ALLA VERA REPUBBLICA ITALIANA (click)
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