
Sabrai, la bimba afghana attesa in città per un delicato intervento
Vicenza. Una bambina afghana di tre anni con una grave lesione alla caviglia sarà operata a Vicenza, grazie all’intervento dei militari italiani ad Herat.
Non lasciatemi sola ad esaltarla
Pierluigi accoglili tu.
Tenente Antonio FORTUNATOBala Morghab, 180 chilometri a nordest di Herat, al confine con il Turkmenistan, all’interno della provincia di Badghis, una delle cinque che compongono l’area sotto responsabilità italiana. Fino a tre mesi fa era uno dei punti più caldi di tutto l’Afghanistan. Oggi la situazione è completamente cambiata. La valle è una lingua di terra verde incastonata tra catene montuose e deserto. In mezzo scorre il fiume, fonte di vita e fertilità. Tanti piccoli villaggi sparsi nella valle e, al centro, da un lato il villaggio di Morghab. Dall’altro, la Fob Camp Todd, la base operativa avanzata che ospita militari afghani, italiani, spagnoli e americani.
Una zona a lungo contesa tra insurgents e militari afghani che, con il supporto delle truppe Isaf, in questa valle hanno combattuto, attaccato e subito attacchi e perdite. Il fine era quello di riconquistare il controllo della valle, punto strategico perché di frontiera, ma soprattutto perché da qui passa una tratto della Ring Road, l’anello di asfalto che circonda tutto l’Afghanistan collegando tra loro le città principali. Per garantire la sicurezza all’interno di tutto il Paese, il primo obiettivo deve essere quello della libertà di circolazione e del controllo delle principali vie di comunicazione.
E poi, a pochi chilometri, sempre nella stessa provincia, c’è Gormach, tradizionale roccaforte talebana. Infine, la Nato sta cercando di espandersi verso nordest anche per ricongiungere Herat a Mazar-i-Sharif, area a responsabilità tedesca. Gli insurgents della zona, invece, proprio non ne volevano sapere: troppo importante mantenere il controllo di quel tratto della Highway 1, la Ring Road, appunto, per continuare a svolgere indisturbati i traffici illeciti con il Turkmenistan. Fino a tre mesi fa, la valle è stata teatro di scontri durissimi.
29 maggio: i militari afghani escono alle 5 del mattino dalla Fob per occupare delle postazioni a circa due chilometri. Vengono attaccati, provano a rispondere al fuoco, ma sono costretti a chiamare in soccorso i Paracadutisti del 183° reggimento “Nembo”, pronti a intervenire su richiesta dei militari afghani. I combattimenti proseguono per ore.
All’interno della base l’atmosfera è frenetica. Si sentono chiaramente le raffiche di armi leggere e i colpi di mortaio sparati là dove si sta combattendo. Convogli di blindati Lince continuano a entrare e uscire dalla Fob: quelli che escono trasportano militari pronti ai combattimenti. Da quelli che rientrano scendono ragazzi dal volto trasfigurato, sfiancati dalla fatica, gli occhi rossi e gonfi per la polvere. Sporchi, sudati e con le scariche di adrenalina che ancora non accennano a fermarsi.
Mentre un caposquadra sta dando indicazioni ai suoi prima di uscire, da lontano si vede una nuvola di polvere che si avvicina. Sono sei ragazzi che corrono disperatamente verso l’infermeria: trasportano uno dei loro compagni rimasto ferito in battaglia. Alla fine, anche grazie all’impiego dei mortai, su obiettivi segnalati dai ragazzi del 185° “Acquisitori obiettivi”, la minaccia, come si dice in gergo, “è neutralizzata”. Ingenti le perdite: uccisi 25 miliziani insurgents e 3 militari afghani. Tre parà italiani restano feriti. Una giornata qualunque tra quelle che si vivevano qui, a Bala Morghab, almeno fino a tre mesi fa.
25 agosto, la situazione è completamente cambiata. Non è necessario correre per scendere dall’elicottero e raggiungere, nel più breve tempo possibile, l’ingresso della base. All’interno l’atmosfera è più tranquilla. Nessun segno di concitazione, nessuno sparo o raffica in sottofondo. Un convoglio di Lince è pronto per uscire: oggi i militari italiani faranno una donazione di materiale scolastico al piccolo istituto del villaggio di Morghab.
Prima di uscire non si accertano neppure che i passeggeri abbiano allacciato tutte le cinque cinture di sicurezza, né che siano stati attivati i “mine lock”, una speciale sicura di cui è dotato il Lince, che impedisce la possibilità di aprire il portello dall’esterno. Ed eventualmente gettare una bomba all’interno dell’abitacolo. “Sembra di stare in un altro posto - commenta il conducente del Lince che era qui anche in quella giornata di combattimenti, tre mesi fa - la tregua regge, ora possiamo anche uscire e andare fino al villaggio. Chissà, però quanto durerà”.
Tregua: è stata questa la chiave di volta. In vista delle elezioni, ai primi di agosto, il governo centrale, rappresentato da un emissario del presidente Karzai, è riuscito a mediare, tramite i capivillaggio, un “cessate il fuoco” con gli insurgents della zona. Gli accordi erano questi: i militari dell’Ana, l’Afghan National Army, avrebbero lasciato le postazioni ritirandosi e gli insurgents avrebbero retrocesso fin dietro le montagne. Ma, soprattutto, avrebbero smesso di sparare.
Ciò che non si dice, non si racconta e, forse, non si sa, è che la tregua è stata preparata da una chirurgica operazione di rastrellamento condotta dai militari afghani supportati dai paracadutisti italiani. Un’accelerata nelle operazioni di riconquista del controllo del territorio: gli insorti sono stati circondati e chiusi all’interno di un’area ben delimitata, da cui non hanno avuto possibilità di fuga.
Un’operazione scattata nei primi giorni di luglio, proprio mentre al sud, gli americani, con roboanti comunicati stampa in cui snocciolavano cifre e numeri dell’operazione, sferravano l’attacco nella valle di Helmand. Secondo le previsioni il rastrellamento sarebbe dovuto durare circa tre settimane. Ma è stato interrotto dall’inizio della mediazione per giungere alla tregua.
Ora, all’interno della valle di Bala Morghab, è rimasto solo il piccolo villaggio a essere definito “area problematica”. Una piccola zona non sotto pieno controllo che ospita ancora un nucleo di insurgents. Ecco perché, all’interno della base, dove sono custoditi i Lince danneggiati dai combattimenti passati, ci si chiede quando e chi metterà fine alla tregua. Ecco perché comunque non si può abbassare la guardia e bisogna sempre essere pronti a entrare in azione.
Quello stesso 25 agosto, nel pomeriggio, arriva una richiesta d’aiuto da Mur-e-Chack, località al confine con il Turkmenistan: un check point della polizia afghana di frontiera è stato attaccato da un gruppo di insurgents che ora, dopo aver ucciso due poliziotti e averne rapito altri, stanno saccheggiando il piccolo villaggio vicino. Immediatamente dalla Fob Todd parte un plotone di Paracadutisti a bordo di un Chinook. Insieme, si alzano in volo due Mangusta armati. Torna, per un pomeriggio, l’atmosfera concitata e l’ambientazione da film di guerra. Nessuno, però, parla di fine della tregua.
“Tutto questo non ha niente a che vedere con gli accordi ancora in vigore. Quel territorio - spiega il gen. Rosario Castellano, Comandante dell’area regionale ovest - è fuori dall’area interessata dal cessate il fuoco”. Il comandante era presente oggi qui a Bala Morghab per assistere alla cerimonia di consegna di aiuti umanitari. E da qui, invece, si è trovato a dirigere e coordinare le operazioni di soccorso alla polizia di frontiera afghana, lassù a venti chilometri, al confine con il Turkmenistan.
Kabul. Sette e trenta del mattino. Il cancello della base si apre lentamente mentre i ragazzi scendono dai mezzi e scaricano le armi: un rituale obbligatorio per entrare nel compound. Risalgono e uno di loro abbassa l’aletta parasole del Lince che conduce, estrae un santino, lo bacia, in segno di ringraziamento e devozione, e lo infila nel portafoglio. È San Gabriele, patrono dei paracadutisti. Lo confessa dopo poco, solo dopo una domanda diretta. L’innocente confessione è priva di imbarazzo, ma carica di quella discrezione di chi vuole che al gesto, profondamente intimo e personale, non venga dato troppo risalto.
Camp Invicta, la base che ospita i circa 600 militari del 186° Reggimento paracadutisti di stanza a Kabul, si sta risvegliano. I ragazzi del Genio, invece, rientrano appena ora dalla prima attività operativa della giornata. Alle 4.30 di questa mattina, mentre appena albeggiava, erano già in strada per la consueta Route Clearance, il controllo ed eventuale ripulitura delle strade da ordigni esplosivi che potrebbero essere stati piazzati durante la notte e destinati ai colleghi che tra poco inizieranno a uscire per svolgere le attività in programma per oggi. Un caffè, un po’ di riposo, qualche ora di lavoro d’ufficio e poi, nel pomeriggio, quelle strade andranno di nuovo ripercorse e controllate.
Ore 16.30 del pomeriggio. Manolo, Federico, Mino e Mario preparano mezzi ed equipaggiamenti per l’uscita pianificata. Ordine d’operazione: effettuare una pattuglia appiedata “joint”. Si chiamano così tutte le operazioni realizzate insieme alle Forze di Sicurezza afghane. Sono loro che, prima o poi, dovranno garantire, da soli, la governabilità e la sicurezza del loro stesso Paese. Un obiettivo che va costruito gradualmente, giorno dopo giorno, grazie a un contatto costante e a un costante processo di insegnamento e apprendimento su procedure, tattiche e strategie. Processo che passa anche attraverso una pattuglia di due ore fatta per le strade di Kabul.
Il convoglio esce dalla base. Velocità a passo d’uomo finché il muso del primo mezzo in colonna non spunta sulla strada, la Jalalabad Road, Violet Road da quando gli americani hanno messo piede a Kabul. I mezzi sono fuori, la velocità aumenta. Anche questa è una misura di sicurezza. Rende più difficile per i “suicide”, i kamikaze a bordo di auto cariche di esplosivo, avvicinarsi e farsi esplodere compiendo la loro “missione”.
Pochi chilometri e il convoglio si immerge nel traffico impazzito di Kabul. Lunghe code di auto ferme agli incroci costantemente congestionati, su cui impacciati “poliziotti municipali” cercano di mantenere, senza successo, l’ordine. Solo una cosa è ben chiara a tutti: i mezzi militari Isaf hanno la precedenza assoluta. Al loro passaggio le altre auto devono farsi da parte e permettere ai Lince di defilarsi da una situazione che, apparentemente innocua, è invece tra le più pericolose che possano verificarsi.
Mino, il rallista, tiene una mano sull’arma. Con l’altra si sbraccia per segnalare a persone e auto “sospette” che devono tenersi a distanza dai mezzi in movimento. Non stacca mai gli occhi dalla strada, dai marciapiedi, dai dintorni. La sua attenzione si concentra su alcune caratteristiche che possono rispondere al tipico identikit del kamikaze: uomo, ben vestito, pulito e con la barba fatta. Pronto al martirio, insomma. Altre caratteristiche riguardano l’auto: vecchia e con le sospensioni posteriori abbassate, appesantita dal carico di esplosivo. E poi ancora mezzi abbandonati, carretti fermi ai bordi della carreggiata o anche moto e motorini.
A un tratto si sente uno sparo. È Mino che ha appena lanciato una Minolux, un razzetto luminoso di segnalazione. Un’auto si è avvicinata troppo, i gesti non sono bastati. La Minolux, sparata da una pennetta, è il secondo step in quella che viene chiamata “escalation nell’uso della forza”. Dopo aver sparato il razzetto passa la pennetta a Mario, seduto nel sedile posteriore del mezzo, ai suoi piedi. Mario gli tende veloce una seconda pennetta carica.
Prima tappa: il convoglio è giunto alla stazione di polizia dove deve essere caricato il poliziotto afgano che dovrà svolgere l’attività “joint”. I mezzi si fermano a bordo strada. Non proprio davanti all’ingresso della stazione di polizia, però. Giusto lì davanti è ferma un’auto. A bordo ci sono due uomini. Sembrano aspettare qualcosa, o qualcuno. Troppo rischioso fermarsi accanto a quell’auto.
Mentre Mino, dalla ralla, continua a segnalare alle auto di allontanarsi dal convoglio in sosta, i ragazzi, all’interno del mezzo, aspettano. Federico vorrebbe fumare una sigaretta, ma Manolo, conducente e quindi responsabile del mezzo, non glielo concede. Ha anche attaccato all’interno del “suo” Lince un cartellino che recita “No Smoking Zone”. Una delle tante forme di rispetto, ma anche di personalizzazione di quel “santo Lince” su cui tante ore trascorrono i ragazzi e dentro la cui pancia si sentono protetti, quasi al sicuro, perché tra loro e tutto ciò che succede, o potrebbe succedere, là fuori c’è una doppia blindatura.
Il militare afgano arriva, il convoglio riprende la sua corsa. Pochi chilometri e si giunge a destinazione. Un vicolo, proprio nel centro di Kabul, alla quale si accede da una delle strade principali della città. Attraverso la radio che gracchia i ragazzi comunicano la loro posizione alla sala operativa, una sorta di cordone ombelicale che non li fa mai sentire soli.
Fuori, intanto, si è alzato un forte vento. Lo stesso che ogni pomeriggio, a quest’ora, soffia a Kabul, alzando polvere e terra. Sbuffi d’aria malsani e maleodoranti, come tutto il resto della città, priva di qualsiasi forma di rete fognaria.
I mezzi si fermano all’imbocco della strada. Devono aspettare che Giovanni, il comandante di squadra, seduto nel primo dei mezzi che compongono il convoglio, dia il via. Fuori, intanto, iniziano ad arrivare i bambini. Sono curiosi, affascinati, salutano i militari in attesa di un gesto di risposta. E poi si bloccano, incantati, a osservare gesti, movimenti, equipaggiamenti.
Arriva il via libera di Giovanni, i ragazzi scendono dai mezzi e si incamminano a piedi tra polvere e immondizia. Giovanni e il poliziotto afgano camminano fianco a fianco. È in questo gesto apparentemente “inutile” il senso dell’intera operazione: mostrare alla popolazione, che si affaccia curiosa dalle case circostanti, che le forze di sicurezza afgane, supportate dalle truppe della coalizione, ci sono, sono sul territorio, lavorano per riconquistarne il controllo e, soprattutto, sono i “buoni”.
I militari, intanto, molto discretamente, si guardano intorno. Registrano luoghi, case, volti, ma soprattutto atteggiamenti, attenti a qualunque elemento che possa essere strano, o addirittura sospetto.
Si giunge presto alla fine di quel vicolo. L’ordine è di risalire sui mezzi per riprendere la strada principale e rientrare in base. I mezzi fanno manovra all’interno di un piccolo campo di calcio, dove i ragazzi hanno smesso di giocare per osservare, rapiti, questa sorta di “alieni” piombati così, in un qualunque pomeriggio d’agosto, nella loro piccola, polverosa strada.
Dopo aver riaccompagnato il militare afgano presso la propria stazione di polizia, la tensione sembra iniziare a mitigarsi. L’operazione è compiuta, il sole è ormai basso, la giornata sembra finita. All’interno del mezzo i ragazzi iniziano a parlare tra di loro. “Dov’è che lavora la tua fidanzata? In un bar, giusto?” chiede Manolo mentre continua a tenere gli occhi fissi sulla strada. “No - gli fa eco Mario, dal sedile posteriore, mentre stringe la Minolux, già pronta per Mino - in un centro commerciale”. E proprio mentre la tentazione di lasciarsi andare e abbassare la guardia si fa più incombente, l’imprevisto.
Manolo frena all’improvvisa. “Ma dove cavolo va questo?” urla Federico, seduto vicino a Manolo. Mino spara la Minolux e stringe la mano intorno all’arma. Un istante che sembra infinito, durante il quale tutti, contemporaneamente, attendono solo di sentire l’esplosione. Un’auto non si è fermata durante la manovra di inversione di marcia del convoglio ed è passata proprio in mezzo al Lince fermo sul lato esterno della strada, a fare da scudo e protezione, e il mezzo che a tutta velocità stava facendo la curva. Una manciata di secondi per rendersi conto che l’uomo alla guida non era un kamikaze, ma solo un avventato conducente. L’auto si defila. I ragazzi restano muti mentre proseguono le manovre. Nonostante la scarica d’adrenalina che ha annebbiato la ragione per un istante, non ci si può fermare.
Il bisogno di scaricare la tensione, però, è troppo forte: ognuno dice la sua, e ognuno, in cuor suo, per un istante, ha solo aspettato di sentire il botto della deflagrazione.
Il resto del viaggio è silenzioso. I ragazzi ricominciano a parlare solo una volta dentro il corridoio di cemento che porta all’ingresso della base: già un ventre dove iniziare a far scemare la tensione e l’attenzione. Mentre il cancello di Camp Invicta si apre, è Manolo a rompere il silenzio: “E pure per oggi niente bara, Mariè!”. Gli risponde Mario: “Guarda che io la foto ce l’ho già pronta!”.
Frasi che fanno gelare il sangue, dette con la stessa normalità con cui si fa una battuta tra amici. Ma in un bar, in un mondo più “normale” di questo. Qui normale è diventato ormai convivere con la morte, imparando a gestire la paura. E scherzarci sopra è l’unico modo per esorcizzare.
La sera, al bar, davanti a una delle uniche due birre concesse dalle regole che vigono all’interno della base, lo confessano. Non è normale scherzare così. Certo è che si scherza sulla morte, mai con la morte. E domani, coerentemente con quella scelta di vita che hanno fatto qualche tempo fa, ancora una volta, come ogni giorno, usciranno dalla base per svolgere i compiti che verranno loro assegnati. Con in mente un’incognita e una speranza chiara: tornare indietro tutti. Tutti interi.Non si alzeranno in volo le Frecce tricolori se non potranno disegnare le loro scie di fumo bianco, rosso e verde. Lo ha detto a Tripoli il comandante della pattuglia acrobatica italiana, il tenente colonnello Massimo Tammaro, ripetendo ancora una volta che le autorità libiche continuano a chiedere il solo fumo verde, colore della bandiera della Libia, o in alternativa nessun colore. L'esibizione dovrebbe svolgersi nel pomeriggio.