domenica 31 maggio 2009

NON C'E' MAI FINE AL PEGGIO (click)

Via le croci dal cimitero: «Danneggiano l’ambiente»


L’ultima frontiera del politicamente corretto è il passaggio dal camposanto al campo tout court. Ma la faccenda è un po’ più complessa di un giochino da Settimana enigmistica, rubrica cambio di suffisso.
L’ultima frontiera del politicamente corretto è il divieto di mettere le croci sulle lapidi delle tombe dei morti, messa nero su bianco da una delibera comunale del comune di Lugo di Romagna.
E nemmeno per un malinteso «rispetto per le altre religioni», in nome del quale si è giustificato negli ultimi anni di tutto e di più. La ratio della scelta, stavolta, è il rispetto del verde e della qualità ambientale del cimitero. Cito fior da fiore (e mai espressione fu più adatta a questa concezione bucolica del ricordo dei morti): «La funzione del verde dovrà nel tempo prevalere sull’edificato. L’effetto immediato basato sul solo costruito è destinato a lasciare il passo allo scenario dove, le alberature, le zone a prato e le aiuole assumono un ruolo ambientale ed estetico predominante».
Ecco, «predominante». Si legge proprio così sul comunicato del Comune, in cui peraltro si cerca di minimizzare il divieto, spiegando che non è poi così cogente. Anche se, nell’allegato alla delibera comunale numero 102 del 6 maggio, si legge che hanno deciso che, sulle tombe, non devono esserci né croci, né mezzelune islamiche, né stelle di Davide. Niente di niente. Nemmeno - per gli atei impenitenti, che da queste parti proliferano e firmano capolavori dell’onomastica pur di non dare ai loro figli nomi di santi e beati - l’indicazione «Marito e padre esemplare».
Tutto bandito. Punto uno: «Sulla lapide saranno ammessi solamente i seguenti elementi: - dati anagrafici; - fotografia». E ancora: «Le scritte ammesse sulla lapide sono due: - nome e cognome; - data di nascita e di morte». Con tanto di indicazione del carattere di stampa «il più possibile simile» ad «Arial» o «Futura».
Succede a Lugo, provincia di Ravenna, Romagna profonda. Dove, recentemente, Riccardo Muti ha portato la sua orchestra a fare le prove, aprendo il teatro al pubblico, in una straordinaria esperienza culturale e umana. Il Requiem, ad esempio, dev’essere stato straordinario. Anche se, a occhio e croce, il suo senso profondo non è rimasto particolarmente impresso nelle orecchie dei pur illuminati amministratori.
Perché qui siamo alla codificazione della morte. Al «ruolo ambientale ed estetico predominante» che probabilmente è ispirato da ottime intenzioni e da pensieri profondi. Ma che, alla fine, lascia un senso di vuoto. Come se la preghiera, la morte e soprattutto ciò che viene dopo la morte, fossero una questione burocratica. Un qualcosa da regolamentare come il decalogo del verde pubblico.
Rispetto a tutte le altre volte in cui qualcuno ha fatto sparire o ha lottato per fare sparire la croce - dalle scuole ai tribunali - stavolta, è più grave. Perché, almeno per chi ha la fede, qualsiasi fede, almeno per chi crede nell’aldilà, la croce è tutto. È il significato di tutto.
Altrimenti, un cimitero diventa un giardino pubblico. Magari bellissimo. Ma pur sempre un giardino.
Massimiliano Lussana

sabato 30 maggio 2009

Quelle sfide senza fine che il Cavaliere gioca sempre a Napoli (click)

di Maria Giovanna Maglie

Vedi Napoli e poi muori, dice la frase, tanto nota da essere scontata, da prestarsi a interpretazioni ambigue e pregne di facile antimeridionalismo. È perché è così bella che può rappresentare l'ultimo desiderio di una vita, o più realisticamente è perché chi la tocca, chi tenti e magari riesca con successo a scuoterla, cambiarla, a sfidare il Mostro che vi spadroneggia, rischia la pelle? Tra le molte moleste voci che in queste settimane hanno preso il posto della bella battaglia politica, quello degli argomenti, delle proposte, figuriamoci degli ideali, ne circola una secondo la quale l’inchiesta che ruota attorno all'inceneritore di Acerra punterebbe ai vertici del governo, nientemeno. Se rispondesse al vero, confermerebbe definitivamente quel che il premier sospetta e che ha denunciato, ovvero che a dar man forte alle scarse ragioni di un'opposizione che si unisce solo dietro alle ragioni squisitamente private di Veronica Lario, ci sia ancora una volta qualche Procura amica. Come accadde negli anni orribili di Tangentopoli, a dare una mano quando in altro pulito modo di andare al governo proprio non gli riusciva, e come accadde nei tentativi che seguirono a partire da quello storico, e che oggi torna in mente a chi come me a pensar male si è dovuta abituare, nel 1994, quando, Silvio Berlusconi premier alla testa di una provvidenzialmente neonata Forza Italia, un avviso di garanzia arrivò a imbarazzare lui e i suoi ospiti a Napoli all'apertura di una riunione del G8. Ci pensò il Corriere della Sera a far da messo rivelando l'iniziativa platealmente, oggi la palma la vorrebbe un altro quotidiano militante e scalpitante, La Repubblica, con i suoi giornalisti trasformati in agenti della buon costume, cito da Dagospia, con l'editore che si sente il capo della polizia. Vanno in giro per Napoli e provincia, a caccia di soubrettes, aspiranti veline, parenti lontani della ragazza Noemi, fidanzati, pregiudicati e no, fotografie anche da sistemare, personaggi della commedia napoletana pronti a tutto in cambio di qualcosa. E ve li ricordate i cittadini che protestavano indignati contro le discariche, che cercavano di impedire che si facesse qualcosa?
Sullo sfondo il ventre della grande città e della sua sterminata provincia, quella che la vedi e poi muori. «Affari sporchi a Napoli» si intitolava un duro articolo che un anno fa il Wall Street Journal dedicò alla crisi della città: «Montagne di rifiuti stanno bruciando nelle strade di Napoli e stanno portando alla luce la realtà dell'Italia meridionale. La combinazione di uno Stato debole e del potente crimine organizzato rende alcune aree del Paese ingovernabili». Gabriel Kahn, corrispondente del WSJ, sosteneva con più di qualche fondato argomento che «a Napoli questa combinazione ha creato una miscela tossica che ha paralizzato la città, creato seri rischi alla salute e rivelato l'incapacità del governo ad affrontare anche i problemi fondamentali della vita urbana». L'articolo riconosceva «disperate ma inutili misure prese dalle autorità» perché «la Camorra mantiene uno stretto controllo sul business dei rifiuti e, con il peggiorare della situazione, i profitti e il potere della camorra sta crescendo».
Oggi non si potrebbe più scrivere la stessa cosa. Nella lotta alla criminalità come nel caso dei rifiuti, lo Stato ha funzionato, ha combattuto il mostro, che si nutre anche di inerzia, ha pulito e messo ordine nelle sabbie mobili della criminalità. Qualche nome: Franco Letizia uno dei cento latitanti più pericolosi d'Italia catturato, cento arresti nel clan Amato-Pagano, preso in Spagna il boss Raffaele Amato, leader degli «scissionisti», padrone dello spaccio a Scampia, latitanti eccellenti come Mazzarella, Setola, D'Albenzio, Diana, Bidognetti jun. L'offensiva dello Stato ha decimato casalesi e camorra metropolitana. Però c'è il ventre molle di Napoli. I carabinieri che hanno arrestato i cugini Salvatore e Luigi Prinno, del clan Sarno, all'ingresso in Villa Cupido, locale dove si celebrava un matrimonio, assieme a un centinaio di pregiudicati hanno trovato attori e cantanti locali: Ciro Petrone, di 22 anni, divenuto famoso grazie al successo del film Gomorra, anche Rosario Miraggio, cantante neomelodico, Luigi Attrice, interprete del film Attenti a noi due, di Mariano Laurenti e che ha lavorato anche con Ninì Grassia. C'era poi Maria Teresa Pintus, volto noto della fiction La Squadra.
Nelle stesse ore a pochi chilometri di distanza carabinieri e Guardia di finanza, con l'operazione «Giudizio finale», attaccano il clan Belforte, sequestrano beni per cinquanta milioni di euro. L'attività del clan è presto illustrata. Dal '98 al 2004 ha provveduto allo smaltimento illecito di tonnellate di rifiuti. Una società collegata al clan avrebbe ottenuto commesse da una società pubblica, la Recam: tra gli indagati c'è anche un ex funzionario di quest'ultima. L'organizzazione aveva imposto il pizzo ad alcune società del settore dei rifiuti durante l'ultima crisi, prima che la città e la regione venissero ripulite e restituite ai cittadini. A dispetto di quelli che ci facevano solo affari, e che oggi, pur decimati, progettano vendette.
Mi aspetto che a Napoli, come in altre tante regioni d'Italia, ci sia una grande reazione popolare a significare che il Mostro e i suoi interessi, droga, rifiuti, prostituzione, omicidi, sottosviluppo, ricatto, sono stati colpiti a morte, e che chi lo ha sfidato ha avuto ragione. Mi aspetto che l'antimeridionalismo della sinistra sia svergognato. Il giudizio del popolo si chiama voto

lunedì 25 maggio 2009

Fascismo e anti-fascismo nel pensiero di un intellettuale irregolare - La vera resistenza

24 Maggio 2009

Alla fine del 1958 Gianni Baget Bozzo si presentò a Luigi Gedda, ancora (per pochi mesi) presidente nazionale di Azione Cattolica. Comune a entrambi era un giudizio assai preoccupato sulla situazione della DC e sulla svolta a sinistra che il suo gruppo dirigente si apprestava a compiere: in quella complessa operazione politica, il giovane genovese vedeva la consacrazione definitiva del “pragmatismo a-cristiano” affermatosi nel partito con la segreteria Fanfani. A metà dell’anno successivo, Gedda (ormai estromesso dalla presidenza) accolse la sua proposta di finanziare un nuovo quindicinale che Baget Bozzo chiamò «L’Ordine civile»: si stampò a Roma dal giugno del 1959 a tutto il 1960. Parlandone molti anni dopo, il suo direttore ne avrebbe individuato i temi fondamentali nella riforma in senso presidenziale dello Stato (secondo le suggestioni golliste allora vive in lui) e nella critica della partitocrazia. Ma, a rileggerla oggi, essa appare assai interessante anche per altri aspetti: proprio perché culturalmente e politicamente all’opposizione rispetto al mainstream dominante, mostrava antenne molto sensibili nel registrare i mutamenti di cultura e di costume che si stavano profilando nella società italiana, soprattutto l’affiorare del progressismo cattolico e il ritorno in grande stile dell’antifascismo “ideologico”. E’ su questo ultimo aspetto che vorrei richiamare qui l’attenzione, perché «L’Ordine civile» ebbe subito chiaro che su questo tema si stava giocando una partita dalle conseguenze incalcolabili nella politica e nella cultura italiana.

In realtà l’esigenza di superare la clivage fascismo/antifascismo come dato permanente della lotta politica in Italia e di passare al «post-fascismo» era stato un tema tipico della ricerca di Baget fin dai tempi di «Terza generazione», la rivista diretta Bartolo Ciccardini fra il 1953 e il 1954, nel cui entourage egli aveva svolto un ruolo rilevante: essa aveva posto chiaramente l’esigenza di una revisione dell’antifascismo tradizionale, perché incapace di promuovere un superamento positivo del fascismo, e invitato i giovani a esprimere se stessi nella costruzione di una nuova società, dove un certo antifascismo di maniera non poteva che operare come ostacolo, come fattore immobilizzante e solo negativo. Questa esigenza era stata riconosciuta come uno degli accenti più felici della nuova pubblicazione da alcuni coetanei, che a Bologna avevano dato vita a un altro periodico (destinato però a una vita assai più lunga): alludo a Nicola Matteucci e a Federico Mancini, che si confrontarono criticamente con «Terza generazione» sul «Mulino» nel 1954. Ancora tre anni dopo, Matteucci ne avrebbe sviluppato alcuni temi, indicando come compito della cultura del «Mulino» il superamento di un orizzonte meramente «antifascista» e un atteggiamento nuovo rispetto ai problemi della società italiana, che chiamava, appunto, «post-fascismo» (anche allora avrebbe ricordato «gli amici di Terza generazione»).

Alla fine degli anni Cinquanta si ebbe, invece, una ripresa in grande stile dell’«antifascismo ideologico» connessa alle polemiche sull’apertura a sinistra e sulle resistenze che ad essa facevano determinati ambienti economici, culturali ed ecclesiastici. Le vicende del 1960, dalla crisi del secondo governo Segni al governo Tambroni, ai tumulti di luglio, costituirono una svolta senza ritorno (almeno per molti decenni) in quella direzione. Le categorie con cui anche la più intelligente fra le riviste che lavorava per il centro-sinistra giudicò quei mesi è testimoniato da un Taccuino del «Mondo», in cui in termini drammatici si agitava il tema di un nuovo fascismo prossimo venturo: era il sintomo che anche in ambienti “liberali”, a lungo saldi in una posizione “antitotalitaria”, si era ormai affermata la “religione dell’antifascismo”. Scriveva Mario Pannunzio nel numero del 16 febbraio 1960:

Siamo o meno alla vigilia di un nuovo ‘22? Non si tratta di un problema accademico. […] Insomma il fascismo degli anni sessanta non può essere il fascismo degli anni venti: ma non per questo il fenomeno del ‘60 è qualcosa di profondamente diverso da quello del ‘20. È finito il fascismo delle squadre d'azione, della violenza combattentistica, del nazionalismo esasperato: è rimasto - e in qualche misura - lo spirito antidemocratico, la tendenza all'autoritarismo, la pressione degli interessi economici; e c'è, inoltre essenziale novità in una situazione dominata dalle forze cattoliche, la volontà di potenza di un corpo, come la gerarchia ecclesiastica, con i suoi organismi e i suoi laici, estraneo alla società organizzata a Stato, e proprio perché estraneo intrinsecamente sopraffattore. I caratteri formali del movimento che rovesciò il regime democratico quarant'anni fa sono mutati; il colpo di Stato è un obiettivo che oggi non ha più senso. Ma che l’attacco esterno del fascismo allo Stato sia divenuto l'interna degenerazione clerico-fascista dello Stato, nulla toglie all'essenziale, se non in questo: che ha reso più difficile riconoscere un pericolo che è identico. [...] C’è obiettivamente una coalizione clerico-fascisa nel paese .

Il mese successivo si svolgeva sull’«Ordine civile» un interessante confronto fra il neo-fascista veronese Primo Siena, direttore della rivista «Carattere» (su di lui molte notizie si trovano nel recente libro di Antonio Carioti su Gli orfani di Salò), e Gianni Baget Bozzo. I due interlocutori erano concordi nel criticare l’unità del fenomeno fascista e quindi l’assimilazione completa fra fascismo e nazismo: entrambi ritenevano quindi assolutamente improprio la categoria di “nazifascismo”, poi invece destinata a grande successo. Il loro disaccordo nasceva altrove: mentre a Siena, sembrava «necessario operare una scelta nel bagaglio del fenomeno fascista per discernere quanto esso conservava di tradizionalmente vivo e quanto di caduco in esso il vaglio storico ha rivelato», Baget esortava i giovani neo-fascisti a un superamento totale dell’eredità del fascismo: se il fascismo è ormai un fenomeno «storico» - affermava - «bisogna aver la forza non di rinnegare, ma di abbandonare il proprio passato: di abbandonarlo, nel senso in cui è detto ad Abramo “Esci dal tuo popolo”» e quindi di uscire dal ghetto, rientrando nel gioco politico e nel dibattito culturale.

Tale “abbandono” doveva produrre specularmente quello dell’antifascismo: esso rappresentava infatti «in concreto il medesimo sistema di idee del fascismo rovesciato», senza riuscire «a raggiungere alcun concetto politico nuovo, chiaro e distinto, ma soltanto pasticci ideologici, validi solo come schemi demagogici: “liberal socialismo”, “democrazia progressiva”, “Stato sociale”, sono formule senza concetti, espedienti verbali senza sostanza di dottrina». Baget sottolineava il «carattere solidamente conservatore» che ormai l’antifascismo del 1960 presentava: qui pensava, evidentemente, alla sua profonda avversione all’esperienza gollista e a ogni ipotesi di riforma costituzionale.

Sarebbe tornato sull’argomento qualche mese dopo, dopo i fatti di luglio, distinguendo fra la Resistenza e l’antifascismo, quali erano stati vissuti «nella coscienza degli innocenti e dei giusti» (lo stesso Baget vi aveva partecipato) e quello che erano ormai «nella politica dei potenti» (li chiamava i “santoni” della Resistenza). L’eredità positiva della Resistenza era stata importante: «il nazionalismo non è più un ideale, lo Stato nazionale non è più un mito, il “force passe droit” può essere sostenuto solo contro coscienza. (…) Il “sangue d’Europa” non è corso invano. La via è libera a dei grandi compiti ricostruttivi». Ma «la Resistenza e l’antifascismo hanno cessato di essere parole di significato universale dal momento in cui, in loro nome, la religione fu oppressa, l’autonomia nazionale e statale di mezza Europa conculcate e disperse, la libertà civile annullata. (…) Da quel momento coloro che avevano sentito nella Resistenza la lotta della verità e della civiltà contro un neopaganesimo diventato ormai solo dispotismo e barbarie, non potevano più in verità usare quelle parole, come espressione militante dei valori».

Baget Bozzo insisteva soprattutto sul valore “divisivo” che il richiamo resistenziale manteneva presso i “professionisti” dell’antifascismo: essi tendevano a perpetuare le divisioni della guerra civile, negando ogni «nobiltà del nemico (…) di colui che morì per fedeltà, che combatté per solidarietà, per onore: colui che combatté nonostante sapesse della sconfitta, che morì senza la speranza della vittoria». Questa originaria “partigianità”, quest’applicazione continua della «categoria dell’amico e del nemico» impediva alla loro cultura - questo è l’addebito più grave che Baget faceva loro – di «fondare la “polis”, la “respublica”, lo “Stato”», cioè un’entità politica che fosse di tutti, e li spingeva invece a privilegiare piuttosto il partito come «formazione politica originaria»: la cultura dell’antifascismo non era capace di intendere la democrazia «in altro senso che non sia un senso militante, come strumento di lotta all’antidemocrazia». Per cui finiva per ignorare il cammino precedente degli ideali democratici, «la verità dei classici, la verità dei cristiani».

Insomma, Baget Bozzo negava che il mito resistenziale – quale veniva elaborato dai nuovi antifascisti – potesse diventare «il fondamento del nostro Stato». Così inteso, esso finiva per rimuovere l’esperienza fascista («Signori, il Fascismo non è mai esistito, eravamo tutti antifascisti e noi siamo quelli della Resistenza»), la sconfitta militare del 1943 e soprattutto – dirà in un discorso del 1961 - recidere la continuità della storia d’Italia: «L’Italia ha altre grandezze. Un Paese che ha 2600 anni di storia ha molti altri titoli di continuità nazionale e di valore e non può fondare la sua dignità politica su di un solo fatto recente che ha un valore storico limitato». Si avverte qui un Baget Bozzo “giobertiano”, che al di sotto della “forma-Stato”, guardava a un’Italia profonda, in cui si sono stratificate esperienze millenarie, fra cui primaria quella cristiana: «non possiamo rifiutare nulla della storia d’Italia», aveva dichiarato icasticamente Baldo Scassellati nella presentazione di «Terza generazione», mentre il mito della Resistenza come un vichiano “nuovo cominciamento” ne rifiutava gran parte, in quanto prologo in cielo del fascismo.

Queste posizioni rimasero per allora isolate, ma – attraverso un percorso sotterraneo – avrebbero avuto poi effetti importanti. Discutendo con Primo Siena, Baget aveva indicato, come compito fondamentale della cultura italiana, quello di pervenire a «una valutazione oggettiva, non fascista né antifascista, del fascismo». L’esigenza da lui espressa trovava il pieno consenso di un altro collaboratore della rivista, Augusto Del Noce, che, sul «Mulino», aveva scritto cose analoghe fra il 1957 e il 1958: a suo giudizio, il problema della «valutazione oggettiva» del fascismo occupava un «posto assolutamente primo […] nell’ordine di importanza, sotto il profilo della cultura che interessa la decisione politica». Così, il 15 aprile 1960, egli avrebbe pubblicato sull’«Ordine civile» – proprio rifacendosi alla risposta dell’«amico Baget» a Primo Siena – Idee per l’interpretazione del fascismo, un saggio destinato a una singolare fortuna. La sua lettura sarebbe stata una folgorazione per un giovane storico “non incardinato” (come si direbbe oggi), che allora stava lavorando sulla storia degli ebrei italiani sotto il fascismo: aprì orizzonti nuovi proprio alle sue riflessioni sul fascismo. Renzo De Felice lo dichiarava esplicitamente nella recensione che gli dedicava nel novembre del 1960: segnalava alcune recenti «indagini particolari» in cui «il problema del fascismo era stato riproposto in termini nuovi e – finalmente – veramente critici, interpretativi, in una parola, storici. Termini nuovi dai quali non si potrà – crediamo - più prescindere». Riconosceva che «il la alla discussione era stato dato da un breve ma penetrante articolo di Augusto Del Noce» sull’«Ordine civile»:

Partendo da un’affermazione di Baget Bozzo sulla stessa rivista secondo la quale è ormai necessario passare ad una valutazione oggettiva, non fascista né antifascista, del fascismo, il Del Noce, dopo aver brevemente dimostrato l’inadeguatezza a tale fine delle correnti “internazionali” del fascismo, ha chiaramente e convincentemente affermato la necessità di muovere, per effettuare questa valutazione oggettiva, dall’indagine del “momento culturale” del fasci¬smo stesso.

Da qui nasceva la riflessione che avrebbe portato De Felice, nel 1965, al primo volume della sua grande biografia mussoliniana. Come si vede, le idee sono come messaggi in una bottiglia: talora giungono a destinazione.

domenica 24 maggio 2009

6 / 7 giugno 2009 - Elezioni (clik)

QUESTO IL QUADRO DEPRIMENTE DEL MOMENTO.

L’OPPOSIZIONE CIPRIA E VELENI
di Maria Giovanna Maglie
Nell’accanimento con il quale una sinistra sparpagliata di leader senza seguito, direttori di giornali livorosi, magistrati faziosi, intellettuali poco occupati, vignettisti che non trovano la satira, conduce la campagna di odio e calunnie contro il presidente del Consiglio, c’è sicuramente tutta l’eredità storica di una formazione politica composita che un tempo fu anche forza, ma che anche allora sceglieva, in questo profondamente unita, il metodo leninista dell’attacco personale e della distruzione della persona invece della battaglia politica a viso aperto, della definizione di un’agenda alternativa credibile di governo. La storia della seconda Repubblica cominciò così, un golpe giudiziario mediatico che prese il posto della vittoria dell’alternanza, e quando ai vecchi avversari, agli statisti illuminati che furono eliminati, distrutti dalla vergogna di Tangentopoli, si sostituì provvidenzialmente l’iniziativa politica di Silvio Berlusconi e la gloriosa macchina da guerra della sinistra fu sconfitta, allora cominciò l’attacco personale costante, continuo, sordo. Sono passati quindici anni, hanno anche vinto elezioni, hanno governato, l’ultima volta per meno di due anni e con pessima figura, eppure il metodo non cambia. Anzi, più i sondaggi li puniscono, più la prospettiva del giudizio popolare nel voto del 6 e 7 giugno si fa rischiosa, insomma più sono disperati, più in basso cadono nel delirio accusatorio, tentando di far vedere anche agli italiani, i quali in maggioranza secca li rifiutano, che ripongono fiducia in un mostro, anzi il Mostro, sognando, anzi vaneggiando, che votino non per loro ma contro di lui. Ultima venne la cipria, un segreto tremendo che evidentemente il premier voleva nascondere, e che una gloriosa fotografa ha scoperto, rivelando così che all’uomo piace presentarsi in pubblico con il viso opaco, a posto, invece che sanamente unto e lucido, di fronte alle telecamere.
Fuor di battuta, perché c’è poco da scherzare, l’elenco delle polemiche pretestuose e dei falsi scandali ha preso interamente il posto dell’azione politica dell’opposizione italiana. È sconcertante, anche se il declino non stupisce chi li osserva da decenni, incapaci di rifondarsi e di riformarsi, inetti alla scelta più semplice e naturale che a suo tempo avrebbero dovuto compiere: diventare autenticamente socialdemocratici. Oggi gli tocca correre dietro ad Antonio Di Pietro, vedremo con quali risultati.
Oggi gli tocca fingere, ancora una volta come se gli italiani fossero un branco di fessi, che è materia da impeachment, da dimissioni, sostenere, come ha fatto il premier nel discorso agli imprenditori, che il nostro Parlamento necessita di riforma urgente, perché è pletorico, seicentotrenta deputati e trecentoquindici senatori per un Paese di sessanta milioni di abitanti, perché le due Camere si occupano delle stesse cose, perché tra gli eletti ci sono persone che non si vedono mai, e quelle che ci sono spesso votano leggi che non conoscono, gravate da centinaia di emendamenti, per le quali decide il capogruppo. Non c’è forza politica che negli ultimi anni non abbia sollevato le stesse argomentazioni, non c’è fondazione o pensatoio che non sudi la riforma del Parlamento, e la necessità, sull’esempio del resto d’Europa e del mondo democratico, di attribuire maggiori e più veloci poteri all’esecutivo e al suo capo, che è eletto e non designato, ma se lo dice Berlusconi allora è golpe.
L’elenco può tediare, ma è utile farlo per ricostruire la pochezza, la risibilità, delle ragioni «contro» di cui si nutre l’opposizione. È cominciata con il terremoto in Abruzzo, una disgrazia terribile nella quale l’immagine e la funzione del governo, la rapidità di risposta e assistenza, la presenza solidale e non formale, l’urgenza delle decisioni intraprese per la ricostruzione, l’impegno assunto con date precise per le nuove case, sono state sotto gli occhi di tutti. L’impatto positivo è stato tale da convincere in un primo momento il partito Democratico a un atteggiamento responsabile, ma è durata poco, il tempo di un Anno Zero, e di un Santoro incensato dopo gli attacchi pretestuosi e ingenerosi rivolti ai volontari e alla protezione Civile. All’Aquila si terrà il G8, perché la popolazione colpita dal terremoto non viene dimenticata, anzi è all’attenzione dei Grandi del mondo, ma all’Aquila si stanno dirigendo anche gli estremisti e i terroristi, i no global che hanno appena minacciato a Torino la riunione internazionale sull’Università, distruggendo e attaccando la polizia, e che sono stati difesi a spada tratta dagli esponenti dell’opposizione.
Il livore si è concentrato anche sulle vicende private e personali della vita del premier. È diventato argomento politico per un tempo e una intensità estenuanti la separazione dalla moglie, e poco conta che la signora abbia inappropriatamente scelto di esternare le sue amarezze e le sue decisioni, invece che al coniuge, ai familiari e all’avvocato, come di solito fanno le coppie, alle agenzie di stampa e ai giornali. Loro ci si sono gettati sopra, uno sciacallo non sarebbe stato capace di fare di meglio. Il livore ha gonfiato e gonfia ancora oggi di significati sospetti anche la partecipazione a una festa di compleanno. La ragazza Noemi è stata massacrata, un mostro sbattuto in prima pagina e chi se ne frega dell’onore perduto, ingannata, adulata con interviste finte buone, manipolata. Le proprietà della sua famiglia sono state rese pubbliche. Accompagnata dalla madre ha partecipato alla festa del Milan, insieme ad alcune migliaia di altre persone, e le due sono finite sedute, ben lontane dal premier, vicino a un Fedele Confalonieri ignaro? Signori, l’indignazione monta, e si presentano interrogazioni, interpellanze parlamentari urgenti, laddove si dimostra quanto utile sia l’attività dell’istituzione medesima.
In articulo mortis un giudice ampiamente screditato e manifestamente fazioso ignora le dichiarazioni dell’imputato, l’inglese Mills, ed emette una sentenza che dovrebbe far ripiombare nel vortice giudiziario Berlusconi.
Queste sono le carte con le quali i partiti di opposizione si presentano alle prossime elezioni, europee e amministrative. Tanti auguri.

sabato 23 maggio 2009

LA LETTERA DI MELANIA RIZZOLI DEPUTATO PdL - LA PRESSE

«Cara Veronica, parli con suo marito»

Dia ai suoi figli un vero esem­pio di vita, esca da quella ca­sa dorata e si faccia vedere tra le donne italiane

Melania Rizzoli (LaPresse)
Melania Rizzoli (LaPresse)
Cara Veronica,

le scrivo una lettera pubblica a nome mio e di molte mie colleghe parlamentari. Tutte noi abbiamo letto le parole da lei espresse nei confronti di suo marito e tutte noi ne siamo rimaste molto colpite. Non è nostra intenzione commentare le sue iniziative me­diatiche che evidentemente esprimono un disagio profondo, ma desideriamo farle co­noscere il nostro, di disagio, sicuramente di­verso dal suo, ma forse meno personale, poi­ché comprende l’universo femminile italia­no.

Noi deputate del Pdl riteniamo che la sua esternazione pubblica abbia fatto tornare indietro di colpo di cinquant’anni le donne, a quando erano comandate dal maschio dominante ed erano bersaglio del maschili­smo becero, a quando veni­vano considerate solo corpi da guardare e sesso da gode­re, mentre le proprie mogli erano solo madri e necessa­riamente casalinghe. Il no­stro disagio si è concretizza­to alla lettura dei giornali di queste settimane, in cui si sono sprecati i ritratti di donne aspiranti a qualun­que cosa, con foto di ragazze seminude (comprese le sue), con puntuali citazioni di amanti e di peccati, abbiamo letto il velato disprezzo per le donne che comunque sfiora­no il mondo 'porno' dello spettacolo, i titoli umilianti scelti (velina ingrata), ed il ritrat­to della donna italiana è tornato, in tre set­timane, ad essere quello desolante che a fa­tica ci eravamo illuse di aver cancellato. L’eco delle sue parole è arrivato sulla stam­pa estera, dove le italiane sono state dipin­te come cortigiane, tutte seno e labbra rifat­te, e l’Italia, il cui Capo del Governo ha il cognome che porta lei ed i suoi figli, ritratta come un Paese di veline, tutte col book foto­grafico sotto il braccio, che mostra il 'lato B', nostro orgoglio nazionale!

Cara Veroni­ca, la potenza del suo amaro messaggio, scelto sicuramente con dolore e con determi­nazione, ha provocato l’esplosione di una mentalità sopita e mai soppressa. Noi depu­tate avvistiamo in Transatlantico ammic­canti sorrisi maschili ed ascoltiamo com­menti compiaciuti rivolti alla sessualità, grazie a lei invidiata, del nostro Premier. Cara Signora Berlusconi, lei ha sposato un uomo fuori dal comune, che ha sempre avu­to quel carattere che lo contraddistingue e che è parte del suo fascino, come lei stessa ha riconosciuto più volte, e suo marito avrà per lei dei difetti anch’essi fuori dal comu­ne, ma deve riconoscere che ha anche una personalità talmente travolgente da averle fatto dichiarare che difficilmente ne avreb­be fatto a meno.

Cara Veronica, ci stupisca ancora, visto che la sua voce ha una eco così vasta, faccia qualcosa di concreto a favore delle donne. Dia ai suoi figli un vero esem­pio di vita, esca da quella ca­sa dorata e si faccia vedere tra le donne italiane, quelle che tutte le mattine vanno al lavoro per portare a casa lo stipendio. Faccia tornare sui giornali le notizie del terre­moto d’Abruzzo e della crisi economica mondiale. Usi la sua forza mediatica non per distruggere ma per costrui­re, come ha sempre fatto nel­la sua vita. Abbandoni la sua solitudine e lasci perdere i famelici av­vocati e gli eventuali interessati consiglieri, e segua le ragioni del suo cuore perché, per dirla come Pascal: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce».

Cara Veronica, torni a parlare con suo ma­rito, privatamente però, e con la vostra fa­miglia che cresce, perché da soli, dopo tan­to amore e dopo tanta vita, è come un lutto, si soffre, si piange e si sta male, specie se i sentimenti non sono morti, ma restano an­cora vivissimi.

Con affetto e stima

Melania Rizzoli
deputato Pdl

23 maggio 2009

giovedì 21 maggio 2009

Fumetti porno, Genova spiega il sesso ai bimbi

A cos'altro dovremo soggiacere ?
Come si può non essere anticomunisti ?

mercoledì 20 maggio 2009

lunedì 18 maggio 2009

LA DIMOSTRAZIONE, CALDAROLA E' DEI LORO.

lunedì 18 maggio 2009, 09:42

Vent'anni di crolli, così la sinistra è stata seppellita dalla sua stessa risata

di Peppino Caldarola

Vent’anni dopo l’89 il muro sta ancora crollando. Non sono i sondaggi a indicare la fine della sinistra. Non c’è più nulla del passato che sia rimasto in piedi. Gli operai, l’Emilia rossa, gli intellettuali cominciano a guardare da altre parti. Sul suo nuovo giornale, Piero Sansonetti proclama che la sinistra, tutta quanta, è da buttare. Gli operai di Pomigliano d’Arco guidati dai Cobas rovesciano il palco dal quale stava parlando il più radical dei sindacalisti della Cgil, il capo della Fiom Gianni Rinaldini. Claudio Magris, raffinato intellettuale mitteleuropeo, se ne va con Di Pietro assieme a Camilleri, l’inventore del commissario Moltalbano, e al poeta Valerio Magrelli. C’è chi dice che anche Umberto Eco non ne possa più di questa sinistra.

Se volete leggere un testo di dura critica della globalizzazione, dovete prendere tra le mani uno degli ultimi libri di Giulio Tremonti dimenticando quelli scritti dai dirigenti della sinistra che scoprirono il liberismo nel momento in cui entrava in crisi. Tutto è cominciato in una serata di inizio autunno quando il segretario del Pci, Achille Occhetto, di fronte ai partigiani riuniti alla Bolognina, annuncia la fine di una storia. È il big bang della politica italiana. A sinistra è una svolta storica, un dolore per tanti, una festa per molti. Il più clamoroso dramma politico del dopoguerra si consuma in pochi minuti e dura tuttora. Senza una narrazione e un'autocritica. Un mondo antico si piega alla novità ma non si spiega. E' da allora, da quel gesto necessario e inevitabile, che la sinistra ha smarrito la strada.

Caduto l’universo simbolico comunista, rifiutato quello socialdemocratico, la sinistra è caduta in preda all’anarchia culturale. Persino il carattere drammatico di una storia che si sta consumando si è rovesciato nel suo contrario. Chissà che cosa penserebbe Carlo Marx oggi guardando come la sua profezia, «una risata vi seppellirà», viene applicata da molti militanti agli innumerevoli e incomprensibili girotondi della vecchia sinistra. Mentre tutto attorno a sé cambiava, la sinistra italiana ha cercato la scorciatoia nelle sue numerose metamorfosi. Nelle sezioni c’erano gli stessi compagni che ogni due anni venivano costretti a cambiare la targa.

Un vecchio militante mi disse al tempo di Occhetto: «Se il partito ha deciso di sciogliersi ha ragione il partito». Per anni questa frase ha rincuorato gli iscritti e ha serrato le fila finché molti si sono stufati e hanno cominciato a starsene a casa o a votare dall’altra parte. Sono crollati in pochi anni il mito del lavoro, il mito della solidarietà, il mito del partito. Il divorzio dalla classe operaia è stato brusco ma largamente annunciato visto che fin dal ’93 uno studio Fiom aveva rivelato che molti operai del Nord votavano per la Lega. Ma la sinistra aveva abbandonato le fabbriche alla ricerca di nuove basi sociali che non ha mai più trovato.

Le tute blu non sono state sostituite dai ricercatori, da quelli delle partite Iva o dai ragazzi dei call center. La retorica della solidarietà si è scontrata con la crescita di periferie urbane affollate di immigrati che entravano in conflitto con i residenti. Nelle sezioni del Pd dell’Emilia Romagna o di Milano oggi si raccoglierebbero più consensi alla linea favorevole ai respingimenti di Sergio Chiamparino che alle accuse di Dario Franceschini. Solo chi ha vissuto per anni nella sinistra o l’ha osservata da vicino può capire la ferita rappresentata dalla fine dell’idea di partito. È un universo comunitario che è venuto meno portando via con sé relazioni cementate da anni, intrecci familiari, consuetudini antiche. Oggi il dirigente più bravo non è quello che ascolta ma il facilitatore di pratiche, quello che sa tutto di appalti, di banche e di amministrazione. Persino l'antica divisione fra riformisti e massimalisti ha perso senso. A sinistra si fanno e si disfano alleanze in cui estremismo e moderatismo un tempo divisi vanno a braccetto.

L’ex gruppo dirigente di Rifondazione comunista che due anni fa rifiutò ogni intesa con la Costituente socialista oggi si allea con ciò che rimane di quel progetto. Non sono più le risse interne al Pd ad appassionare i delusi della sinistra. A furia di proclamare la necessità di andare «oltre» sta succedendo che molti cittadini con il cuore a sinistra se ne sono andati «oltre» per i fatti loro. Il partito è rimasto solo come fabbrica di «ego-mostri», dirigenti uguali nel tempo che producono cloni impresentabili. Scriveva Aldo Cazzullo, un acuto giornalista del Corriere della sera nel libro «Outlet Italia»: «La sinistra comunica un senso di diversità, di primato morale, di distinzione aristocratica nei confronti del resto dell’umanità, che comporta la vocazione alla minoranza: noi siamo migliori di voi». Il dramma è che non ci crede più nessuno.

COSI' LA SINISTRA OGGI (click)

L’ANNOZERO DEI VIOLENTI

di Mario Giordano

Addio sinistra, resta l’estremismo. Lo stiamo raccontando da mesi, ma in queste ore lo si è visto raffigurato pubblicamente, a Torino, dal corteo Cgil al Salone del Libro, come in una duplice e drammatica installazione di arte politica contemporanea: la crisi irreversibile del Pd lascia il posto alle forze brute della caciara, agli agitatori di rissa, ai propalatori di violenza verbale e, in alcuni casi, anche fisica. La si potrebbe chiamare tendenza Santoro. La piazza che si trasforma in ghigliottina, l’onda emotiva di un odio che diventa sempre più settario e perciò sempre più cupo, l’uso delle parole come armi di scontro e non di confronto: ecco quello che sta fiorendo sulle macerie della sinistra.
È significativo che tutto ciò parta da Torino. Torino è la culla dei fermenti della sinistra, davanti ai cancelli della Fiat è passata la storia sociale di questo Paese. Ora a Torino sono successe, contemporaneamente, due cose importanti: da una parte i violenti del sindacato hanno impedito a un delegato Fiom (si badi bene: Fiom, cioè l’ala più radicale della Cgil) di parlare; dall’altra parte il Salone del Libro si è trasformato in una specie di Di Pietro pride, la manifestazione dell’orgoglio Tonino, con Travaglio superstar a insolentire chiunque, dal presidente della Repubblica in giù, e la corte delle tricoteuses girotondine ad applaudire.
Che nesso c’è fra i due avvenimenti? Semplice: entrambi sono determinati dalla inarrestabile crisi della sinistra democratica. Essa, infatti, negli ultimi tempi ha perso definitivamente il controllo della piazza e della cultura, del sindacato e del pensiero, del mondo operaio e del mondo intellettuale. E così lascia spazio alle frange estreme, agli urlatori di professione, ai presunti immacolati, alla casta dei robespierre che non hanno alcun progetto politico, se non la distruzione dell'avversario.
Prendiamo le fabbriche. Lo smottamento della sinistra è evidente. Gli operai non trovano più un riferimento in quel sistema di potere che ha arricchito nel corso degli anni solo il sindacato (con metodi spesso discutibili, di cui oggi vi diamo un’altra ampia dimostrazione). Non è un caso se, come rivela l’Ocse, gli italiani oggi guadagnano il 17 per cento in meno rispetto ai loro colleghi degli altri Paesi, mentre le casse confederali continuano ad essere rigogliose. Risultato? I sondaggi confermano: la maggioranza delle tute blu sceglie il centrodestra. E gli altri? È evidente che molti non si sentono più rappresentanti da nessuno. Ed ecco il rischio di lasciare via libera ai cani sciolti, agli irriducibili della violenza, ai cobas dello sfasciotutto che si sentono in «guerra» contro l’«involuzione autoritaria dello Stato capitalista» (parole loro).
E il mondo della cultura? La situazione non è molto diversa. Fino a qualche tempo fa gli intellettuali si schieravano in massa con il Pd. Non c’era salotto chic che non esibisse il fiore all’occhiello della propria adesione alla sinistra. Non c’era scrittore che non si facesse timbrare il passe-partout dell’Intelligentia dagli eredi del Bottegone. Adesso, invece, è tutta una corsa verso gli afrori di Tonino. Che c’azzecca Di Pietro con la cultura? Niente. Eppure la passione per il trattorista di Montenero ha travolto le menti più snob, da Magris a Pressburger, e persino il Salone del Libro, seppur in versione un po’ vanity fair, si è trasformato nella passerella del dipietrismo, quasi a sancire questo strano matrimonio fra i cultori della Divina Commedia e quelli del diabolico commediante.
Voi capite la singolare circostanza. La sinistra sparisce insieme dalle stanze della cultura e da quelle del lavoro, dalle manifestazioni librarie e da quelle operaie. E l’effetto è devastante. Tutti s’interrogano in queste settimane sull’esito del voto. Ma il vero problema è l’esito del vuoto. Il nulla democratico lascia infatti campo aperto al santorismo, alle piazze incontrollate, ai fomentatori di risse verbali e non. Le frange estreme non hanno più punti di riferimento (e di contenimento) e per questo si scatenano nella violenza dei toni o dei Tonini dipietreschi. E questo è il pericolo cui stiamo andando incontro. E per questo verrebbe voglia di chiamare il Wwf per salvare quel che resta del progetto originario del Pd. Ma come si fa? Ci vorrebbe una sinistra seria, democratica, forte e intelligente. Invece, c’è solo Franceschini.

venerdì 15 maggio 2009

GIORNALI E GIORNALISTI D'ITALIA (click)

Vi racconto Scalfari, l’arrogante che ama il potere



Era troppo potente il Pci degli anni Settanta. Doveva emergere per forza qualcosa o qualcuno in grado di limitarne il consenso, l’autorità, il prestigio. Però non era possibile che fosse un partito nuovo.
Il campo risultava troppo affollato. L’Elefante Rosso e la Balena Bianca si mangiavano da soli più del settanta per cento dello spazio disponibile. Ma a insidiarli poteva essere un giornale. E fu così che, nel gennaio 1976, nacque “la Repubblica” di Eugenio Scalfari.
Avrei dovuto esserci anch’io nella pattuglia dei fondatori. Alla fine del maggio 1975, Scalfari mi telefonò per dirmi che voleva vedermi. E mi convocò per il 2 giugno, festa repubblicana, in un residence di Milano, in piazza Santo Stefano, a due passi dalla turbolenta Università Statale.
Sapevo bene chi era Eugenio. Avevo letto i suoi articoli sull’“Espresso”, uscito proprio nel giorno dei miei vent’anni. Per noi ragazzi di provincia, laici e pencolanti a sinistra, quel settimanale era un Vangelo. Alla pari del “Ponte” di Piero Calamandrei e del “Mondo” di Mario Pannunzio. Ma Scalfari l’avevo visto dal vivo una sola volta. E non mi era piaciuto per niente.
Era un pomeriggio del gennaio 1970. Lui guidava a Milano un corteo contro la repressione. E io stavo sul fronte opposto, ma soltanto per motivi professionali: lavoravo per “La Stampa” di Ronchey e, come si usa dire, dovevo coprire l’evento. Mi ero piazzato alle spalle del vicequestore Vittoria, un signore di mezza età, mite, cortese. Di solito toccava a lui decidere la carica della polizia. Con un sospiro, si metteva l’elmetto, indossava la fascia tricolore e ordinava i regolamentari squilli di tromba.
Accadde così anche quel pomeriggio. Però non rammento se la carica fu violenta o blanda. Ricordo bene, invece, la figura di Scalfari, a quel tempo deputato socialista. Non aveva ancora la barba e si difendeva dal freddo con un magnifico tre quarti di montone. A non piacermi fu la sua aria supponente. E le occhiate arroganti che scagliava sul povero dottor Vittoria. Come per dirgli: io sono io e tu non sei nessuno. Ma adesso che ci penso, le occhiate di Eugenio potevano essere di apprensione e anche di paura. Del resto, Scalfari non era abituato agli scontri di piazza.
Quel 2 giugno 1975 ci scrutammo per bene. Lui aveva cinquantun anni ed era un direttore famoso, io ne avevo trentanove e lavoravo da inviato per il “Corriere” di Piero Ottone. Scalfari mi mostrò le prove grafiche della futura “Repubblica”. Ebbi l’impressione di un giornale piccolo e magro, anche se molto innovativo. E non ne rimasi entusiasta. A colpirmi fu Scalfari. Ieratico, fervido, sicuro di sé, del tutto tranquillo e certissimo di riuscire nell’impresa.
Mi spiegò che “la Repubblica” non sarebbe stata un giornale omnibus, buono per tutti i lettori. Voleva rivolgersi a una classe-guida: gli imprenditori, i quadri sindacali, i funzionari, gli insegnanti, gli studenti, i politici nazionali e locali. Aggiunse che intendeva fare un quotidiano liberal. Capace di essere una voce della sinistra, ma senza riguardi per nessuno, a cominciare dagli errori e dai difetti della sinistra italiana alla quale si sarebbe rivolto.
Poi concluse annunciando che aveva già iniziato a costruire la squadra di “Repubblica”. E snocciolò i nomi di Gianni Rocca, il suo secondo, di Giorgio Bocca, Natalia Aspesi, Massimo Fabbri, Gianni Locatelli. Volevo aggregarmi alla compagnia come inviato sulle faccende italiane? Gli dissi di no. Intendevo lasciare il “Corriere” soltanto dopo la partenza di Ottone. Lo ringraziai e ci salutammoQuando “la Repubblica” apparve, il 14 gennaio 1976, in via Solferino le risate si sprecarono. Lietta Tornabuoni sogghignò: «Sembra il “Corriere dei piccoli”!». La nostra sicumera divenne alterigia il giorno che cominciammo a misurarci con i giovanotti di Eugenio. A parte la pattuglia di giornalisti senior, erano dilettanti allo sbaraglio. E inclini alle balle spaziali. Nel giugno 1976, quando a Genova le Br uccisero il magistrato Francesco Coco e la sua scorta, “Repubblica” sparò un titolone di prima pagina che strillava: “I carabinieri lo sapevano”.
Poi il “Corriere” di Ottone finì. Il 21 ottobre 1977 Piero se ne andò appena in tempo per non incocciare l’epoca della Loggia P2. Scalfari fu così generoso da ripresentarmi un contratto da inviato. E all’inizio di novembre misi piede in piazza Indipendenza. In compagnia di Bernardo Valli, anche lui uscito da via Solferino.

Ho lavorato a “Repubblica” per quasi quattordici anni: il primo da inviato, gli altri da vicedirettore a fianco di Rocca. Non mi era mai successo di restare tanto a lungo in un quotidiano. E oggi mi sembra un tempo immenso. Impossibile da rievocare in queste pagine.
Qui mi limiterò a ricordare qualcosa su Scalfari. Il fondatore, il padre-padrone, il capo assoluto, l’anima e il corpo del giornale. “Repubblica” non sarebbe mai nata senza il suo genio professionale. E senza l’aiuto della Mondadori, allora guidata da Mario Formenton: editore coraggioso e galantuomo di quelli rari, affiancato da Giorgio Mondadori, figlio di Arnoldo.
Nell’autunno del 1977, Scalfari aveva cinquantatré anni ed era alto, magro, con una gran barba grigio bianca e il portamento fra l’altero e il solenne. Carlo Caracciolo, il suo vecchio amico e socio, avrebbe poi detto: «Eugenio porta la testa come il Santissimo in processione». Era il tocco della perfezione per il ruolo che Scalfari si era scelto: il mattatore di un quotidiano tutto diverso dagli altri. E destinato a influenzare in modo profondo la stampa italiana, obbligandola a cambiare.
Ma sulle prime il futuro di “Repubblica” non sembrava per niente fatto di rose e fiori. Quando entrai in piazza Indipendenza, il giornale non navigava in acque tranquille: vendeva poche copie e la pubblicità scarseggiava. Tuttavia Scalfari aveva un’illimitata fiducia in se stesso. Ed era convinto che, prima o poi, il successo sarebbe arrivato.
Ecco la prima regola che vidi applicare da Barbapapà, come lo chiamava la parte più giovane della redazione. La regola diceva: non dubitare mai delle proprie superiori capacità ed essere sempre certi di sfondare. Era questa sicurezza granitica a renderlo forte. E a non fargli mai perdere di vista il traguardo che si era dato: conquistare il primato fra i quotidiani nazionali.
Scalfari sapeva più di chiunque che non sarebbe stato facile arrivarci. L’ambizione non bastava, bisognava applicarsi al compito con una dedizione totale. Di chi è disposto a profondere tutte le proprie energie intellettuali e fisiche pur di non fallire, ma di vincere, e di vincere come nessuno prima ha fatto.
Anche negli anni successivi mi avrebbe sempre sorpreso la forza di Eugenio. Era una pila inesauribile di vitalità. Mi sarebbe capitato di vederlo triste, angosciato, ferito, persino umiliato, però mai stanco.
Alle dieci della sera, al termine di una giornata stressante, era inevitabile sentirsi degli stracci. Ma a Scalfari non accadeva. Ritornava in piazza Indipendenza dopo una cena di lavoro con chissà chi e si disponeva a cambiare quasi tutto. Per rimediare ai nostri errori. O semplicemente per fare meglio, sempre meglio.
Era anche un modo per riaffermare di continuo il ruolo di comandante indiscusso della squadra di giornalisti tutti scelti da lui, uno per uno. Un vantaggio del quale altri direttori non disponevano, ma che andava reso concreto ogni giorno.
Nell’autunno del 1977, la banda di “Repubblica” non superava i sessanta redattori. In parte erano firme strappate a quotidiani già sul mercato. Ma in maggioranza si trattava di giovani alle primissime armi. Su di loro Eugenio aveva un potere assoluto che lui sapeva esercitare con l’accortezza di far sentire importante chiunque.
Ne era una prova la riunione del mattino, dove si decideva il programma della giornata. L’incontro non era riservato soltanto ai capiservizio e al vertice del giornale, come accadeva nelle altre testate. Anche l’ultimo dei redattori poteva parteciparvi. Con diritto di parola, di proposta e di critica.
Barbapapà ascoltava tutti. O fingeva di ascoltarli. Su un foglietto prendeva nota delle obiezioni e dei consigli, anche quando sapeva che erano inutili o da non tenere in conto. Era un esempio astuto di democrazia professionale che serviva a registrare gli umori della truppa e, al tempo stesso, ribadire la propria autorità. E ogni volta, dopo aver fatto un esame impietoso del numero appena uscito, Scalfari informava la sua gente sui progressi nella vendita del giornale.
A partire dalla primavera del 1978, quando ebbe inizio il boom di “Repubblica” grazie al lungo sequestro di Moro, tutte le mattine Scalfari leggeva alla redazione il bollettino della diffusione. Da allora mantenne questa abitudine sempre, con una scansione via via più trionfale: «Abbiamo superato “Il Messaggero”, vendiamo più della “Stampa”, ci stiamo avvicinando al “Corriere”...». Rammento un suo proclama scherzoso: «Quando avremo battuto il “Corrierone”, vi sarà riconosciuto il diritto allo stupro e al saccheggio!».
Ma il tono del comandante in capo non sempre poteva essere trionfale. Spesso risultava arduo trasformare un’idea giusta o un’intuizione felice in un articolo ben fatto, croccante, scritto con eleganza vivace ed esattezza di dati. In quel caso, Barbapapà era costretto a vestire i panni dell’insegnante deluso, alle prese con una scolaresca riottosa a imparare.
Ho sott’occhio un suo ordine di servizio del 21 dicembre 1978, consegnato a tutti i redattori: “Cari colleghi, devo dirvi con molta franchezza che la qualità media del lavoro, sia di scrittura che di controllo e messa in pagina, e anche di acquisizione di notizie, è deludente. In questo periodo ci sono stati esempi macroscopici di trascuratezza, di leggerezza professionale e addirittura di irresponsabilità. Questa situazione si protrae fin dall’inizio della vita di ’Repubblica’...”.
Spesso i rilievi erano diretti a singoli giornalisti, sempre per iscritto. Anche in quel caso la lezione era dura, ma si concludeva con un consiglio per poter “fare meglio”. Ne leggo una: “Roma, 23 febbraio 1980. Caro X, il tuo pezzo di ieri è nettamente inferiore alla tua capacità e all’importanza del fatto di cronaca che ti era stato affidato... Fin dalle prime righe il servizio deve portare il lettore al centro dell’atmosfera di quanto è accaduto. Ha bisogno di una prosa adeguata. Di una descrizione dei personaggi da far rivivere sulla pagina, con i loro sentimenti, le loro angosce, i loro dolori, la loro violenza... Fare il cronista non è un mestiere facile, richiede spessore umano, intuito, rapidità, cultura”.
Ma è nel rapporto con i partiti che Scalfari si rivelò imbattibile. Nel confronto-scontro con le tante parrocchie politiche, a cominciare dalle più forti, Eugenio era mosso da una convinzione ferrea: il direttore di “Repubblica” contava molto di più di qualsiasi leader di partito. Riassunta così può apparire una presunzione senza fondamento. Invece era una rivoluzione copernicana per il giornalismo italiano.
Molti direttori si sentivano piccoli rispetto a questo o a quel big. Scalfari era certissimo dell’opposto. Il Sole era lui, Barbapapà, mentre i leader politici erano soltanto dei pianeti senza importanza che gli ruotavano intorno. Un giorno spiegò alla truppa: «Quando loro non ci saranno più, il nostro giornale sarà ancora qui, sempre più influente, sempre più letto».
Nel braccio di ferro con i partiti, Scalfari aveva un’arma segreta, un metodo di guerra imprevedibile e in grado di spiazzare chiunque: la linea politica libertina di “Repubblica”. L’aggettivo “libertino” gli piaceva molto, applicato al suo giornale e quando parlava di carta stampata. Per esempio, sosteneva che fare bene un settimanale come “L’Espresso” era possibile soltanto se il giornalista scelto per dirigerlo era capace del libertinaggio più sfrenato.
Lo disse quando uno dei nostri colleghi più bravi, Paolo Pagliaro, caposervizio della politica interna, lo informò di aver ricevuto un’offerta dal settimanale di via Po e che l’aveva accettata. Scalfari tentò invano di dissuaderlo. Gli disse: «Tu sei un uomo d’ordine, tutto d’un pezzo, molto coerente e rigido anche con te stesso. Sei il contrario del libertino. Quello che invece occorre a un giornale come “L’Espresso”».
Per direttore libertino, Eugenio intendeva un giornalista spregiudicato, fantasioso, sorprendente, capace di cambiare sempre cavallo e non impacciato da troppi lacciuoli. E anche pronto a contraddirsi. Disposto a pubblicare un servizio o un’opinione che smentiva quanto aveva stampato nel numero precedente. Determinato a ospitare firme che facevano a pugni l’una con l’altra.
“La Repubblica” di Scalfari fu per anni un giornale dedito al libertinaggio intelligente. La pagina dei commenti non era monocorde come accade oggi. Anche gli articoli sfornati dalla redazione spesso si contraddicevano. L’esempio più clamoroso fu la coesistenza di due linee opposte nel raccontare e giudicare il terrorismo brigatista: quella di Bocca e la mia.
Nella primavera del i 1980, Scalfari arrivò al punto di farci scontrare in un dibattito destinato alla pubblicazione. Il risultato fu una doppia pagina della sezione Cultura, scritta da un giovane e preoccupato Lucio Caracciolo. Anche in questa scelta l’obiettivo di Eugenio era sempre lo stesso: raccontare la complessità della situazione italiana, conquistare nuovi lettori e dimostrare ai partiti che era lui, e non loro, a condurre il gioco.
Dall’avamposto di piazza Indipendenza, il Libertino andò subito all’assalto dei lettori comunisti, strappandoli uno per uno a una tetra “Unità” e a un traballante “Paese sera”. Scalfari vinse a mani basse. Tanto da far dire a Giancarlo Pajetta: «“La Repubblica” è il secondo giornale dei comunisti che però lo leggono per primo».
I militanti del Pci vennero conquistati con la linea della fermezza nei molti giorni del sequestro Moro. Il calvario del leader democristiano fu raccontato da noi con una cura senza precedenti. E procurò al giornale un successo di vendite decisivo. La prima fotografia di Moro nel carcere delle Brigate Rosse mostrava il prigioniero che teneva in mano una copia di “Repubblica”. Uno spot orrendo, ma formidabile. Quasi una manna dal cielo, che nessuno in piazza Indipendenza si aspettava.
I democristiani cominciarono a leggere “Repubblica” nello stesso periodo. Compresi quelli che erano per la trattativa su Moro. E non l’abbandonarono più. In seguito, quando Ciriaco De Mita divenne segretario della Dc e restò a Piazza del Gesù per sette anni, dal 1982 al 1989, il Libertino si prese una sbandata per l’Uomo di Nusco. Era convinto che avrebbe modernizzato l’Italia, al punto di trasformarla in una Svizzera mediterranea. Ma si ravvide presto. E soprattutto non si sentì mai inferiore al gran capo della Balena Bianca: era Scalfari a consigliarlo, e non il contrario.
Fu a corrente alternata anche il rapporto con Bettino Craxi, divenuto segretario del Psi proprio nell’anno di nascita di “Repubblica”. Ma in questo caso il libertinaggio di Scalfari fu assai contenuto. I due non si potevano soffrire, com’era fatale tra protagonisti che un tempo avevano vissuto nello stesso partito.
Erano diventati deputati nel medesimo anno, il 1968, e nella medesima circoscrizione, la Milano-Pavia. E lì avevano cominciato a non sopportarsi. Per le solite questioni legate al voto di preferenza, ma soprattutto a causa del carattere, più ancora che della posizione politica.
Bettino riteneva Eugenio un subdolo filocomunista e lo avversava con asprezza. E non poteva accettare che un direttore di giornale si sentisse superiore a chi era stato scelto dagli elettori, ossia dal popolo. Eugenio lo ripagava con gli interessi. A dividerli senza rimedio fu poi una disistima profonda.
Durante il sequestro di Moro, lo scontro divenne pesante. Craxi era per la trattativa e Scalfari per la fermezza. L’elezione di Sandro Pertini al Quirinale, sostenuta da “Repubblica” e contrastata invano da Bettino, li separò ancora di più.
I craxiani arrivarono a dire che Barbapapà era il capo del Pinf, il Partito irresponsabile dell’informazione. Eugenio li ricambiò coniando per il leader del Psi il soprannome di Ghino di Tacco, il bandito di Radicofani. Senza mettere nel conto che, per schernirlo, Craxi avrebbe cominciato a firmare in quel modo i suoi corsivi sull’“Avanti!”.
Nella primavera del 1989, Scalfari e Caracciolo vendettero a Carlo De Benedetti le loro azioni del Gruppo Espresso-Repubblica. E diventarono miliardari. L’Ingegnere gli suggerì di costituire un fondo di solidarietà per i giornalisti del quotidiano e del settimanale. Così avrebbero potuto aiutare i colleghi in difficoltà e le loro famiglie, utilizzando una quota microscopica dei tanti denari ricevuti.
Ma entrambi rifiutarono il consiglio di De Benedetti. Per tirchieria o perché non ritenevano che tra i loro compiti ci fosse anche la beneficenza. Smentendo la loro proverbiale astuzia di imprenditori, non seppero rendersi conto di quanto stava per succedergli in casa. O forse lo immaginavano, però se ne infischiarono.
Dopo la vendita, un malumore prima mai visto incrinò la redazione di “Repubblica”. E anche il carisma di Barbapapà ne fu intaccato. Lo si vide alla fine di quell’anno, quando Silvio Berlusconi scatenò la guerra di Segrate per la conquista della Mondadori e di “Repubblica”. Una parte dei giornalisti, con Bocca in testa, si schierò con il Cavaliere, suscitando l’ira stupefatta di Eugenio.
Poi emerse la mediazione di Giulio Andreotti, condotta con intelligenza da Giuseppe Ciarrapico. Il Libertino salvò il giornale, ma non il proprio mito personale. Rimase il comandante in capo di piazza Indipendenza. Però troppo carico di soldi per poter conservare l’immagine illibata che tutti i leader debbono sempre mostrare alla truppa che li segue.
Cominciò qualche partenza non prevista da Eugenio. Il primo ad andarsene subito, all’inizio del 1990, fu Peppino Turani. Sembrava molto legato a Scalfari e aveva scritto con lui Razza padrona, un bestseller sul capitalismo italiano, uscito nel 1974. Era la star dell’economia di “Repubblica” e passò al “Corriere della Sera” proprio quando stava cominciando lo scontro con Berlusconi. Barbapapà si sentì pugnalato alla schiena. Ma qualche anno dopo gli perdonò lo sgarbo e lo volle di nuovo al giornale.
Io lasciai “Repubblica” nell’estate del 1991. A guerra di Segrate conclusa e dopo aver pubblicato nel 1990 dalla Sperling & Kupfer L’intrigo, un libro molto repubblicano, anzi scalfariano, sul conflitto con Berlusconi. Claudio Rinaldi mi aveva chiesto di andare con lui all’“Espresso”. Scalfari non la prese bene, come se il mio fosse un gesto di insubordinazione. O un tradimento. Quando lo seppe, mi disse a denti stretti: «La tua stanza resterà vuota. E Rocca rimarrà l’unico vicedirettore».
Nell’aprile 1996 anche Scalfari se ne andò, lasciando la direzione del giornale al più giovane Ezio Mauro. Da pochi giorni aveva compiuto settantadue anni. Rimase nel gruppo, come editorialista principe di “Repubblica” e dell’“Espresso”. Via via diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo. E lo sguardo non più rivolto alla ciurma redazionale, bensì a un orizzonte lontano che pochi riuscivano a intravedere.
Il trascorrere degli anni ha cancellato i rapporti tra noi. Per colpa mia o per colpa sua? Forse per colpa di entrambi. Quando morì Rocca, ci ritrovammo a dare l’ultimo saluto a un amico che, con Barbapapà, aveva costruito più di chiunque il successo di “Repubblica”. Nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi.
Non ne rimasi stupito. Era il febbraio 2006 e avevo già cominciato a pubblicare i miei lavori revisionisti. Sapevo che a Scalfari non erano piaciuti. L’aveva fatto capire nel rispondere a una lettrice del “Venerdì”, il supplemento settimanale di “Repubblica”. Quella signora gli aveva chiesto se avrebbe letto un mio libro uscito in quei giorni. Eugenio rispose di no. E si disse certo che non potevo aver raccontato nulla di nuovo.
Scalfari aveva un rapporto curioso con il fascismo. Da giovane era stato un mussoliniano entusiasta e aveva scritto su “Roma fascista”, il giornale del Gruppo universitario della capitale. Poi era stato espulso dal Guf per aver sostenuto in un articolo che il partito era inquinato nella sua tempra morale da profittatori attenti solo ai propri interessi.
Dopo l’armistizio non aveva fatto nessuna scelta. Troppo astuto per aderire alla Repubblica sociale e poco coraggioso per andare con i partigiani. Quando aveva vent’anni riparò con i genitori in Calabria, a Vibo Valentia, in una proprietà degli Scalfari. Dove se ne rimase tranquillo sino al 1946.
Nei tanti anni trascorsi insieme a “Repubblica” non abbiamo mai discusso della guerra civile. Eravamo antifascisti entrambi. Ma di quella guerra, e delle polemiche storiografiche e politiche su una stagione di sangue, a Eugenio non importava niente. Forse le considerava faccende senza rilevanza, vecchie e noiose. Faccende da reduci. E lui non era reduce da nulla.
Quando gli capitava di occuparsi della Resistenza, Scalfari di solito si sdraiava sul luogo comune, sulla linea più banale. Ma incappando in giudizi non sempre coerenti. All’inizio degli anni Novanta, scrisse in un editoriale su “Repubblica”: «La guerra partigiana e la Resistenza non furono un fatto di una piccola minoranza combattente, ma di tutto un popolo». Niente di strano, lo aveva già detto il comunista Longo, in un libro del 1947. E lo ripetevano tutti i retori della lotta di Liberazione.
Poi Giordano Bruno Guerri, sul “Giornale” del 6 giugno 1994, lo pizzicò rinfacciandogli una contraddizione. In uno dei suoi libri, L’autunno della Repubblica, pubblicato nel 1969 da Etas Kompass, aveva sostenuto l’esatto contrario: «La Resistenza fu un fatto di minoranza, limitato sia geograficamente (interessò soltanto l’Italia a nord dell’Arno) sia socialmente».
Quisquilie, cose da nulla. Rispetto alle bordate che il Pci di Berlinguer sparò contro “Repubblica”. Quando si rese conto che Scalfari era davvero un libertino. E non voleva saperne di fare i comodi delle Botteghe Oscure.

lunedì 11 maggio 2009

Raina e i suoi tappeti, passaporto per la libertà (click)

Herat Ha gli occhi neri, la bocca piccola e le mani veloci, Raina, 27 anni dei quali quattro trascorsi nel carcere di Herat. Deve scontare una pena di dieci anni per aver tentato di uccidere, con la complicità della sorella, il marito che abusava di entrambe. Il velo color amaranto le copre il capo mentre lavora al telaio con un'altra compagna.
Seduta a terra con le gambe incrociate e i piedi nudi, in silenzio, senza un movimento stonato che possa interrompere il viavai dei fili da imbastire.
Solo quando gli uomini si allontanano dal laboratorio, prende coraggio e si volta, incuriosita da questa visita inaspettata. «Chi siete?», chiede in un inglese stentato e non si tira indietro quando scopre che la sua storia finirà su un giornale. Sorride quando le diciamo che siamo italiani e, mettendosi una mano sul cuore, ci fa un inchino.
«Devo scontare dieci anni - spiega parlando sottovoce, senza mai interrompere il lavoro -, ma non sono pentita per quello che ho fatto. Mio marito ci trattava come delle bestie, non voglio più vederlo. Qui sto bene e forse potrò uscire prima del previsto».
Lavorare paga nel carcere di Herat, come un indulto che arriva in base alle tue capacità, come spiega Raina: «Dopo quattro anni passati a fare tappeti, sono diventata una "teacher". Questa qualifica mi serve per uscire prima da qui dentro e forse tra un anno sarò libera».
Diventare la responsabile di un laboratorio è una posizione ambita, che anche dentro il carcere permette piccoli privilegi, come una mezz'ora di aria in più o maggior tempo da trascorrere con in figli. «Ho avuto fortuna - spiega la donna dal volto di bambina -, la mia teacher è stata trasferita e io ho preso il suo posto. Sono brava, chiedilo al direttore, i nostri tappeti sono i migliori».
La speranza di rifarsi una vita rende i suoi occhi ancora più luminosi e le mani ancora più veloci, come se i movimenti rapidi imprimessero un'accelerazione anche al tempo che dentro queste quattro mura sembra non passare mai. «Ho voglia di uscire - prosegue -, di camminare per strada, di incontrare nuovi amici. La prima cosa che farò è cercare mia sorella, da quel giorno non l'ho più rivista, non so che fine abbia fatto. Poi voglio aprire un negozio di tappeti sulla strada principale di Herat».
Quando le guardie tornano indietro per vedere che sta succedendo, Raina si ammutolisce, davanti agli uomini non è conveniente parlare. China il capo e si volta a guardare la sua tela: quei fili che crescono sono il suo biglietto per la libertà.

Herat, quelle donne in carcere La cella? Meglio della famiglia (click)


Vorremmo questo per l'Italia ?

venerdì 8 maggio 2009

mercoledì 6 maggio 2009

Come l'Europa è diventata complice del Califfato in arrivo (click)


Alla Fiera del Libro di Torino (14-18 maggio 2009) l'editore Lindau presenta il nuovo libro di bat Ye'Or, " Verso il califfato universale ", come l'Europa è diventata complice dell'espansionismo musulmano ( venerdì 15 maggio, ore 19, spazio Autori B). Sarà presente la stessa autrice, presentata da Ugo Volli. Quale introduzione al libro, Bat Ye'Or ci ha inviato questo articolo, che pubblichiamo con grande piacere.

La maggior parte degli europei non ha ancora compreso che le loro strutture nazionali e sovrane si sono già disintegrate nel multilateralismo e il multicolturalismo. Essi credono ancora di poter agire sul proprio destino nazionale restando nella sfera democratica che si sono creati. In realtà, il potere decisionale a livello nazionale relativo alla politica interna ed estera è sfuggito loro di mano. Oggi le popolazioni dell’UE sono gestite da organizzazioni internazionali, come le Nazione Unite, la Fondazione Anna Lindh, l’Alleanza delle Civiltà, l’Organizazione della Conferenza Islamica (OCI) e la sua filiale l’ISESCO, interconnesse in reti che diffondono la governance mondiale in cui predomina l’influenza dell’OCI sull’ONU. Il trasferimento del potere fuori dai confini nazionali dei singoli stati membri dell’Unione Europea verso le organizzazioni internazionali avviene attraverso strumenti detti «dialogo» e «multilateralismo» legati a reti designate dagli stati: Dialogo Euro-Arabo, Medea, Processo di Barcellona, Unione per il Mediterraneo, Fondazione Anna Lindh, Alleanza delle Civiltà, Parlamento Euro-Mediterraneo (PEM) ecc. Queste reti trasmettono direttive a delle sottoreti, a miriadi di ONG e ai rappresentanti delle «società civili» che scelgono essi stessi, attivisti dell’immigrazione e del multiculturalismo. La rete delle istituzioni politiche, i cosiddetti «think tank», spesso finanziata dalla Commissione europea, trasforma tali direttive in opinione pubblica mescolandole sulla stampa, nelle pubblicazioni, nei film, veri e propri inghiottitoi di miliardi. Le popolazioni europee sono chiuse in un gioco di specchi che si rinviano, a tutti i livelli sino all’infinito, le opinioni prefabbricate in base ad agende politiche e culturali che esse ignorano e spesso disapprovano. Questa trasformazione «di un’Europa delle Nazioni» in un’Europa unificata e integrata alle organizzazioni internazionali, come l’ONU, l’UNESCO, l’OCI, ecc., risponde alla strategia dell’UE in particolare nella sua dimensione mediterranea. Una tale ottica motiva le politiche sia dell’UE che dell’OCI, che si oppongono entrambe – per interessi diversi – ai nazionalismi culturali e identitari locali in Europa. Questo movimento promuove il multiculturalismo e l’internazionalismo di una popolazione europea destinata a trasformarsi e a sparire in virtù dell’unione delle due rive del Mediterraneo e di una immigrazione dell’Africa e dell’Asia incoraggiata dalla Dichiarazione Durban 2. Questa Dichiarazione è in conformità alla politica dell’OCI in riguardo all’emigrazione. A tale scopo, la nozione stessa e la coscienza di una civiltà europea peculiare e specifica, nel corso di millenni, si dissolve mentre si continuano a combattere con accanimento le identità culturali europee assimilate al razzismo. L’OCI segue un percorso simile all’Unione europea, organizzandosi come forza transnazionale, ma, contrariamente all’UE, si afferma grazie al radicamento della ummāh nella sfera della religione, della storia e della cultura coranica. Cosa è l’OCI? Questa è un’organizzazione centrale creata nel 1969 per distruggere Israele. Essa riunice 56 stati membri (musulmani o a maggioranza musulmana) e l’Autorita Palestinese. Questi stati sono in Asia, Africa et Europa con l’Albania, la Bosnia Herzegovina e il Kossovo. L’OCI è la seconda organizzazione intergovernativa dopo le Nazioni Unite e rappresenta un miliardo trecento milioni di musulmani. Al l’11° Vertice islamico svoltosi a Dakar il 13 e 14 marzo 2008, l’OCI ha adottato una Carta che ne sancisce i principi e gli obiettivi, il primo dei quali consiste nell’unificazione della ummāh (la comunità islamica mondiale) attraverso il suo radicamento nel Corano e nella Sunna, e la difesa solidale delle cause e degli interessi musulmani sulla pianeta. Questa politica spiega la recrudescenza di religiosità musulmana in generale, inclusa l’Europa, e di odio contro Israele e l’Occidente. I suoi organi principali sono: 1) il Vertice islamico, che rappresenta l’istanza suprema di decisione ed è composto dai re e dai capi di stato; 2) il Consiglio dei ministri degli esteri; 3) il Segretariato generale, che costituisce l’organo esecutivo dell’OCI e 4) la Corte islamica internazionale di Giustizia, che diventerà l’organo giuridico principale dell’organizzazione (articolo 14) e giudicherà in conformità con i valori islamici. (art. 15). L’OCI è dotata di una struttura unica fra le Nazioni e le società umane. In effetti, il Vaticano e le varie Chiese non hanno un potere politico, anche se in concreto fanno politica, poiché nel cristianesimo come nel giudaismo funzioni religiose e politiche devono restare rigorosamente separate. Lo stesso vale anche per le religioni asiatiche, i cui sistemi non riuniscono in un’unica struttura organizzativa religione, strategia, politica e sistema giuridico. Non solo l’OCI gode di un potere illimitato grazie all’unione e alla coesione di tutti i poteri, ma a questi aggiunge anche l’infallibilità conferita dalla religione. Riunendo sotto un solo capo 56 paesi, alcuni fra i più ricchi del pianeta, l’organizzazione controlla la maggior parte delle risorse energetiche mondiali. L’OCI è un’organizzazione religiosa e politica che appartiene alla sfera di influenza dei Fratelli Musulmani con cui condivide in tutti i casi la visione strategica e culturale di una comunità religiosa universale, la ummāh, ancorata al Corano, alla Sunna e all’ortodossia canonica della shari’a. Che la religione sia un fattore prioritario per l’OCI si evidenzia dal suo linguaggio e dai suoi obiettivi. Così la conferenza di Dakar (marzo 2008) prende il titolo di Conferenza del Vertice islamico, Sessione della ummāh islamica del XXI secolo. Nel preambolo della Carta dell’OCI, gli stati membri confermano la loro unione e la loro solidarietà ispirate dai valori islamici al fine di rafforzare nell’arena internazionale i loro interessi comuni e la promozione dei valori islamici. Essi s’impegnano a rivitalizzare il ruolo di pioniere dell’islām nel mondo, a sviluppare la prosperità negli stati membri e, al contrario degli stati europei, ad assicurare la difesa della loro sovranità nazionale e della loro integrità territoriale. Dichiarono che la vera solidarietà implica necessariamente il consolidamento delle istituzioni e la profonda convinzione di un destino comune in base a valori comuni definiti nel Corano e nella Sunna (§ 4) che stabiliscono i parametri della buona governance islamica. Essi raccomandano che i mezzi di informazione contribuissero a promuovere e sostenere le cause della ummāh e i valori dell’islām mentre l’OCI si impegna in forme di solidarietà con le minoranze musulmane e le comunità di immigrati nei paesi non musulmani e collabora con le organizzazioni internazionali e regionali per garantire i loro diritti nei paesi stranieri. L’OCI si impegna inoltre a stimolare i nobili valori dell’islām, a preservarne i simboli e la loro eredità comune e a difendere l’universalità della religione islamica, in termini più chiari, la diffusione universale dell’islām (da‘wah). Si impegna a inculcare i valori islamici nei bambini musulmani e a sostenere le minoranze e le comunità di immigrati musulmani all’esterno degli stati membri al fine di preservarne la loro dignità, identità culturale e religiosa e i loro diritti. Affermano il loro sostegno alla Palestina con capitale Al-Quds Al-Sharif, il nome arabizzato di Gerusalemme. L’OCI sostiene tutti i movimenti musulmani di lotta come quello del popolo turco di Cipro, in Sudan, in Cina, dei Palestinesi, condamna l’occupazione dell’Armenia in Azerbaigian, del Jammu e Kashmir, l’oppressione dei musulmani in Grecia, in Myanmar, in Caucasia, in Thailandia, in India e nelle Filippine. Sulla scena della politica internazionale, l’OCI ha creato vari comitati per coordinare le iniziative e la politica in campo politico, economico, sociale, religioso, mediatico, educativo e scientifico sul piano interstatale degli paesi musulmani e internazionale. Gli obiettivi strategici della Carta sono tesi a: «Assicurare una partecipazione attiva degli stati membri [dell’OCI]al processo mondiale di presa di decisione nei campi della politica, dell’economia e del sociale, al fine di garantire i loro interessi comuni» (I-5); e a «promuovere e difendere posizioni unificate sulle questioni di interesse comune nei forum internazionali». Fra i suoi obiettivi, la Carta dell’OCI elenca la diffusione, la promozione e la preservazione degli insegnamenti e dei valori islamici, la diffusione della cultura islamica e la salvaguardia del patrimonio islamico (I-11); la lotta alla diffamazione dell’islām, la preservazione dei diritti, della dignità e dell’identità religiosa e culturale delle comunità e delle minoranze musulmane negli stati non membri (I-16). Questo punto indica la tutela sugli immigrati musulmani all’estero e le pressioni esercitate dall’OCI, attraverso il canale dei dialoghi e dell’Alleanza delle Civiltà, sui governi dei paesi di accoglienza non musulmani. Essendo un’organizazione musulmana religiosa, come lo dice pure essa stessa, l’OCI dichiara essere l’organo rappresentativo del mondo musulmano. Rivendica la sua solidarietà con tutte le minoranze musulmane che abitano negli stati non membri dell’OCI (vale a dire i paesi non musulmani). Per queste minoranze, l’OCI domanda il godimento degli diritti dell’uomo elementari, fra cui la protezione dell’identità culturale, il rispetto delle loro leggi in modo da proteggersi contro qualsiasi forma di discriminazione, oppressione ed esclusione, il salvataggio del patrimonio culturale dei musulmani negli stati non musulmani. L’OCI considera suo compito proteggere il diritto alla cultura, alla religione e all’identità culturale degli immigrati musulmani e di promuoverli nelle sfere del potere, di autorita e di influenza. Onde assicurare la protezione delle minoranze musulmane immigrate e stabilite in Occidente, e preservarne l’identità, l’OCI ha deciso di internazionalizzare la lotta all’islamofobia attraverso la cooperazione fra l’OCI e le altre organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, l’Unione Europea, il Consiglio d’Europa, l’OSCE, l’Unione africana e così via. Anche in questo caso la politica dell’Unione Europea intesa a sostenere «la legalità internazionale» dell’ONU rinforza in realtà il controllo mondiale dell’OCI che predomina in tutte le istituzioni internazionali. Ma la priorità politica dell’OCI è naturalmente la distruzione di Israele e l’islamizazione di Gerusalemme. L’OCI prevede di trasferire la sua sede da Gedda (Arabia Saudita) a al-Kuds, la Gerusalemme islamizzata. Come l’OCI ha i caratteri di uno califfato universale, la Gerusalema ebraica e cristiana diventata al Kuds e sarà la sede dove la sharia governerà, come a La Mecca, Gaza e i luoghi tenuti dai Talebani. Questa strategia si sviluppa in associazione con molte chiese e l’Europa. L’OCI vuole che l’eliminazione di Israele sia fatto come un atto di profondo odio dall’insieme del pianeta, ma specialmente dagli Occidentali. In altre parole vuole che siano i Cristiani che destruggano la radice della loro spiritualità. Questo sarebbe un altro parricidio dopo la Shoah. La propaganda globale di odio contro Israele che si manifesta nei canali occidentali con l’argomento della vittimologia e l’innocenza palestinese provienne dell’OCI. L’Europa palestinizzata, e volontariamente colpevolizzata, continua a dare sostegno, finanziario, diplomatico, politico e mediatico alla Palestina e a promuovere l’emergenza del Califfato universale a al-Kuds sulle rovine dell’antica Gerusalemme.