sabato 22 agosto 2009
domenica 16 agosto 2009
Un'intervista su Il Giornale, sull'articolo del Fascista e razzista, Giorgio Bocca.

sabato 15 agosto 2009, 11:01
"Da Bocca infamie contro gli eroi"
di Stefano Lorenzetto su Il Giornale
Mantova - «Dottor Bocca, aspetto le sue scuse. Anche e soprattutto a nome di mio fratello Mario, che non può esigerle perché è morto». Antonino D’Aleo, da un mese e mezzo questore di Mantova dopo aver ricoperto lo stesso incarico a Sondrio, è rimasto più sconvolto a leggere sull’Espresso l’ultima puntata della rubrica L’antitaliano di Giorgio Bocca che non a occuparsi dell’ennesimo fatto di sangue. D’Aleo è in polizia da 30 anni, ha indagato su delitti orrendi, ha assicurato alla giustizia in un sol colpo 103 narcotrafficanti con un’operazione coordinata dal procuratore Guido Papalia. «Leggendo il settimanale, non riuscivo a credere ai miei occhi. Riga dopo riga la rabbia e l’indignazione prendevano il sopravvento. Un articolo infame», dice il questore. Il titolo recitava «Quanti amici ha Totò Riina» e nel testo sottostante il giornalista ottantanovenne lasciava intendere, anzi asseriva apertamente, che nella poco raccomandabile categoria andavano inclusi anche i carabinieri di stanza in Sicilia. Quelli di ieri e quelli di oggi. Tutti collusi con la mafia.
Dottor D’Aleo, chi ordinò l’uccisione di suo fratello?«Per la strage sono stati condannati i capimafia Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma nel processo, conclusosi con 22 ergastoli, sono entrati un po’ tutti gli esponenti di spicco di Cosa nostra, da Salvatore Lo Piccolo a Pietro Aglieri. Pochi giorni dopo il suo insediamento a Monreale, mio fratello aveva arrestato Giovanni Brusca, condannato per oltre un centinaio di omicidi, anche se lui personalmente se n’è attribuito addirittura 200, fra cui quelli del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta, dilaniati dall’esplosione nella strage di Capaci, e del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, strangolato e poi sciolto in una vasca piena d’acido. La Cassazione, come si legge nella sentenza, ritiene che mio fratello sia stato assassinato per decisione di Riina come ritorsione proprio per “l’incalzante attività condotta contro la famiglia Brusca”».
Il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo non era colluso con i mafiosi. È questo che vuol dire a Giorgio Bocca?«Non solo. Voglio dirgli che ha infangato la memoria di decine e decine di eroi, integerrimi servitori dello Stato, caduti nell’adempimento del loro dovere. Lui ha scritto di un “indissolubile patto di coesistenza” fra “il legale e l’illegale, fra guardie e ladri, fra capi bastone e le loro vittime inermi”. Ricorre tre volte questo sostantivo, coesistenza, nel suo articolo. Ecco, mio fratello non esiste più. Ha dato la vita anche per questo signore».
Perché Bocca avrà lanciato accuse così pesanti?«Non lo so, non riesco a capirlo. C’è un passaggio finale, nell’editoriale, che mi ha indignato per la sua totale infondatezza, là dove afferma che “i carabinieri, specie quelli che arrivano da altre province, sanno che la loro vita è appesa a un filo”, e dunque si chiede: “Non è naturale, obbligatorio che si creino delle tacite regole di coesistenza?”. Mio fratello era nato a Roma. Prima d’essere assegnato a Monreale stava al battaglione mobile di Genova. Il suo predecessore, il capitano Basile, era di Taranto. Venivano da altre province. Mi dica Bocca quali tacite regole avrebbero accettato. Basile aveva 31 anni, mio fratello 29, Bommarito 39, Morici 27. Non fu lasciato loro molto tempo per organizzarsi la coesistenza, le pare?».
l portavoce nazionale dell’Italia dei valori, il palermitano Leoluca Orlando, ha detto: «Bocca ha espresso, in maniera chiara e radicale, una verità storica: la mafia in Sicilia si è avvalsa di lacune e omissioni di uomini di Chiesa e di esponenti delle forze dell’ordine, non soltanto di carabinieri».«I nomi, faccia i nomi. Se ha notizie di reato, o sospetti sui singoli, vada a denunciarli».
I carabinieri.«Appunto. “I”, articolo determinativo. Da giornalista, Bocca dovrebbe sapere come si scrive. Ha fatto una generalizzazione vergognosa, inaccettabile. “I” carabinieri trescano con la mafia. Non alcuni. Tutti. E sopravvivono grazie a un tacito patto con i criminali. Sono disgustato. Mio padre Salvatore si spense di crepacuore dopo che gli uccisero il figlio. Da due giorni continuo a pensare a che cosa avrebbe provato leggendo quest’articolo dell’Espresso. E non riesco a darmi pace».
sabato 15 agosto 2009
Foibe, stragi, esodo: quale ruolo ebbero i comunisti nostrani? (click)

Giornata del Ricordo
10 Febbraio 2009
Nel 2005 moriva Aldo Bricco, l’ultimo superstite della strage di Porzus. E pensare che doveva morire sessant’anni prima, nel 1945. Così almeno avevano deciso i suoi assassini. Bricco mi aveva confidato questa storia all’indomani della caduta del muro di Berlino, quando lo incontrai a Pinerolo, dove abitava.
Per inquadrare storicamente la vicenda bisogna immaginare cosa era il Friuli-Venezia Giulia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. I tedeschi, reagendo alla defezione italiana, avevano costituito due regioni “speciali” al confine fra il Reich e la Repubblica sociale. Una, il “Territorio prealpino”, comprendeva le attuali province di Bolzano, Trento e Belluno, mentre l’altra era denominata “Litorale adriatico” e comprendeva le attuali province di Udine, Pordenone, Gorizia, Trieste, Lubiana, Fiume e Pola, compreso il golfo del Quarnaro con le isole di Cherso, Veglia e Lussino. Il “Litorale adriatico” era una zona di incontro fra varie etnie (italiani, friulani, tedeschi, sloveni, croati e addirittura 22.000 cosacchi antibolscevichi alleati dei tedeschi e trapiantati in Carnia), ma era anche una zona di scontro fra tendenze politiche diverse, addirittura opposte. Mentre la Repubblica sociale italiana tendeva a mantenere il possesso di quelle terre, i tedeschi operavano per l’annessione al Reich e il terzo protagonista, il movimento partigiano comunista, mirava all’annessione di quelle terre alla Iugoslavia con metodi semplici nella loro crudeltà: occupazione del territorio (le città di Trieste e Gorizia ne sanno qualcosa) ed eliminazione fisica dell’avversario mediante pulizia etnico-ideologica. Tristemente note sono diventate le “foibe”, cavità del terreno carsico in cui furono gettati, per lo più ancora vivi, 22.000 italiani. Tanto per fare un esempio, la sola foiba di Basovizza contiene 2.500 vittime, pari a 500 metri cubi di cadaveri, un ammasso di 34 metri di salme, una sopra l’altra.
Innumerevoli le stragi, come quella di Cave del Predil, dove il 23 marzo 1944 ventidue carabinieri furono catturati dai partigiani comunisti, avvelenati, torturati e tagliati a pezzi. La strage delle malghe di Porzus è forse la più nota, tant’è vero che ha ispirato anche un film. Ma non tutti i partigiani combattevano per l’annessione di quelle terre alla Iugoslavia; al contrario, alcune formazioni, quelle in cui militava Bricco, erano di ispirazione filomonarchica e si battevano per l’italianità di quelle zone. Erano le brigate “Osoppo”, caratterizzate dai fazzoletti verdi al collo, un colore che rammentava la provenienza alpina di tanti di quei combattenti. Di idee opposte erano quelli col fazzoletto rosso, di fede comunista: erano le brigate “Garibaldi” che, pur costituite da italiani, erano inquadrate nel IX corpus dell’armata iugoslava e avevano per obiettivo l’annessione alla Iugoslavia di tutte le terre friulane “fino al sacro confine del Tagliamento”, come sostenevano con una bizzarra interpretazione della storia e della geografia. Due razze opposte di partigiani, dunque: gli “osovani” e i “garibaldini”. Fazzoletti verdi e fazzoletti rossi. Gli uni erano più alpini che partigiani, gli altri erano più comunisti che italiani e fra loro non poteva esserci intesa, a parte il comune nemico nazifascista. Fu così che i garibaldini decisero di ricorrere al loro metodo preferito, quello dell’eliminazione fisica dell’avversario, e decisero di sterminare la leadership osovana.
Racconta Bricco: “Ci dissero che dovevamo trovare un compromesso fra le nostre idee diverse e ci proposero un incontro per discutere del futuro assetto del Friuli-Venezia Giulia. All’incontro, da tenere alle malghe di Porzus, dovevano partecipare tutti i comandanti partigiani dell’una e dell’altra parte, ma senza armi, precisarono. Noi accettammo, in buona fede, senza sospettare nulla. Era il mese di febbraio del 1945; noi eravamo in 23, arrivammo per primi e prendemmo posto all’interno delle malghe. Dopo un paio d’ore arrivarono anche i comunisti, ma la discussione non ci fu; il loro capo puntò l’indice contro il nostro comandante e gridò “Tu sei un traditore!”, poi estrasse il mitra da sotto il cappotto e gridò “A morte i traditori!”. Quello era il segnale. Tutti i rossi misero mano alle armi e fecero fuoco. Era un inferno, una strage, e noi non potevamo neanche reagire…” .
Continua Bricco: “Io e un altro, i più vicini ad una finestra, ci gettammo fuori. L’altro fu subito raggiunto da una raffica e rimase esanime. Anch’io fui colpito da una pallottola, caddi, ma mi rialzai e feci l’unica cosa che potevo fare: correre. I rossi continuavano a spararmi e a colpirmi; sentii una pallottola che mi perforava un braccio, poi un’altra che mi attraversava una spalla, poi ancora una che mi entrava in una gamba, ma io continuavo a correre, cercavo di essere più veloce delle pallottole, sentivo che altre pallottole mi trapassavano gambe, braccia e schiena, mi attraversavano come fa una lama nel burro, ma io continuavo a correre, mi buttai giù per un canalone, mi salvai solo io”.
“Che fine hanno fatto gli assassini? Sono stati assicurati alla giustizia?” chiesi. “Macchè - rispose -, l’hanno fatta franca tutti quanti. Chi ha usufruito dell’amnistia di Togliatti subito dopo la guerra, chi si è rifugiato in Iugoslavia protetto dal governo di Belgrado, chi è stato condannato all’ergastolo o a 30 anni di galera ma è stato aiutato dal partito comunista italiano a fuggire in Cecoslovacchia o in Unione sovietica e poi è stato graziato dall’amnistia di Pertini nel 1978. Alcuni hanno ricevuto medaglie al valor militare e altri continuano a percepire pensioni dallo stato italiano…”.
E poi ci fu la tragedia dell’esodo. I 300.000 profughi italiani fuggiti dall’Istria e dalla Dalmazia per non finire nelle foibe furono distribuiti su tutto il territorio nazionale, dove non sempre furono bene accolti. In Emilia, ad esempio, al passaggio dei treni carichi di profughi i ferrovieri comunisti chiusero le fontanelle delle stazioni per impedire loro di dissetarsi. A Bologna la Pontificia Opera di Assistenza aveva predisposto un pasto caldo per i profughi destinati alla Liguria, ma non riuscì a distribuirlo, perché il sindacato comunista dei ferrovieri minacciò dagli altoparlanti che se i profughi avessero consumato il pasto uno sciopero generale avrebbe paralizzato la stazione, e il treno fu costretto a passare senza fermarsi. Ad Ancona il 16 febbraio 1947 il piroscafo “Toscana”, che approdava da Pola carico di famiglie italiane, fu accolto sul molo da una selva di bandiere rosse, fischi, insulti e gestacci col pugno chiuso.
Ma - fatto ignoto ai più - oltre all’esodo ci fu anche il controesodo: lo organizzarono i comunisti italiani verso la Jugoslavia per consentire a molte famiglie di riempire il vuoto lasciato dai cittadini giuliano-dalmati e perché potessero usufruire dei piaceri del paradiso comunista; un altro motivo fu quello di mettere in salvo tanti compagni che si erano macchiati di delitti durante e dopo la resistenza e che in Italia avevano problemi con la giustizia.
Ma venne il 1948, con la rottura fra Tito e Stalin. Il dramma della lacerazione ideologica dei comunisti italiani, soprattutto triestini, combattuti fra la fedeltà a Mosca e quella a Belgrado era nulla in confronto al calvario fisico e psichico che dovettero patire decine di migliaia di dissidenti rimasti fedeli al Cominform e al Cremlino e che caddero fra le grinfie dei titini. Questi comunisti fedeli a Mosca furono circa 32.000 e vennero rinchiusi nell’isola-lager di Goli Otok, l’Isola Calva nell’arcipelago della Dalmazia settentrionale. Circa 4.000 detenuti morirono di stenti, di malattia, di torture, di lavori forzati e di percosse su quell’isola, dove finirono anche parecchi comunisti italiani, soprattutto da Monfalcone, i cosiddetti “cantierini” (circa 350) che si recarono fiduciosi oltre confine per “costruire il socialismo”. I più fortunati vi giungevano già cadaveri ma chi aveva la sventura di arrivarvi vivo, a bordo di stipatissime imbarcazioni maleodoranti, riceveva il primo benvenuto da parte di altri detenuti, già ospiti della brulla isola-lager, che armati di randelli si precipitavano urlanti nelle stive e massacravano di legnate i prigionieri prima ancora che scendessero. Poi i nuovi arrivati (o perlomeno i sopravvissuti) venivano fatti scendere in fila indiana, scalzi sulle rocce taglienti come coltelli e sotto il sole, e avviati verso il lager fra due ali di altri detenuti che continuavano a urlare e a randellarli a sangue.
I pochi detenuti che alla fine riuscirono a sopravvivere e a ripararsi in Unione Sovietica o in Italia, scoprirono che a Mosca era impossibile pubblicare un articolo sugli orrori di Goli Otok. Sì, sarebbe stato un ottimo strumento propagandistico contro Tito, ma la cosa, di riflesso, avrebbe messo sotto accusa anche i gulag sovietici, fenomeno di ben più grande portata rispetto alla modesta Isola Calva, che al loro confronto era una località di villeggiatura.
Anche in Italia i sopravvissuti dei lager di Tito scoprirono di essere solo dei cadaveri ambulanti condannati all’oblio: per ragioni politiche non se ne poteva parlare. Non esisteva ancora una “Giornata del ricordo”, neanche per loroDEDICATO A PIERLUIGI.
venerdì 14 agosto 2009
I Parà sono parte integrante dell'Arma dei Carabinieri...
L'Articolo di Filippo Facci mi sembra molto chiaro, in merito.
venerdì 14 agosto 2009, 07:00
L’ultimo delirio di Bocca: «Carabinieri mafiosi»
di Filippo Facci su Il Giornale
Va lungamente premesso che prendersela a morte con Giorgio Bocca è tutt’uno con l’amarlo, è la medesima cosa, lui stesso si odierebbe o apprezzerebbe con eguale ruvidezza e incoerenza a seconda dei giorni, della stagione, della grappa invecchiata bene o male: nel febbraio dell’anno scorso scrisse un intero articolo per dire che le colf non sapevano più cucinare il bollito, ultimamente poi un’intera rubrica per dire che ai mondiali di nuoto bisognava premiare anche i quarti classificati, e poi ora, cioè ieri, sull’Espresso, era di turno un articolo infame e ignorante sulla mafia e specialmente sui carabinieri che sarebbero storicamente - dice lui - conniventi con Cosa Nostra.
Per le cose che ha scritto, e che vedremo, Bocca va semplicemente impiccato alle sue frasi: ma va lungamente premesso, ancora, che è giusto così: è giusto cioè provare un miscuglio di rispetto e disprezzo e tenerezza per un personaggio che - si autodefinisce lui stesso - è un provinciale vero, un nordico italianissimo benché il titolo della sua rubrica sull’Espresso sia paradossalmente «antitaliano», un prealpino ossessionato dai soldi, un forcaiolo, un voltagabbana, un lavoratore nordista che ha il fiuto politico di un piccolo borghese (ossia zero) e che alterna sprazzi di saggezza a brontolii rivolti contro l’universo mondo, facendo roteare il bastone. Se non c’è frase di Bocca che si possa «estrapolare dal contesto», è perché il contesto è lui stesso: un antifascista d’acciaio che fu fascista e fu persino imberbe antisemita, un asperrimo nemico di Berlusconi che tuttavia lavorò nelle sue tv - «L’ho fatto per i soldi», spiegò in un’intervista a Oreste Pivetta sull’Unità del 14 marzo 2006 - e poi un antileghista dopo aver tifato ardentemente Umberto Bossi: «La Lega mi ricorda noi partigiani quando scendemmo dalle montagne», scrisse nel 1993. Bocca è quel rispettabile e anziano giornalista che non ne ha azzeccata una, come ben sanno Giampaolo Pansa e meglio di altri anche Michele Brambilla, autore di un noto pamphlet in cui raccontava come anche Bocca, appunto, nei primi anni Settanta, sosteneva che le Brigate rosse fossero nere.
Il disprezzo che puoi provare per Giorgio Bocca è perciò autentico come la tenerezza che suscitano certe sue righe buttate giù, senza troppo pensarci; la sua scoperta della televisione, candidamente confessata, è quasi commovente: «A Canale 5 mi chiesero se ero disponibile a intervistare Bettino Craxi. L’intervista era registrata. Quando la vidi in casa mia, poche ore dopo, era più la voglia di ridere che di arrabbiarsi. Il regista mi aveva praticamente occultato o subalternizzato: comparivo quasi sempre di nuca, con la mia pelata rilucente». Parole sue ne «Il padrone in redazione» del 1989. Ancora: «Le domande di Maurizio Costanzo mi parvero banali, grigie. Eppure quasi tutti i conoscenti che incontravo, dicevano: “Ti ha sfruculiato mica male, il Costanzo, te le ha dette”. Allora mi feci mandare le registrazioni e capii il mistero: mentre io parlavo per dire delle cose, lui parlava per mimarle. E quando parlavo io riusciva con smorfie, sbadigli, tocco dei baffi, sorrisi, scuotimenti della testa a darne una sua interpretazione molto più convincente delle mie affermazioni».
Ecco: è il fanciullino che è in Giorgio Bocca a farlo diventare quasi simpatico, a tratti: anche perché, pur conformista, è uno che non ne ha azzeccata una neanche in un’ottica politicamente corretta; pochi ricordano che fu anti-comunista al punto da dare ragione a Berlusconi quando cominciò la guerra di Segrate per la conquista di Repubblica e dell’Espresso. L’ha raccontato anche Giampaolo Pansa: Bocca diceva che bisognava abbandonare De Benedetti e passare col Cavaliere, «così la smetteremo di fare un giornale al servizio dei comunisti».
Tutto ciò lungamente premesso - scusate, ma era necessario anche per rispetto sincero a un monumento del giornalismo - certo opinionismo superficiale e veemente, aggiornato a trent’anni prima e senza vergogna di sfigurare, è il peggio della Prima Repubblica e va solamente svergognato senza pietà: è quello che farebbe Bocca - un Bocca giovane, informato, «sul pezzo» - ed è quello che vuole la pubblica decenza.
Sull’Espresso, ieri, Bocca ha dato per assodato che «l’assassinio di Paolo Borsellino (nel tondo a destra) è stato voluto o vi hanno partecipato i tutori dell’ordine, ufficiali dei carabinieri o servizi speciali»; ha citato come finti affidabili Totò Riina e Massimo Ciancimino (figlio di Vito) e tra lo stesso Riina e Silvio Berlusconi ha dato per scontate «buone relazioni correnti»; in un comico minestrone di fonti (sue) ha mischiato Tomasi di Lampedusa e Camilleri, Sciascia e Leoluca Orlando del quale, in particolare, sono «rimaste senza spiegazioni le accuse e le richieste di chiarezza». L’acido peggiore, perché generico come tutto il suo articolo, è però per i carabinieri, che «come la mafia non sono qualcosa di estraneo e di ostile alla società italiana», anzi sono «parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio».
E la cosa più sbagliata da fare, ora, sarebbe mettersi ad argomentare: perché Bocca non ha nessun argomento. Di carte giudiziarie, e di inchieste, non ha mai capito niente. Bocca è un narratore, e lo è giocoforza, oggi, di fotografie sbiadite. Non sa nulla. Cita Leonardo Sciascia e Paolo Borsellino insieme: non sa delle sanguinose polemiche che li opposero. Dovremmo ricordargliele? Bocca cita Leoluca Orlando ma non sa delle infamie che disse pubblicamente su Giovanni Falcone, di quando Gerardo Chiaromonte - ex presidente comunista dell’Antimafia - a proposito dell’attentato dell’Addaura scrisse che «i seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità», di quando a Samarcanda Orlando accusò Falcone di aver imboscato le inchieste e di aver salvato Salvo Lima, costringendolo a umilianti autodifese davanti al Csm.
Forse Bocca non sa neppure dei trenta e passa carabinieri ammazzati dalla mafia: lui è fermo a Carlo Alberto Dalla Chiesa (nel tondo a sinistra) solo perché una volta scese dal Nord e lo intervistò. Bocca non sa che sulle «trattative» tra Stato e mafia di inchieste ne hanno già fatte un miliardo, e però nei fatti non c’è ancora nulla di nulla. Le inchieste non contano, per Bocca, ma la tardiva e generica parola di Totò Riina invece sì. E conta parimenti quello che Massimo Ciancimino «ha detto o lasciato capire». Ieri contro l’uscita di Giorgio Bocca hanno reagito tutti: il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il ministro dell’Interno Roberto Maroni, il responsabile Giustizia del Pd Marco Minniti, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, il capogruppo della Lega in commissione Difesa Giovanni Torri, persino il Cocer dei Carabinieri.
Quando succede questo, quando cioè un giornalista scatena un canaio del genere, i casi sono tre: o ha completamente ragione, o ha completamente torto o ancora - ed è il nostro caso - ha completamente torto ed è pure il 13 agosto, quando c’è poco altro su cui polemizzare. Ma è una polemica triste, perché non parla di mafia e di carabinieri: parla di Giorgio Bocca. Parla di un grande giornalista che ormai legge poco, si documenta poco, giudica con parametri superficiali e datati - ai suoi tempi gli opinionisti tuttologi andavano forte, oggi un po’ meno - e però, ogni tanto, sa riservarci una sincerità sanguigna nella sua scontata e tuttavia mai banale critica della modernità globalizzata.
Chiunque dica che il giornalismo di oggi fa schifo, e incolpi il mercato, oggi è un po’ patetico: ma se a scriverlo è Giorgio Bocca, come spesso fa, dargli torto è difficile. Il problema è che un giornalismo da schifo, questa volta, lo ha fatto lui.
lunedì 10 agosto 2009
ENRICO MEDI , lo scienziato credente (click)

Enrico Medi nasce a Porto Recanati il 26 aprile 1911: suo padre esercita nel paese la professione di medico chirurgo. Frequenta le elementari nella scuola dell'allora Corso Vittorio Emanuele III° (oggi Corso Matteotti). Medi è ancora giovanissimo quando lascia le sponde dell'Adriatico per approdare a Roma, dove, appena diciassettenne, entra nell'università laureandosi a 21 anni in fisica pura con Enrico Fermi.
Libero docente di Fisica terrestre nel 1937, è chiamato nel 1942 alla cattedra di fisica sperimentale dell'Università di Palermo. La prima tesi al mondo sul neutrone è opera sua, così come le prime esperienze sul radar che raccolsero però l'ignorante supponenza delle autorità pubbliche del tempo. Anche i suoi studi sulle fasce ionizzanti dell'alta atmosfera subirono la stessa sorte.
Occorrerà attendere cinque anni e la segnalazione dell'americano Van Allen per rendersi conto, con colpevole ritardo, che Medi aveva ragione.
Dopo la triste esperienza della guerra e del fascismo, nel 1946 Medi è eletto nell'Assemblea Costituente e successivamente è deputato al parlamento nella prima legislatura della Repubblica. La sua carriera politica giunge al culmine nel 1971 quando risulta primo degli eletti (75.000 voti di preferenza) al Consiglio Comunale di Roma. Ma, come ricorda Federico Alessandrini, egli era un uomo che "mal si adattava al compromesso, alla concessione sistematica, alla reticenza.... preferì, dunque, ritirarsi per continuare un'azione volta a formare gli uomini...".
Già dal 1949 è direttore dell'Istituto Nazionale di Geofisica e titolare della cattedra di Fisica terrestre presso l'Università di Roma: nel 1958 è nominato Vice-Presidente dell'Euratom. Il suo nome divenne noto al grande pubblico soprattutto per i suoi interventi alla televisione. Con chiarezza e semplicità di espressione svolse un ruolo importante nel campo della divulgazione scientifica e con grande successo personale il 21 Luglio 1969 commentò a tutti gli italiani lo sbarco sulla Luna dell'astronauta Amstrong.
"Questo Enrico Medi - scrive Marino Scalabroni - dalla mente di scienziato e dal cuore di poeta, questo diffusore della scienza fuori dalle paludate assise accademiche, questa coscienza che dalle immensità dei mondi o degli infinitesimali cosmi atomici ha saputo raggiungere accenti di grande poesia, questo Medi nostro, è nato qui (Porto Recanati), in questa terra dove si sposa il dramma infinito di Leopardi alla umile e ultraterrena dolcezza del mistero Lauretano...".
Scienziato credente, offrì tutte le sue energie per l'avvento di una umanità migliore. Rivolse la sua opera soprattutto ai giovani, visti nella luce di un superiore modello: il Cristo.
Enrico Medi concluse la sua giornata terrena sul tramonto della domenica del 26 maggio 1974. Riposa nella tomba di famiglia, nel cimitero di Belvedere Ostrense.
Il 26 maggio 1996 viene introdotta la causa di beatificazione.
Intervista a La Russa sull'Afganistan.

la missione italiana
La Russa: «In Afghanistan i Tornado possono sparare»
Il ministro: «Chiedo ai magistrati di sbloccare i blindati Lince»
ROMA — «Rivolgo un appello ai magistrati affinché il tempo di sequestro dei blindati 'Lince' sia ridotto al minimo », dice Ignazio La Russa. In un’intervista al Corriere , il ministro della Difesa affronta alcuni degli aspetti più controversi e delicati della missione militare in Afghanistan, della quale i sigilli giudiziari ai mezzi italiani danneggiati dalle bombe talebane sono un indice. Fino a che punto si può far finta che una missione chiamata «di pace» non sia in un territorio di guerra? A quali norme devono essere sottoposti i nostri militari? Quanti ribelli sono stati uccisi dai soldati italiani? Tra il codice militare di pace applicato attualmente e quello militare di guerra che venne impiegato in Iraq, il ministro del Popolo della libertà indica una terza strada: «Serve un codice per le missioni internazionali sul quale è possibilissima un’intesa con l’opposizione».
I capi del parco macchine del contingente italiano in Afghanistan hanno detto al nostro inviato Lorenzo Cremonesi che a undici Lince colpiti dai ribelli sono stati messi sigilli giudiziari: per renderli «a disposizione» della Procura di Roma tenuta a indagare. Ministro, conferma?«Sì. Non ho il numero esatto, ma l’articolo è corretto. Dal governo Prodi in poi, tranne la parentesi dell’Iraq, il codice che si applica non è quello militare di guerra, bensì il codice militare di pace. Se ci sono morti e feriti è come se questo avvenisse in una normale esercitazione. Tant’è che stiamo correndo ai ripari».
Verso dove? «Io non me la sentivo di appoggiare un ritorno al codice militare di guerra. Alcuni del Pdl, con un emendamento, me lo chiedevano. Ho detto: lasciate stare, si creano più polemiche. Per farli desistere ho impiegato un argomento: nelle commissioni Difesa del Parlamento è possibilissima un’intesa con l’opposizione per un codice militare specifico per le missioni internazionali. Né di pace né di guerra».
Qui sta il punto. All’origine dei sigilli ai Lince non è l’ambiguità in base alla quale, per farla apparire nei limiti dell’articolo 11 della Costituzione, la missione italiana viene presentata come pacifica mentre agisce in quella che gli alleati definiscono una guerra?«Non è tanto per l’ambiguità. E’ per la scelta fatta dal Parlamento di applicare il codice militare di pace. So che il mio predecessore al ministero, Arturo Parisi, l’ha subita, come l’ho subita io. Ma la rispetto, come va rispettata la Costituzione. Per questo stiamo predisponendo il nuovo codice».
Per vararlo non serve una legge costituzionale?«Se ne discuterà in Parlamento. Vi sono fautori di entrambe le tesi».
A che cosa? «Per i pezzi di ricambio. Questi Lince continuano a salvare le vite di molti soldati. Anche sabato una bomba ne ha fatto saltare uno, ma nessuno è rimasto ferito. Forse i magistrati pensano che il mezzo, molto danneggiato, possa stare sotto sequestro senza problemi. Invece da lì si prenderebbero i pezzi di ricambio per gli altri mezzi».
Non ne avete? «Non portiamo tutti i ricambi in Afghanistan perché, statisticamente, sono i Lince usurati o danneggiati a fornirli. E non c’entrano i fondi».
Se viene ucciso un militare italiano, la Difesa lo dichiara: dal 2001 in Afghanistan ne sono morti 15. Manca però un dato: quanti miliziani afghani sono stati uccisi dai nostri soldati in scontri a fuoco?«Il numero preciso non viene tenuto. Non c’è una contabilità anche perché è difficile accertarlo. Di certo il numero degli insorti — talebani, trafficanti di droga, tutti coloro che compiono atti ostili — è superiore alle perdite subite dai contingenti internazionali. E di molto».
Quelli colpiti da italiani? «Anche per i nostri il rapporto è di sicuro più alto. Quando i nostri sono stati costretti a difendersi, gli altri hanno subito perdite. Tra i contingenti siamo quelli che hanno avuto meno lutti, anche se non per questo meno dolorosi».
I morti afghani sono di più da quanto avete tolto i caveat che limitavano l’impiego dei militari in combattimento?«No, la natura della missione non è mai cambiata e l’unico caveat tolto è sull’impiego fuori dalla zona Ovest, per altro quasi mai utilizzato».
I cacciabombardieri Tornado italiani hanno già cominciato a dare copertura aerea ai soldati, ossia a sparare oltre che ad avere funzioni di ricognizione?«Dopo aver informato le Camere, ho dato via libera ai comandanti. A loro valutare. Parliamo non delle bombe, che sull’aereo non portiamo neanche. Ma del cannoncino dei Tornado, simile a quello degli elicotteri Mangusta».
Quanti Predator, aerei senza pilota, manderete in più?«Per ora li raddoppiamo: altri due. Sarebbe bene averne di più, ma al momento abbiamo questi. Li manderemo insieme con altri elicotteri».
Maurizio Caprara 10 agosto 2009©
domenica 9 agosto 2009
Il re di Ponza: "Vergogna sequestrare i pontili" (click)

di Stefano Lorenzetto
Nell’unica isola della Repubblica italiana che misuri 1 chilometro quadrato e abbia una densità di popolazione di 1 abitante per chilometro quadrato era inevitabile che quell’unico abitante si autoproclamasse dapprima sindaco e poi presidente, come certifica la carta intestata che s’è fatto stampare. In realtà Ernesto Prudente, capo dello Stato libero di Palmarola, è da una vita il re di tutto l’arcipelago ponziano. Un’autorità morale indiscussa, eletta per acclamazione. E da monarca assoluto parla del suo quasi omologo, il sindaco, in questi giorni torridi, con la Procura di Latina impegnata a sequestrare attracchi abusivi e noleggi di barche: «Ponza è un’isola splendida, unica al mondo. Le istituzioni avrebbero l’obbligo di servirla in ginocchio. Invece... Come proprietario di un pontile, il signor sindaco è l’ultimo che può aprire bocca. Deve soltanto dimettersi. Pensi che ha appena ordinato alla polizia urbana d’indagare su tutti coloro che hanno una partita Iva. Da non credere. Ha messo gli uni contro gli altri. Una faida, sembra di stare in Calabria».
L’ultima volta che un primo cittadino venne costretto a lasciare lo scanno fu nel 2001 e il compito di farlo sloggiare se lo assunse in prima persona, a dispetto del cognome che porta, Prudente. «Chill’era nu sindaco per modo di dire, visto che amministrava società in affari col Comune. Lo portai in tribunale per conflitto d’interessi. Arrivai a mie spese fino in Cassazione. Vinsi io. Adesso il detronizzato è stato accolto nell’Italia dei valori da Antonio Di Pietro», socchiude a fessura gli occhietti azzurro cielo, come a dire che Dio li fa e poi li accoppia.
Il presidente di Palmarola, vecchio socialista, era bambino quando imparò che cosa fosse la politica, quella vera. «Ponza divenne luogo di confino degli antifascisti un anno prima che io nascessi. In via Dragonara, dove abitavo, c’erano tre mense per gli esiliati. Di lì passavano tutti, Pietro Nenni, Sandro Pertini, Giorgio Amendola, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Lelio Basso, anche se allora noi manco sapevamo chi fossero. Il progetto di ristrutturazione della casa di mia nonna Giuseppa Albano reca la firma di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Pci, che era ingegnere. Giuseppe Di Vittorio, futuro segretario della Cgil, allevava galline. Un milite in camicia nera, di guardia nella garitta 24 ore su 24, impediva che parlassero con noi. Però ricordo che la domenica uno di loro si fermava per un istante sull’uscio di casa nostra, attratto dal brusio della radio a galena, e chiedeva: “La mia Inter cosa fa?”».
Con un’altra delle sue battaglie politico-amministrative, trent’anni fa Prudente ha ottenuto la residenza sull’isola di Palmarola, che dista 5 miglia da Ponza, lontana a sua volta 18 miglia da San Felice al Circeo, il punto di terraferma più prossimo. Ci abita, tutto solo, dalla fine di settembre alla fine di maggio. Impossibile resistere al richiamo di quello scoglio che affiora dal mare. «Lascio la moglie, i due figli, i nipoti e vado. Credo che sia la mia anima a convocarmi». Adesso che ha un po’ d’insufficienza respiratoria, il romitaggio presenta molte più incognite. «D’estate? Mai». In questa stagione Palmarola smarrisce il suo fascino selvaggio, diventa preda dei turisti che vi approdano da mattina a sera. «L’80 per cento delle imbarcazioni che fanno rotta sulle Isole Ponziane arriva anche qui». Sono i tre mesi in cui la meta arretra anche nelle classifiche personali di Folco Quilici, l’unico documentarista che ha battuto tutti gli oceani e che la considera fra le dieci isole più belle del pianeta, e di Bruno Vespa, che peraltro può continuare ad ammirarla a distanza dalla sua fantastica casa di Ponza scavata nella roccia, con terrazza a picco sul mare.
Nell’unica isola della Repubblica italiana che misuri 1 chilometro quadrato e abbia una densità di popolazione di 1 abitante per chilometro quadrato era inevitabile che quell’unico abitante si autoproclamasse dapprima sindaco e poi presidente, come certifica la carta intestata che s’è fatto stampare. In realtà Ernesto Prudente, capo dello Stato libero di Palmarola, è da una vita il re di tutto l’arcipelago ponziano. Un’autorità morale indiscussa, eletta per acclamazione. E da monarca assoluto parla del suo quasi omologo, il sindaco, in questi giorni torridi, con la Procura di Latina impegnata a sequestrare attracchi abusivi e noleggi di barche: «Ponza è un’isola splendida, unica al mondo. Le istituzioni avrebbero l’obbligo di servirla in ginocchio. Invece... Come proprietario di un pontile, il signor sindaco è l’ultimo che può aprire bocca. Deve soltanto dimettersi. Pensi che ha appena ordinato alla polizia urbana d’indagare su tutti coloro che hanno una partita Iva. Da non credere. Ha messo gli uni contro gli altri. Una faida, sembra di stare in Calabria».
L’ultima volta che un primo cittadino venne costretto a lasciare lo scanno fu nel 2001 e il compito di farlo sloggiare se lo assunse in prima persona, a dispetto del cognome che porta, Prudente. «Chill’era nu sindaco per modo di dire, visto che amministrava società in affari col Comune. Lo portai in tribunale per conflitto d’interessi. Arrivai a mie spese fino in Cassazione. Vinsi io. Adesso il detronizzato è stato accolto nell’Italia dei valori da Antonio Di Pietro», socchiude a fessura gli occhietti azzurro cielo, come a dire che Dio li fa e poi li accoppia.
Il presidente di Palmarola, vecchio socialista, era bambino quando imparò che cosa fosse la politica, quella vera. «Ponza divenne luogo di confino degli antifascisti un anno prima che io nascessi. In via Dragonara, dove abitavo, c’erano tre mense per gli esiliati. Di lì passavano tutti, Pietro Nenni, Sandro Pertini, Giorgio Amendola, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Lelio Basso, anche se allora noi manco sapevamo chi fossero. Il progetto di ristrutturazione della casa di mia nonna Giuseppa Albano reca la firma di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Pci, che era ingegnere. Giuseppe Di Vittorio, futuro segretario della Cgil, allevava galline. Un milite in camicia nera, di guardia nella garitta 24 ore su 24, impediva che parlassero con noi. Però ricordo che la domenica uno di loro si fermava per un istante sull’uscio di casa nostra, attratto dal brusio della radio a galena, e chiedeva: “La mia Inter cosa fa?”».
Con un’altra delle sue battaglie politico-amministrative, trent’anni fa Prudente ha ottenuto la residenza sull’isola di Palmarola, che dista 5 miglia da Ponza, lontana a sua volta 18 miglia da San Felice al Circeo, il punto di terraferma più prossimo. Ci abita, tutto solo, dalla fine di settembre alla fine di maggio. Impossibile resistere al richiamo di quello scoglio che affiora dal mare. «Lascio la moglie, i due figli, i nipoti e vado. Credo che sia la mia anima a convocarmi». Adesso che ha un po’ d’insufficienza respiratoria, il romitaggio presenta molte più incognite. «D’estate? Mai». In questa stagione Palmarola smarrisce il suo fascino selvaggio, diventa preda dei turisti che vi approdano da mattina a sera. «L’80 per cento delle imbarcazioni che fanno rotta sulle Isole Ponziane arriva anche qui». Sono i tre mesi in cui la meta arretra anche nelle classifiche personali di Folco Quilici, l’unico documentarista che ha battuto tutti gli oceani e che la considera fra le dieci isole più belle del pianeta, e di Bruno Vespa, che peraltro può continuare ad ammirarla a distanza dalla sua fantastica casa di Ponza scavata nella roccia, con terrazza a picco sul mare.
«Parva sed apta mihi, avrebbe detto Orazio. Trenta metri quadrati: cucina, due camerette, bagno e cambusa. Piccola ma adatta a me».
Né luce, né gas.
«Ci sono i pannelli solari, tre gruppi elettrogeni, un’elica che col vento alimenta sei batterie. Congelatori e frigorifero funzionano a gas. Una bombola mi dura un mese. Ho la radio per comunicare con le navi di passaggio, con i pescatori e con la famiglia. Mia moglie mi chiama da mezzogiorno all’una e dalle 19 alle 20. Adesso poi ci sono i telefonini: se mi metto sul versante dell’isola che guarda Ponza posso parlare con chi voglio. L’unica volta che mi sono dimenticato d’accendere il cellulare, uno dei miei figli è piombato qui scortato da un suo amico alto un metro e 90, che di scarpe porta il 47. Io, ignaro di tutto, udendo il tramestio fra gli arbusti, ho lanciato un fischio da stadio. Subito s’è sentito un urlo: “È vivo!”. Mi credevano morto. Però subito dopo m’avrebbero ammazzato volentieri. Vuol mettere le tribolazioni dei contadini che c’erano prima di me? Dovevano accendere un falò alle estremità di Palmarola. Quello era il segnale che avevano bisogno di aiuto».
Per l’acqua come fa?
«Se il mio antro si chiama Grotta dell’acqua, un motivo ci sarà, le pare? Gli uomini preistorici ci scavarono una cisterna. Ho da parte 10.000 litri di acqua piovana».
Quali sono i momenti più brutti a Palmarola?
«Sono anche i più belli, quando il mare è in burrasca e sembra che voglia annettersela. Allora scendo fino all’insenatura dove urla di più, dove cerca di prendersi i faraglioni, e me ne sto lì in contemplazione per ore».
Non teme che un’onda anomala la sommerga?
«Tipo tsunami lei dice? Be’, ci sono alcuni posti di passaggio in cui, se non stai attento, la tempesta ti porta via. Ma il mio rifugio è a 170 metri sul livello del mare. L’unica cosa che non faccio mai, neppure con la calma piatta, è andare a pesca. Gli scogli sono pericolosi e io, con l’età, ho imparato che non devo cadere».
Che cosa apprezza di più dell’isola?
«Il silenzio. In certi valloni è così profondo che mette paura».
C’è qualcuno che vorrebbe ritirarsi a vivere qui?
«Tantissimi. Solo che dopo tre giorni mi dicono: “Chiami una barca, per favore”».
Anche Vip?
«Io me ne strafotto dei Vip. L’unico al quale non ho ancora stretto la mano è quello vestito di bianco».
Chi sarebbe?
«Il Papa. Ma solo perché non è mai venuto né a Ponza né a Palmarola. Per il resto, sono stato presentato a tutti, da Costantino di Grecia a Juan Carlos di Spagna. Mi considero l’uomo più ricco del mondo. Ho tanti amici. Qualunque cosa mi passi per la testa, loro me la procurano. Mi sono riconoscenti per il fatto che gli metto a disposizione la mia povertà. È difficile condividere la povertà. Se lei è povero, quel poco che ha cerca di tenerlo per sé. Due giorni fa mi hanno regalato una grancevola, assai più rara dell’aragosta. E un mese fa ho assaggiato per la prima volta in vita mia i mirtilli. Io contraccambio con mazzetti di asparagi selvatici, che qui crescono in abbondanza».
Nel 1995 i carabinieri scoprirono suoi conterranei che d’estate affittavano le grotte neolitiche di Palmarola per 6 milioni di lire al mese.
«Guardi, sono grotte che il re di Napoli nel 1788 suddivise fra alcune famiglie ponzesi. Niente di abusivo. I carabinieri sono venuti anche a casa mia, a cercare punte di lancia fatte con la selce e raschiatoi di ossidiana. E cocci di anfore e di tegole dei Romani. Continuo a trovarne e mi preoccupo di salvarli».
Se l’uomo è un animale sociale, com’è che lei va in cerca di solitudine e di silenzio?
«Perché devo far parlare il mio interno».
E che cosa le dice il suo interno?
«Che solo a Palmarola posso tornare bambino e assecondare la mia sensibilità per quei valori della natura che oggidì sono d’intralcio agli altri uomini».
Mi parli della natura sull’isola.
«Tanti serpenti, ma non pericolosi, soprattutto bisce d’acqua. Tante lucertole. Tanti topi. Ho sempre con me il mio Geppo. È un drahthaar, un cane da ferma tedesco. Senza, mi sentirei morto. Ci parliamo. Lui lo sa che sull’isola siamo soli. Va a dormire nella cuccia soltanto quando mi sono coricato io».
Entrambi esiliati come San Silverio, il 58° Papa, patrono di Ponza. Stando al «Liber Pontificalis», le sue spoglie mortali sono ancora qui.
«Ho fatto ricerche. La storia del pontefice non è ben chiara. Deposto dall’imperatrice di Costantinopoli, Teodora, moglie di Giustiniano, fu trascinato a Palmarola, dove morì di stenti nel 537. Su quel faraglione c’è la sua cappella. Il 9 giugno arriva un barcone, il prete vi celebra la messa, poi il labaro del santo viene portato per la novena a Ponza, dove il 20 giugno c’è la festa patronale».
Terra di confino da 1500 anni, Mussolini non inventò nulla.
«Su questo ho avuto una dura polemica con l’altro Silverio, Corvisieri, il fondatore di Avanguardia operaia, che è originario di Ponza. Ho dato ragione a Berlusconi, che nell’estate di sei anni fa aveva descritto il confino fascista come una villeggiatura. Non v’è dubbio che il Duce decise di mandare i suoi nemici a Ponza perché il luogo è molto ameno. Lo scelse per far capire all’estero, soprattutto in Francia, che il regime trattava bene gli oppositori. Con questo non voglio dire che togliere la libertà a un uomo non rimanga il peggiore dei delitti».
Non è che i ponzesi siano inclini alla litigiosità, vero?
«Ma no. È solo che il nostro mare è ricco di aragoste e di polipi, i quali notoriamente si detestano, tanto che di due attaccabrighe diciamo che parene u purpe e a ravoste. Del resto pretesti per arrabbiarci ce ne forniscono tutti i giorni».
Si riferisce ai pontili?
«Quello è solo il casus belli. Il porto risale all’epoca dei Borboni. Non è facile ormeggiare in questa rada, i barcaioli si sono dovuti arrangiare con i blocchi di cemento in fondo al mare. Ora i magistrati li sequestrano perché sono abusivi. Bella scoperta, si sapeva da 40 anni. Però attraccano ai corpi morti anche le motovedette dei carabinieri, della Guardia costiera e delle Fiamme gialle. Non si possono creare nuovi ormeggi perché deturpano la costa. Allora perché non riesumare l’antico porto romano, che sta sott’acqua da duemila anni? È un’insenatura naturale che entra nell’isola per un chilometro e non si vede dal mare, sarebbe un approdo molto sicuro per l’inverno. Ci sentiamo abbandonati. Il collegamento della Caremar con Anzio di solito durava fino al 30 settembre. Quest’anno hanno annunciato che cesserà il 22 agosto. Incredibile».
Che cosa prova quando deve salire sull’aliscafo per raggiungere il continente?
«Una brutta sensazione. La nave che lascia questa costa fa un danno all’anima. E lo fa a tutti, perché tutti mi dicono di provare la stessa cosa».
sabato 8 agosto 2009
Nuovo attentato in Afganistan : polemiche.

AFGHANISTAN
Kabul, attentato contro parà italiani: nessun paracadutista è rimasto ferito
Esplode ordigno, veicolo «Lince» danneggiato seriamente. Polemico il generale Tricarico
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Afghanistan, ferito un militare italiano (25 luglio 2009)
ROMA - Un convoglio di militari italiani, di pattuglia nel settore della valle di Musahy, vicino a Kabul è stato investito dall’esplosione di un ordigno lasciato sul ciglio di una strada. Nessun paracadutista è rimasto ferito mentre il veicolo «Lince» ha riportato seri danni. Lo riferisce il comando del contingente italiano a Kabul. L’attentato è avvenuto questa mattina, intorno alle 8.30, a circa 15 chilometri a sud della capitale Afghana. La deflagrazione ha interessato il terzo mezzo della colonna composta da quattro veicoli.
Il generale Leonardo Tricarico (Agf) IL GENERALE TRICARICO - «Siamo sicuri che i blindati Lince non siano stati dotati di protezioni migliori per mancanza di fondi?». Nel giorno dell'ennesimo attacco ai militari italiani, è il dubbio che solleva il generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell'Aeronautica, secondo cui «bisogna capire - dice all'Ansa - se, e in che misura, sulla sicurezza dei nostri soldati in Afghanistan pesa la carenza di risorse». «Siamo sicuri che l'addestramento dei nostri è adeguato, o invece - si chiede ancora Tricarico - è vero che non sono state fatte esercitazioni perché mancavano i soldi per comprare le munizioni?». Ad avviso dell'alto ufficiale, «bisogna vedere se non si può finanziare meglio la sicurezza dei nostri soldati, magari con iniziative di finanza creativa». Più in generale, secondo Tricarico, sulla questione occorre «una complessiva rivisitazione di carattere politico e tecnico: solo dopo si potrà andare ai funerali - anche se tutti speriamo che non ce ne siano più - senza piangere lacrime di coccodrillo». «Far fuoco con i cannoncini dei Tornado non solo è inutile, ma anche pericoloso perchè in scenari come quello afgano il rischio di danni collaterali è certo». Il generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell'Aeronautica, già consigliere militare di tre presidenti del Consiglio, boccia senza riserve il piano di potenziamento delle dotazioni al contingente italiano in Afghanistan messo di recente a punto. «Colpire un talebano con le armi di bordo di un Tornado è facile come vincere al superenalotto, mentre il rischio di centrare bersagli diversi, civili innocenti, è altissimo», dice Tricarico all'Ansa. «Tecnicamente è così, tutti lo sanno. Proprio per questo le armi di bordo dei caccia non sono state mai usate neppure nei 78 giorni di operazioni aeree sui Balcani», aggiunge il generale, che coordinò quell'attività dal quartier generale alleato, a Vicenza.
08 agosto 2009
venerdì 7 agosto 2009
Un cronista de Il Giornale, con i nostri parà in Afganistan.

Reportage: in missione con i parà in Afghanistan tra bombe e talebani
di Gian Micalessin
Bala Mourghab (Afghanistan nord-occidentale) Il Lince arranca sul trituro di creta e sassi, sbuca dalla montagna, s'infila tra muretti d'argilla e fango, solleva nubi di polvere in un nulla spettrale dove gli umani sembrano svaporati nella fornace del mezzogiorno. Siamo i primi della colonna e il caporal maggiore scelto Ezio Picone non vuole sorprese: «Attenzione a tutta la maglia, non vedo anima, distanziamoci, mitraglieri con gli occhi ben aperti».
Il caporale Alessandro Iosca lassù in torretta non se lo fa ripetere. Era qui ad Akazai il 21 maggio. È stato il primo ferito delle oltre 15 battaglie combattute intorno alla base avanzata di Bala Mourghab, un'oasi verde, 265 chilometri a nord di Herat nel cuore di Badghis, la più settentrionale delle quattro province a comando italiano. Alessandro tiene di mira i vialetti, occhieggia i pertugi d'argilla, misura ogni metro di questo labirinto di fango calcinato dalla calura. La sua mente rimacina le immagini di due mesi fa. «Arrivavamo da Herat con una colonna lunghissima, pensavamo di essere alle fine del viaggio, ma qui dentro Akazai, a due chilometri dalla base, ci ritroviamo nelle sabbie mobili, le strade sono tutte allagate, trasformate in sabbie mobili grazie all'acqua dei pozzi costruiti con gli aiuti internazionali, poi, mentre cerchiamo di uscire dal fango, ci piove addosso l'inferno». Per quella colonna impantanata l'inferno è un uragano di colpi di mortaio, di razzi anticarro e raffiche di mitraglia. «Ricordo vampate, esplosioni, rovesci di proiettili da dentro le case e salve di razzi anticarro. Sento un colpo di frusta, chiudo gli occhi, li riapro, sono intero, sento solo il braccio sinistro un po' intorpidito e un pulviscolo di schegge sulla piastra del giubbotto, allora rimetto in posizione la mitragliatrice, rifaccio fuoco».
Cinque minuti dopo dal braccio sale una scarica di dolore vero. «Abbasso lo sguardo dal mirino, il sangue cola sull'avambraccio, la mimetica ha cambiato colore è umida e appiccicosa. Urlo di tirarmi giù ma solo un'ora dopo in infermeria capisco tutto. Un proiettile è passato da una parte all'altra del braccio, quando lo vedo, quando ricordo le schegge all'altezza del cuore mi alzo e cado svenuto». Meno di tre mesi dopo Alessandro è di nuovo qui, nel luogo del suo battesimo di fuoco e sangue. Qualcosa però è cambiato. Donne e anziani si sporgono dagli alveari d'argilla, sbirciano dai muretti. I bimbi invadono i viottoli, si rincorrono attorno ai blindati nel viottolo di Akazai. Sotto gli sguardi attoniti del capitano Girolamo Bufi, 33enne comandante della compagnia Linci del 183° battaglione Folgore, Haji Amin Ullah Haq, uno degli anziani del villaggio in turbante e barba bianca, invita i militari per un te. «Mai vista roba del genere - mormora il capitano -. Qui ci hanno sempre sparato addosso». Haji Amin Haq spiega: «Ora è diverso, c'è la tregua, la gente è stufa della guerra, vuole votare alle presidenziali, abbiamo chiesto ai talebani di lasciare queste zone e all'esercito afghano, di restituirci le case che avevano occupato, voi italiani non avete nulla da temere».
La Nafaq, la tregua, come la chiamano gli afghani, non suscita grandi entusiasmi nel colonnello Marco Tuzzolino, un 45enne ufficiale di origini siciliane al comando del 183° reggimento Folgore e della base di Bala Mourghab. «I fatti qui parlano chiaro: dalla battaglia di Akazai del 21 maggio abbiamo avuto più di 15 grossi scontri a fuoco. Per appoggiare i soldati governativi e i nostri uomini abbiamo impiegato per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale i mortai da 120 millimetri, abbiamo avuto 12 feriti tra i nostri uomini e in una sola battaglia abbiamo visto catturare e uccidere 15 soldati afghani. L'ultimo attacco a colpi di razzi l'abbiamo subito il 28 luglio intorno Doi Shuri mentre la “nafaq” era già in atto. Io non ho concordato nulla con nessuno... Gli accordi riguardano gli afghani i miei uomini sono semplicemente in pausa operativa».
Le cautele del comandante diventano ferite sanguinanti quando parli con i suoi ufficiali e con i suoi uomini. Il suo braccio destro, il 42enne tenente colonnello Roberto Trubiani, un super veterano reduce da Bassora dove ha servito come ufficiale aggregato con gli inglesi, dimentica gli orrori del 29 maggio. «Alle cinque di mattina gli afghani del primo battaglione sono rimasti tagliati in due dagli insorti mentre attaccavano le colline a est di Bala Mourghab, per tentare di salvarli abbiamo combattuto per cinque ore ma non c'è stato nulla da fare: 15 soldati afghani sono caduti nelle loro mani sgozzati, decapitati e dati in pasto ai cani».
Per comprendere i dubbi dei comandanti italiani basta uscire dalla base, attraversare il fiume Mourghab, spingersi nell'abitato. Il territorio sotto controllo governativo non si spinge oltre due chilometri dal bazar. Lì, nel quartiere di Gundham, oltre il posto di blocco tenuto da parà italiani e soldati afghani, sventola la bandiera bianca talebana con i versetti del Corano. Lì il 10 giugno il tenente Lorenzo Ballin si ritrova nel mezzo in un'imboscata, aggira il nemico e dopo due ore di battaglia guida al contrattacco i suoi parà, costringe i talebani a ritirarsi. Il giorno dopo sfiora la morte cadendo da una torretta di guardia e torna a casa con entrambe le braccia fratturate.
Nella zona nord-est della cittadina il 24 giugno il caporal maggiore Linda Mei, una 27enne mortaista del plotone Pegaso, si trova a difendere un compagno colpito alla testa, altri tre feriti e un mezzo in fiamme. «In quei momenti non hai paura non pensi a niente, ti muovi automaticamente, pensi solo a dare una mano ai colleghi». Ma nella mente di tutti questi ragazzi della guerra, reduci da tre mesi di combattimenti, c'è la consapevolezza di aver giocato un ruolo anche in quella che gli afghani chiamano “nafaq” e il comandamte Tuzzolino «pausa operativa». Una consapevolezza che il tenente colonnello Marco Trubiani sintetizza in poche parole.
«Gli insorti pensavano di metterci paura chiamavano i telefoni della base e ci sfidavano ad affrontarli in campo aperto. Noi non abbiamo mai mollato. Abbiamo seguito i nostri alleati afghani, li abbiamo sostenuti e quand'è stato necessario abbiamo picchiato duro badando bene a non colpire i civile. Due mesi dopo sono i talebani a ritirarsi. A conti fatti verrebbe da dire che la Folgore gli ha dato una lezione».
giovedì 6 agosto 2009
EROI VITTIME DI UNA GIUSTIZIA POLITICA DI PARTE. (click)
«Attaccamento alle istituzioni»: encomio in carcere per Ignazio D'Antone
L'encomio risale a qualche settimana fa. A rendere nota la notizia, il difensore di Contrada, l'avvocato Giuseppe Lipera, che si chiede, amaro, se già la sola motivazione di questo riconoscimento ufficiale «non basterebbe per avanzare istanza di revisione della sentenza di condanna basata su un reato non previsto dal nostro codice penale e cioè concorso esterno in associazione mafiosa».
La motivazione dell'encomio è molto articolata. «Detenuto in espiazione pena -si legge -dalle eccellenti doti complessive che ha sempre assicurato, peraltro a titolo esclusivamente gratuito, una spontanea e assidua collaborazione nelle attività scolastiche che caratterizzano la vita dell'istituto. In particolare - prosegue il riconoscimento ha fornito un contributo determinante nella preparazione dei volontari in ferma prefissata annuale al superamento delle prove concorsuali per il passaggio alla ferma prefissata di quattro anni».
L'encomio ricorda che gli operatori preparati da D'Antone hanno ottenuto ottimi risultati in sede di concorso. «La profonda attività di "umanizzazione" dimostrata nei confronti di tutta la popolazione carceraria - continua la nota di elogio -nonché il tatto sempre signorile riservato agli operatori è da prendere quale esempio da imitare malgrado le difficoltà connesse con lo stato di detenzione. Il dottor D'Antone - è la conclusione -ha dimostrato di essere in possesso di un attaccamento alle istituzioni profondamente sentito».
Catanese, capo della squadra Mobile di Palermo dopo l'uccisione, il 21 luglio del 1979, di Boris Giuliano, D'Antone negli anni Ottanta è stato uno degli uomini di punta della polizia di Palermo. Ha diretto, tra l'altro, anche la Criminalpol del capoluogo siciliano, quindi è stato nell'ufficio dell'Alto commissario per la lotta alla mafia e poi al Sisde. A chiamare in causa D'Antone - così come Contrada - alcuni pentiti. Due in particolare gli episodi contestati: il mancato blitz, nel 1984, all'hotel Costa Verde di Cefalù durante la festa di nozze di Antonino Spadaro, figlio del boss della Kalsa; e un altro presunto blitz mancato, nel 1983, quello al battesimo del nipote di Pietro Vernengo. D'Antone ha sempre respinto tutte le accuse, sostenendo di avere sempre fatto il suo dovere di poliziotto, altro che favoritismi ai boss. Anche i vertici di Polizia e forze dell'ordine chiamati al suo processo hanno confermato il suo comportamento irreprensibile. Ma, come per Contrada, non è bastato. La sentenza di condanna è definitiva dal maggio del 2004.
martedì 4 agosto 2009
Ricordo di Giovanni Spadolini, il riformista per tutte le Repubbliche (click)

A 15 anni dalla scomparsa
4 Agosto 2009
Questo articolo apparve su “il Riformista” il 4 agosto 2004, a dieci anni dalla scomparsa di Giovanni Spadolini. Ripubblicarlo oggi vuole essere un omaggio allo statista e alla sua sensibilità per i temi istituzionali, che ancora oggi discutiamo e proponiamo.
Spadolini riformista? Il quesito rampolla da un dubbio, si potrebbe dire da una riluttanza, che è quella di collocare il suo nome e la sua politica oltre la mediazione, il compromesso, la ricerca di un equilibrio. Oggi, a distanza di dieci anni dalla sua scomparsa, si può e si deve provare a leggere lo Spadolini uomo e uomo di governo come colui che volle e seppe gettare le basi per una politica di riforme, in materia istituzionale specialmente. Lo Spadolini mediatore, invece, appartiene ad un modo di pensarlo condizionato dal suo modo di essere bonario e ragionevole, e dal fatto che divenne leader di un partito che aveva intorno al 3 per cento di consensi elettorali (ma con lui superò il 5 per cento), e quindi privo di una concreta forza propositiva e riformistica ma piuttosto avviluppato nel bisogno di compromesso. E’ questo un modo di pensare Spadolini – e con lui la politica del partito repubblicano – non solo inesatto, ma che stride e confligge con quello che è stato l’impegno politico e istituzionale. Anche i richiami, talvolta un po’ abusati, che si fanno alle sue parole d’ordine, che sono poi titoli di alcuni dei suoi numerosissimi libri, quale “L’Italia della ragione” e “L’Italia di minoranza”, lasciano immaginare, nella vulgata, un modo di essere e di pensare non tanto riformistico quanto tradizionale, elitario e risorgimentale. Se adesso proviamo a tirare fuori lo Spadolini riformista, non è per svolgere un esercizio di revisionismo storico ma piuttosto per spolverare un pezzetto di storia istituzionale restituendole così il giusto colore. Con una precisazione. Qui si parlerà soltanto di Spadolini riformista delle (e nelle) istituzioni, in particolare della sua visione del ruolo dell’istituzione governo nella democrazia italiana. “Riformismo, il riformismo dei riformatori – scrive Spadolini nel libro intervista di Laterza – significa interpretare lo spirito profondo delle istituzioni, quale ci è stato consegnato dai padri fondatori della Costituzione, e renderlo esplicito nella storia del nostro tempo, al confronto con le esigenze nuove della società civile”.
A rileggere il mandato di Spadolini quale presidente del Consiglio (da giugno 1981 a novembre 1982, con la crisi di 16 giorni d’agosto dell’82, superati i quali si ebbe lo Spadolini bis), non si può non rimarcare l’esperimento che egli volle fare per costruire, sebbene a Costituzione invariata, un “regime del primo ministro”: un’anticipazione di modello di premierato, oggi possiamo dire, che esalti il ruolo guida del governo e del suo presidente in un sistema parlamentare parimenti forte. Capovolgendo così l’illusione ottocentesca, che la forza dei parlamenti fosse nella debolezza dei governi e viceversa. Come diceva Spadolini presidente del Consiglio: “A un governo istituzionalmente forte corrisponde un parlamento forte, a un governo debole corrisponde un parlamento debole”. I passaggi del “premierato” spadoliniano emergono chiaramente nelle scelte che vennero fatte e nelle proposte che furono avanzate durante il governo Spadolini. E non mi riferisco solo al famoso decalogo istituzionale. Innanzitutto, la convinzione che il governo debba essere sostenuto dai partiti senza essere dei partiti e neppure delle delegazioni dei partiti; quando si forma un governo si esce dall’articolo 49 della costituzione e si entra nell’articolo 94, cioè in un’area istituzionale più vasta estranea alla partitocrazia. Quindi, l’obiettivo è quello di creare la zona di distacco tra governo e partiti nel coagulo dei poteri di scelta, di direzione unitaria e di coordinamento attivo, per capacità di impulso proprio, del presidente del consiglio. Mettere al centro il presidente del consiglio vuol dire creare nell’istituzione governo il luogo delle responsabilità ministeriali; vuole altresì dire dotare la presidenza di istituti e procedure volte a dare sostanza ai poteri da esercitare: come avvenne con i decreti del 12 settembre 1981 e 29 aprile 1982 con i quali si crearono una serie di strutture di supporto alla presidenza. E poi, si sottolinea un altro proposito tipico del modello di premierato, che venne pubblicamente manifestato in un discorso in Parlamento: “Reputo necessario che si formi una prassi costituzionale tale per cui il presidente del Consiglio possa proporre al presidente della repubblica la revoca dei ministri e dei sottosegretari”. Ancora, la proposta di avocare al Consiglio dei ministri affari deferiti a comitati interministeriali, così come l’assunzione di diretta responsabilità del presidente per il settore dei servizi segreti. E poi c’è il decalogo istituzionale.
Dieci punti di revisione istituzionale sui quali venne data investitura ad un governo, fatto questo non solo inedito ma assai significativo. Non li elenco, ma li sintetizzo nella formula del “governo in parlamento”: e quindi riforme dei regolamenti parlamentari sul voto segreto, sulla legge finanziaria, e per garantire al governo “i tempi della decisione parlamentare sulle proprie iniziative programmatiche” (evitando così l’abuso dei decreti legge); e poi, riforma della presidenza del consiglio e dell’organizzazione ministeriale “su modelli europei”, riforma delle autonomie locali in grado di dare una nuova configurazione ai poteri locali. Insomma, un decalogo istituzionale certo non timido per allora, ma che portava in sé una grande riforma: quella dell’autonomia dei poteri di direzione e di promozione del premier, che rappresentava una novità dopo il tentativo De Gasperi, e che offrirà le condizioni politico-istituzionali, pochi anni dopo, a Bettino Craxi per poter governare a lungo e con piglio decisionista.
Spadolini riformista delle istituzioni? La risposta è si. Avvalorata da una specificazione tutta spadoliniana: in democrazia non si va al potere ma al governo. E con le valigie pronte.
lunedì 3 agosto 2009
Reportage a Bala Murghab (click)
L'ultimo Avamposto
Nel fortino della Folgore a due passi dalle linee dei Talebani. Di pattuglia con i parà nei villaggi afgani tra indifferenza e differenza. Caldo, polvere, sudore e disagi dei nostri soldati in missione per la pace di tutti.
Così ci si guarda intorno, tra un sobbalzo e un'altro quasi cadendo addosso al passeggero seduto accanto durante il volo tattico per raggiungere quell'angolo di mondo lassù, a nord ovest di Herat: Bala Murghab il fortino dove gli italiani combattono l'ultima battaglia contro i talebani. È un volo diverso da tutti gli altri, ma solo così ci si può arrivare.
Gli elicotteri non possono permettersi di seguire le rotte normali, sarebbero un obiettivo troppo facile per i razzi e i mortai che i talebani sembrano possedere in quantità industriali, e allora per sfuggirli si vola così bassi, quasi sfiorando il suolo con il grosso elicottero diventato improvvisamente aglile che tenta di arrotolarsi su cercando di sorprendere il nemico potenziale tracciando vistose curve nell'aria. Sembra incredibile come il gigantesco CH47 riesca a diventare un giocattolo nelle mani del pilota.
Noi, da dietro, continuiamo a guardare con sorpresa la terra che sfila a pochissimi metri di distanza. poi in una nuvola di polvere sottile, quasi impalpabile, atterriamo a Bala Murghab. Fango secco, paglia, qualche animale che pascola svogliato in un campo appena distante e il passo lento di un contadino afghano sullo sfondo è tutto quello che il panorama racconta: e lì di fronte la postazione italiana. Al centro del campo un grande edificio che una volta aveva un vero tetto e oggi viene coperto alla bell'e meglio da un paracadute: lo si capisce anche dagli oggetti, dalle soluzioni di fortuna, che colonnello Tuzzolino e i suoi uomini si sono inventati un modo per sopravvivere anche in questo posto.
Lui, il comandante della base ci viene incontro e mentre ci arrampichiamo insieme su una postazione appena più alta ci fa capire perchè questo posto è tanto importante. Il piccolo villaggio è diviso in due dal fiume, il Murghab, che in questa fase è diventato anche la linea di demarcazione tra la «safe area» il territorio messo in sicurezza dai nostri uomini, e la zona ancora nelle mani degli insurgents, talebani, rivoltosi e criminali a vario titolo che di là dal fiume dettano legge. Per lunghi mesi, ogni notte la base è stata l'obiettivo dei tiri di mortaio, dei razzi, dell'artiglieria nemica. Nonostante gli attacchi gli italiani sono stati li, non si sono mossi, hanno dimostrato che avrebbero tenuto posizione, e allora le aggressioni si sono moltiplicate. Il comandante ci spiega che anche qui come nel resto dell'Afghanistan il controllo del territorio viene realizzato con l'aiuto delle forze afghane, esercito e polizia, che organizzano check point nella zona degli insurgents.
Ma tra le brande nelle caserme afghane si raccontano storie atroci di soldati finiti nelle mani dei Taliban, uccisi lentamente e attraverso mille torture: così per loro stare là fuori è ancora più dura, ma questa è una guerra che si combatte metro per metro, per stabilire chi, realmente, ha il controllo sul villaggio. Sono queste le cose che si pensano e si capiscono dal nostro punto di osservazione sotto il sole a picco, lì in cima agli escobastion (i sacconi di rete, juta e sabbia che servono per difesa), mentre il colonnello Tuzzolino ci indica i due check point avanzati, uno proprio degli afghani, e l'altro controllato dai nostri soldati, e tutti e due ci paiono così pericolosamente distanti, proprio lì in mezzo quella striscia di terra in mano agli insurgents. E alla fine ci sembra quasi inutile stare lì fissare i movimenti tra le cassette di paglia e il verde sulle sponde dei canali, tentare di immaginare gli spostamenti, i volti, le azioni.
Non ce la facciamo ad accettare di rimanere a vedere cosa succede da qui, protetti dallo scorrere del Murghab e, appena parte la prima pattuglia cerchiamo di aggregarci, di andare a vedere. Alle tre del pomeriggio salire a bordo dei Lince non è un'esperienza felice, e il caldo soffocante, la sabbia, il sudore si superano solo pensando che gli uomini che stanno uscendo con noi erano già là fuori fino a due ore fa. Sono rientrati in base, hanno mangiato qualcosa al volo e poi di nuovo in strada, questa volta con il problema aggiuntivo dei giornalisti al seguito: davvero, basta concentrarsi su questa realtà per trovare tutto di colpo più accettabile. In cinque minuti di viaggio siamo già nel centro del villaggio, e proprio quei cinque minuti danno il senso dei due mondi così diversi che convivono in questa terra: la tranquillità antica dell'Afghanistan rurale da una parte e l'inquietudine sotterranea e violenta dell'Afghanistan dei talebani, dei commercianti di armi e droga dall'altra.
I negozietti sono quasi tutti chiusi, ma davanti alle poche serrande alzate ci sono piccoli gruppi di uomini che parlano, guardano o bevono il tè. Quasi tutti si contentano di inchiodarci addosso sguardi fissi, difficili da decifrare. Qualcuno non riesce a mascherare uno sguardo sorpreso quando si rende conto che lì in mezzo ai soldati c'è anche una donna, ma sono solo sguardi sfiorati dal finestrino. Non ci fermiamo volutamente, sostare lì in mezzo vorrebbe dire turbare la calma apparente del momento, intaccare la loro pretesa normalità e in qualche misura provocarli, così attraversiamo lentamente le vie polverose senza colore. Ancora svolte, qualche centinaio di metri, i Lince sobbalzano a ogni metro e continuano ad avanzare nel cuore del villaggio finchè arriviamo al check point dove i paracadutisti della Folgore tengono posizione in pieno territorio ostile. Anche qui i ragazzi si sono organizzati, in qualche modo.
A piano terra hanno due brandine e un po' di bottiglie di acqua, sopra una postazione di osservazione coperta dai sacchi di sabbia e dai teli mimetici che nasconodono canocchiali e fucili di precisione. Lì di fronte, a pochi metri, il nemico. I talebani sono arroganti, fanno sventolare la loro bandiera, un drappo bianco in cima a un lungo bastone, su una casa abitata da famiglie normali. È ancora una volta la loro tecnica subdola, consumata, la vediamo qui e l'abbiamo vista identica a sud, seguendo i marines in azione. Questi combattenti ammantati di retorica e di nessuno scrupolo, usano la gente normale, i contadini, gli abitanti dei villaggi come scudi per le proprie azioni. I talebani prima attaccano, poi ripiegano nei luoghi dove vive la gente normale. Si nascondono nei villaggi, tra le famiglie dei contadini in modo che ogni risposta armata degli uomini dell'ISAF si possa tradurre in un terribile risultato di vittime civili. E anche qui a Bala Murghab loro bandiera che sventola a un passo dai check point in fondo non è altro che la conferma del loro modo di agire.
Così i due parà di guardia sulla torre seguono i movimenti tra le case, immobili per ore con lo sguardo fisso nel binocolo. la scena è immobile, il senso di attesa sovrasta tutto. E quel silenzio irreale che inquieta. al piano di sotto sulle brande in mezzo alla polvere qualcuno butta lì una battuta e strappa mezzo sorriso, la giornata è ancora lunga. Noi ci sentiamo un po' turisti inutili venuti a guardare da vicino l'inquietudine senza possibilità di afferrarne il senso. vorremo riuscire a raccontare delle elezioni che ci saranno, se ci saranno qui, solo grazie al lavoro di questi uomini, o della tregua di queste ore che sembra tenere riducendo a pochi suoni gli spari nella notte. Ma poi sul racconto delle cose che sono vince il senso di immutabilità di questo posto.
Le rughe scolpite su quei volti che sembrano raccontare la loro appartenenza a questa terra come noi forse non la capiremo mai. Così rimane tutto fermo, fuori dal tempo. Da una parte i talebani e le loro mani sul villaggio, la violenza della loro legge. Dall'altra gli uomini della Folgore venuti da lontano a cercare di garantire a questa gente non l'applicazione di un modello che non gli appartiene, ma la possibilità di scegliere per la propria vita. Un lusso inedito persino difficile da capire per chi da sempre sopravvive nella polvere di fango delle case di Bala Murghab.
sabato 1 agosto 2009
IMPUDENZA (ANTI)DEMOCRATICA (click)
Avete capito dove può arrivare l’impudenza? Arriva a fingere ancora una volta che il capo del governo debba rispondere di qualcosa per cui è stato abbondantemente diffamato ma mai incriminato, mentre loro, i simpatici parlamentari del Pd, coinvolti in scandalo di finanziamento illegale e corruzione, non si sentono di rispondere di niente. Che i primi firmatari della sconcertante iniziativa siano donne, vi risparmio l’elenco di solite note e qualche ignota, rattrista ancora di più. Davvero le elette di un partito in estinzione da cannibalismo non hanno problemi più seri dei quali correre a occuparsi? No, è l’antica pretesa di superiorità a prevalere, è una pratica antica, potremmo definirla di tradizione leninista, ma il suo perfezionatore fu il molto compianto e altrettanto sopravvalutato come modernizzatore, Enrico Berlinguer. La regola è semplice e diabolica: se ruba uno dei tuoi avversari, è l’intero partito, sistema, governo, ad essere corrotto, se succede a loro resta un episodio personale, al quale opporre sdegno presunto, e scandalo per chi dovesse supporre che il problema è politico e collettivo. Se gli indagati sono gli avversari, hanno già in mano la condanna di tre gradi, se sono loro, invocano il garantismo come una sacra icona. Non è forse così che in un batter di mani compiaciuto si sono liberati del proprio pesante nome cancellato dalla storia democratica, comunista, limitandosi a cambiarlo senza pensieri? Non è forse un pesante passo indietro nel processo di un qualche riformismo che Massimo D’Alema intende fare, insieme alla sua spalla, Bersani, per riprendersi un pezzetto di potere? Loro invece, parlamentari donne e uomini, si occupano della vita privata di Silvio Berlusconi.
Sarà bene allora ricordare a loro e a noi su che cosa si sta indagando.
Secondo il Pm in Puglia c’è stato un «patto criminale» fra imprenditori e politici, dal quale i partiti al governo, il centro-sinistra, comprese le liste del neo fiammante rieletto sindaco, Emiliano, dalemiano anche lui, almeno fino all’altroieri, avrebbero ottenuto illeciti finanziamenti da alcuni grossi industriali del settore sanitario, beneficati da appalti per milioni di euro, che tornavano poi in parte ai partiti in una partita di giro. Ai responsabili dei partiti inquisiti sono stati consegnati, prima della perquisizione dei carabinieri per acquisire i bilanci dal 2005 a oggi, gli anni della giunta Vendola, atti che ipotizzano l’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, la concussione, il falso, la truffa, il voto di scambio e il finanziamento illecito, con la non lieve aggravante di associazione mafiosa, vista la frequentazione che risulta dalle intercettazioni di alcuni indagati con esponenti della Sacra corona unita, la mafia pugliese. Secondo la pubblica accusa l’ex assessore pugliese alla Sanità, Alberto Tedesco, ora senatore del Pd, dalemiano, aveva nel sodalizio criminoso «il ruolo di vertice» mentre il suo collaboratore Mario Malcangi era il collegamento tra Tedesco e il mondo imprenditoriale, ed era incaricato di tessere «i contatti e a portare a compimento gli interessi del sodalizio». È scritto nel decreto di perquisizione. Attendiamo le prove delle accuse, certo è che Nichi Vendola si è affrettato un mese fa a eliminare tutti i sospetti, rimpastando la giunta. Certo è che ci hanno deviato per un paio di mesi almeno sulle D’Addario, e hanno cercato di fermare il magistrato accusatore. Era il filone dello schermo, gli è andata male stavolta.
POVERA PATRIA MIA CHE DEVE ASSISTERE A QUESTE COSE ! (click)
di Peppino Caldarola
La «questione morale» irrompe nel congresso del Pd. Ci aveva provato maldestramente Ignazio Marino il giorno dopo l’arresto dello stupratore di Roma, Luca Bianchini, dirigente di sezione del Pd. Fu un tentativo ridicolo che provocò scandalo e costrinse il senatore ad una rapida marcia indietro. In verità appena pochi giorni dopo fu lo stesso Marino ad essere coinvolto in una brutta storia. L’università di Pittsburgh l’accusò di aver falsificato alcune note spese e il candidato alla segreteria del Pd, dopo aver gridato al complotto, ammise le irregolarità. Ora tocca alla bufera pugliese che vede coinvolti tutti i partiti di centro-sinistra, fra cui il Pd, in una brutta storia di tangenti e di mafia, e di escort, per forniture sanitarie.
L’ultimo anno ha visto diverse organizzazioni e molti dirigenti del Pd messi sotto tiro dalla magistratura. Il record delle inchieste spetta a due regioni. In primo luogo alla Campania dove Antonio Bassolino è stato inquisito per il ciclo dei rifiuti. Sempre in Campania è sotto inchiesta la sindaca Rosa Russo Iervolino e un’indagine riguarda anche la provincia di Salerno. L’altra regione record del presunto malaffare è la Calabria, dove la giunta Loiero è da tempo sotto i riflettori dei magistrati e l’uomo forte del Pd, l’ex segretario regionale Nicola Adamo, ha il suo gran daffare per tirarsi fuori da indagini che lo hanno lambito. Inchieste si stanno occupando della giunta regionale di centro-sinistra della Basilicata. Un’inchiesta ha travolto la giunta regionale abruzzese e il povero Del Turco. Risalendo la penisola troviamo gli avvisi di garanzia all’ex assessore della giunta Domenici di Firenze, Graziano Cioni mentre ad Ancona il 4 febbraio un’indagine toccò il sindaco Sturani che non è stato più ripresentato nelle recenti amministrative. Questi sono i casi maggiori poi vi sono numerosi piccoli episodi locali.
In questo quadro cade fragorosamente l’indagine pugliese. Qui il salto di qualità è straordinario. L’intero sistema politico del centro-sinistra è sotto indagine su una materia, la Sanità, che era stata fatta oggetto di una dura polemica di Vendola contro la giunta Fitto e contro Fitto medesimo quando gli capitò di finire sotto i riflettori di un’altra inchiesta giudiziaria. Il «caso pugliese» differisce dagli altri perché il sospetto degli inquirenti è che non ci si trovi di fronte ad un certo numero di «mariuoli» ma al cospetto di un vero sistema di potere che collega uomini politici, personaggi degli enti erogatori e imprenditori scaltri. L’indagine riguarda gli ultimi quattro anni della giunta regionale, praticamente dall’inizio della legislatura.
Di fronte a tutto questo i candidati alla segreteria del Pd tacciono, in attesa che passi «’a nuttata». Eppure «’a nuttata» sarà lunga da passare perché gli scandali, al di là delle responsabilità personali da accertare, indicano che nel Sud, ma anche in molte realtà del Centro-Nord, il Pd ha subìto una vera mutazione genetica. In molte realtà i gruppi dirigenti non sono più selezionati attraverso la pratica antica della cooptazione. Per fare il dirigente devi pagare. Nei vecchi partiti i leader sceglievano i propri luogotenenti, a cui affidavano il compito di controllare il consenso, attraverso l’uso della clientela. Ora la cooptazione fa prevalere altre priorità. Il dirigente periferico che vuole emergere deve dimostrare di essere in grado di procurare quattrini, di saper navigare nelle acque dello stagno in cui affari e politica si incrociano.
La politica è costosa e chiunque si immetta nel circuito politico deve avere una propria autonomia finanziaria e sarà tanto più apprezzato dai vertici locali e da quelli nazionali quanto più sarà in grado di essere autosufficiente nell’organizzare iniziative che non cadano sul bilancio del partito. In ogni realtà c’è un uomo forte che è in grado di organizzare una festa, una cena di centinaia di persone, di stampare manifesti e materiale elettorale che saranno pagati da imprenditori compiacenti. Si racconta anche di note spese di sartoria che finiscono nei bilanci di alcune aziende. Si crea così una sorta di catena fra questi «found riser» locali e quelli che controllano il partito a livello comunale, provinciale e nazionale. È una struttura affaristica che è diventata la vera ossatura del partito «leggero».
Un tempo c’erano i vecchi amministratori che sulle tessere e sulle feste dell’Unità costruivano il tesoretto che serviva alla politica. Oggi questo nuovo tesoretto non sempre va nelle casse di partito ma finisce nelle diverse associazioni dirette spesso da parlamentari o ex parlamentari. Ma questa raccolta di fondi non si esaurisce nella richiesta di denaro ai «compagni benestanti», ma deve dar vita a una vera e propria impresa politico-economica. Qui nascono l’affare e l’affarismo. Qui il giovane dirigente ambizioso in grado di sostenere le spese della propria organizzazione e della propria campagna elettorale scopre che c’è un appalto che può favorire un amico generoso. Nel Sud questo appalto il più delle volte riguarda il mondo della Sanità. A questo punto c’è il salto di qualità, l’ingresso nel cenacolo dei potenti, la proiezione nel ruolo nazionale. È un reticolo di rapporti fittissimo, difficile da rompere, ma che soprattutto nessuno vuole rompere. Sarebbe interessante sapere dai candidati segretari del Pd se intendono fare qualcosa per spezzare questo intreccio affaristico. Nel Pd, almeno nel Sud, c’è una gigantesca «questione morale».